Dearest Fiona

Per Fiona Tan, il tempo è insieme materiale grezzo e strumento di lavoro. L’artista contemporanea di origini indonesiane, cresciuta in Australia e Olanda, dove si è dedicata agli studi d’arte, elige l’immagine e la sua scomposizione attraverso il montaggio a mezzo espressivo privilegiato. La risignificazione dell’immagine è alla base di Dearest Fiona, commissionato dall’Eye Filmmuseum di Amsterdam e presentato alla Berlinale 2023 nella sezione Forum. Il film è un flusso di coscienza tessuto sull’accostamento tra filmati d’archivio di attività produttive dell’Olanda del primo Novecento, e la lettura di una serie di lettere che il padre dell’autrice le spedì nell’arco di quasi dieci anni, a partire dal suo trasferimento ad Amsterdam nel 1988.

La stessa sostanza del film è allegoria del carattere di contaminazione che è proprio della memoria, espresso attraverso la continua messa a confronto del collettivo e l’individuale. Nelle parole di Pap, firma che chiude ogni lettera, si alternano, senza soluzione di continuità, affettuosi racconti di famiglia e preoccupazioni e riflessioni sui repentini cambiamenti economico-sociali che il mondo stava attraversando negli anni del crollo del Muro. Globale e privato paiono inscindibili, e la scelta del materiale d’archivio, lavoro umano e gestuale, gradualmente sostituito da quello delle macchine, assieme al consapevole scollamento temporale che dissocia immagine e parola, sembrano il tentativo di sconfessare la promessa capitalista e liberista di astrarre l’uno dall’altro.

Memoria è contaminazione ma anche identità, tematica che attraversa direttamente collateralmente ogni opera di Fiona Tan. E quindi, tra le immagini di bambine vestite dagli abiti tradizionali, l’autrice lascia comparire per qualche secondo anche il volto di una ragazza indonesiana, sofferta reminiscenza coloniale ed ennesima intrusione del privato nella presunta oggettività documentaria. [Valentina Pietrarca]

That day, on the river

Il film di cui scrivevo a Gennaio dal 34 Trieste Film Festival, Dezerteri, scrutava l’immagine con un’angoscia non dissimile da quella di Lei Lei e del suo That day, on the river, in concorso in questa nuova edizione di Archivio Aperto.

Damir Markovina utilizzava l’immagine presente della città di Mostar per affermarne l’impossibilità di scorgervi il passato, e con la stessa intenzione Lei Lei trova invece proprio nelle immagini d’archivio della Cina degli anni ’60 un muro imperscrutabile. Le voci che si sentono sono quelle di Lei Lei stesso e del padre, in un dialogo/intervista che tenta di recuperare i ricordi dal passato di entrambi.

Ciò che si ascolta, ossia un padre che da bambino non era niente e nessuno, incapace negli sport e senza amici, così come da adulto, escluso e bullizzato dai colleghi di lavoro, comunica con un’immagine ripetitiva e inceppata, in cui a parlare sono corpi muti di giovani e bambini in pose e movimenti assolutamente irrilevanti. La pellicola scorre a tratti, rallenta, torna indietro, e il suo contenuto si fa misterioso: dov’è quello che stiamo sentendo? Dove possiamo scorgerlo? Cosa ci dicono i vecchi film, le riprese della rivoluzione rossa, di un bambino cresciuto con il padre mandato in un campo di lavoro?

Ma così come l’immagine, anche il ricordo sembra inafferrabile. Il limite della memoria coincide con il limite del mezzo filmico, e una giornata passata insieme dal padre e dal figlio si apre a versioni diverse e impossibili da ricostruire. That day, on the river è un processo mentale sporadico e confusionario, in cui le cose passate esistono solo nei collegamenti refrattari della memoria, e non si può chiedere al film di riuscire a valicare quel limite.

Le immagini costruiscono tra loro relazioni arbitrarie, fatte di simboli simili, movimenti, luoghi, accomunate dall’acqua di un fiume che forse è sempre lo stesso, e che scorre in una pellicola in bianco e nero così come nei fotogrammi digitali di un drone. O forse l’immagine si prende gioco di noi, creando spazi che non esistono. L’unica cosa che si profila nitida è la prodigiosa difficoltà della visione. [Emanuele Tresca]