La bestia che gridò amore nel cuore del mondo di Harlan Ellison, racconto fantascientifico vincitore dell’edizione 1969 del premio HUGO, ha come tema l’origine del male, identificato come una sorta di pazzia che dilaga nell’universo. Lo stesso titolo, trent’anni più tardi, viene ripreso dall’episodio conclusivo di una delle serie anime più importanti di sempre, Neon Genesis Evangelion di Hideaki Anno. L’adattamento italiano della puntata pone un particolare accento sulla sillaba maiuscola “AM” (io esisto), facendo sì che la resa grafica sia “La bestia che gridò AMore nel cuore del mondo”. Un grido di rivendicazione della propria esistenza, lo stesso che muove i protagonisti di Una sterminata domenica, opera prima di Alain Parroni, classe 1992 nato nella provincia romana, più precisamente ad Ardea.

Il film ruota attorno alle vicende di tre post millenials della campagna laziale, travolti dal momento di passaggio tra l’età adolescenziale e quella adulta, in una perenne lotta contro la quotidianità alla ricerca di un senso, e di un segno da poter lasciare (“Ma che bisogna fa pe’ avecce ‘na statua”, dice uno di loro) nell’unico modo che conoscono: aggressivo, volgare, pop. Kevin riempie i muri della città con la sua tag “NIVEK”, il suo nome al contrario; Brenda, cresciuta da una spiritualità pseudo-religiosa, aspetta un bambino da Alex che ha appena compiuto vent’anni, il tutto vagando per la Città Eterna, in cui tutto non è più, o non è ancora. Il film, infatti, è pieno di impalcature, non è chiaro se per ergere qualcosa di nuovo o ristrutturare le rovine. Anche gli abiti, le moto, i dispositivi elettronici, tutto è volto alla resa di una sensazione atemporale, un “vintage” in cui passato e futuro non sembrano più possibili. Ed è forse questo l’elemento più generazionale del film: non tanto la paura per il futuro, quanto la sensazione che il mondo sia già finito, e un futuro non sia più possibile immaginarselo. I tre protagonisti attraversano Roma come il viaggiatore di Sans Soleil di Chris Marker, omaggiato nei titoli di testa, ma a differenza di costui il tempo non può più essere memoria e nostalgia: un ragazzo durante la festa di Ferragosto non può mostrare la fotografia di una strana luce verde, forse un UFO, perché il suo telefono è scarico. Questo tema è stato già esplorato da Parroni nel suo cortometraggio Adavede, nel quale la memoria corrotta di un cellulare impediva la trasmissione dei ricordi. È come se il film si svolgesse in uno sterminato presente, in cui il lunedì non arriverà mai. I protagonisti sono intrappolati in inquadrature che si loopano come delle GIF, costretti ad aspettare treni che sono sempre in ritardo, mentre cercano di rubare il tempo, come fa Kevin con gli orologi dei turisti distratti, o tramite il photobombing, inserendosi a forza nella memoria collettiva degli sconosciuti.

Ed è forse l’amore l’unica forza in grado di far scorrere in avanti le lancette dell’orologio di questa sterminata domenica. Alex, travolto dall’amore alla scoperta dell’imminente paternità, inizia a “mettere la testa a posto”, unico tra tutti i personaggi ad avviarsi verso un processo di maturazione. Comincia a lavorare con un vecchio pastore, simbolo di un mondo arcaico, che lo obbliga al confronto con la brutalità del reale: l’agnello ucciso dal cane-lupo e la violenza di una criminalità a stampo mafioso che serpeggia nel fuoricampo. È significativa anche la scena in cui perde il cellulare nel sangue delle galline sgozzate: ormai è adulto e non può più ignorare la realtà attraverso la fuga nel virtuale. Quella di Alex è un’idea di amore cristiana, intesa come sacrificio del sé per il prossimo, ma quando questa fede si spezza, Alex si perde. Verrebbe da leggere l’arco finale di questo film come una riflessione sulla collettività in contrapposizione all’individualismo (nel finale sono tanto romantiche quanto spaventose le parole di Brenda che, tenendo in braccio il neonato, dice: “È mio e basta”). Anche fare un figlio diventa un atto egoista e individualista, persino la famiglia smette di essere una forma di comunità, la religione non aggrega più, non esiste più la filosofia, non c’è più nemmeno la politica. Persino lo scalcinato attentato in piazza San Pietro non è mosso da alcuna ideologia, è soltanto un disperato grido di amore nel cuore del mondo.

Esattamente quarant’anni fa, nell’epilogo di Sans Soleil, Chris Marker immaginava che nel futuro sarebbero esistiti dei graffiti elettrici che avrebbero permesso a chiunque di scrivere una lista delle “cose che scaldano il cuore”, per offrire o per cancellare. “In that moment poetry will be made by everyone.” E non è difficile credere che i graffiti elettronici di Marker altro non siano che quei dispositivi capaci di registrare, filmare, condividere, da cui probabilmente state leggendo questa recensione. Forse allora è proprio questa la pazzia che dilaga nell’universo del racconto di Harlan Ellison: un mondo in cui l’individualismo regna sovrano, in cui tutti sono imprigionati nelle automobili e nessuno presta attenzione alle richieste di aiuto delle nuove generazioni, come Kevin durante la scena del parto. Un mondo senza genitori, senza famiglie e senza comunità.

Con l’attentato al Papa, Alex vuole diventare immortale, cerca di entrare con violenza a far parte della Storia dell’umanità. Ma se tutti vogliono tramandare soltanto la propria storia (Instagram), prima o poi le troppe storie straborderanno dai dispositivi e sfoceranno nella realtà. Ma forse tutto questo è già avvenuto. L’11 settembre, in ogni luogo, gli schermi riproducevano simultaneamente il crollo delle torri gemelle e le persone intervistate ripetevano sotto shock la stessa frase: “Non ci posso credere, sembra un film”. Osama Bin Laden è riuscito a rendere la realtà più fittizia e cinematografica del cinema stesso: l’attentato infatti era costruito secondo le regole della drammaturgia e orchestrato nei minimi dettagli come da un grande regista. Non stupisce in quest’ottica scoprire che il famoso terrorista era anche un grandissimo appassionato di Walt Disney e che sempre Chris Marker ha dedicato proprio a Bin Laden il cortometraggio Kino (2015), nel quale lo definisce lo “spettatore perfetto”.

L’arte nasce dall’istinto di riproduzione, riprodurre se stessi e lasciare una testimonianza della propria esistenza, dalle impronte indelebili delle pitture rupestri fino ai selfie. Viene da chiedersi se sia sempre stato così: l’arte una volta aveva il potere di creare attorno a sé delle comunità oppure è sempre stato un atto egoista? Se così fosse allora l’attentato di Alex in Una sterminata domenica sembra profetizzare che sarà proprio l’istinto di riproduzione a portare, un giorno, la nostra specie all’estinzione.