Realizzato subito dopo l’onda del Kitchen Sink Realism e in concomitanza con altre pellicole dedicate alla swinging London (Help! di Richard Lester e gli altri film beatlesiani), Darling è il film che ha permesso a John Schlesinger di spiccare il volo che l’avrebbe di lì a poco condotto tra le colline di Hollywood. Ad accompagnarlo nel salto verso i grandi studios d’Oltreoceano è una semisconosciuta Julie Christie – già diretta nel precedente Billy il bugiardo (1963) – che è qui protagonista assoluta, e che proprio grazie a questa interpretazione verrà insignita di un Oscar. In effetti il film pare essere costruito per esaltare la bellezza scostante e indomita del personaggio, una giovane donna che gode del vantaggio di un aspetto avvenente e che, spinta dal proprio arrivismo, lo utilizza per intrecciare relazioni con diversi uomini, tutte finalizzate a una personale scalata sociale. Priva di particolare acume o cultura, Diana Scott è anche troppo indolente per architettare da sè occasioni e vantaggi, che le vengono invece puntualmente offerti dai personaggi maschili. Sono proprio l’assenza di senso di colpa e un’inquietante incoscienza del mondo i sentimenti che Schlesinger intende raccontare, assieme alle tensioni che percorrono la Londra dei primi anni Sessanta: edonismo, emancipazione femminile, libertà sessuale e argomenti fino ad allora ritenuti tabù sociali, come l’aborto e l’omosessualità.

La narrazione si articola intorno a un flashback di Diana, in un meccanismo di presa di distanza da quanto viene mostrato che fa emergere la sottile ironia di Schlesinger, suo marchio di fabbrica anche nelle più commerciali tra le successive produzioni hollywoodiane. I titoli di testa si sovrappongono alle immagini di un attacchino intento a ricomporre un manifesto su cui campeggia la gigantografia del volto di Diana. Si tratta della pubblicità di una rivista che pubblicherà a breve la storia della protagonista. Se questa promessa di una biografia dettagliata costituisce già un solido escamotage per giustificare l’utilizzo della voice off di Diana che racconta i momenti salienti della propria esistenza, la sua funzione si arricchisce di significati quando viene inquadrata la base su cui è incollata l’immagine glamour: un vecchio manifesto, ormai scolorito, che invita alla mobilitazione contro la fame nel mondo. Sin dall’incipit le grandi tragedie del reale vengono dunque spodestate dal dolore finzionale e ultra-drammatizzato di Diana, che riscrive la sua vita in formato soap opera o fotoromanzo, dipingendo annoiati incontri con l’altro sesso come appassionate love stories. Questo motivo torna più volte nel film, ad esempio quando Diana entra in una camera d’albergo con il nuovo amante Robert (Dirk Bogarde) e getta da parte una valigia contenente dei quotidiani. La macchina da presa abbandona il centro dell’azione – la coppia – per svelare un titolo relativo a una tragedia accaduta in una miniera. È evidente come il ricorrere di questi momenti non voglia solo rafforzare le conflittualità dell’universo entro cui si muove la protagonista, ma intenda anche collocare l’opera nella dimensione di un affresco sociale sullo spirito generazionale del secondo dopoguerra: com’era già stata messa in scena in Billy il bugiardo, la classe media inglese appare completamente distaccata dal mondo, votata alla mediocrità e concentrata nella ricerca sistematica di strategie per evadere la noia asfittica del quotidiano (Diana accenna più volte – tra naïveté ed esaperata convenzionalità – a domande come: “Non dovrebbe essere facile essere felici?”). 
 
 
Schlesinger sembra quasi compiaciuto nel farci aderire al punto di vista di una narratrice inattendibile, che preferisce rappresentarsi come eroina romantica e vittima di un’insoddisfazione esistenziale pur di assolversi dalle proprie mancanze. Quello che seduce in Darling, dunque, più che l’audacia nel mettere in scena il corpo nudo di Julie Christie (in una sequenza che l'edizione in dvd strappa alla censura dell’epoca) e alcuni temi fino a quel momento proibiti, è proprio il camouflage dello sguardo di Schlesinger, ottenuto attraverso due approcci alla narrazione diamentralmente opposti. Nella prima parte del film, il regista sembra sostenere il racconto di Diana e cercare di conferirgli serietà ricorrendo a una tecnica registica evidentemente debitrice della coeva Nouvelle Vague francese e del Free Cinema inglese, pullulante di falsi raccordi, zoom, inserzioni di elementi eterogenei (se in Billy il bugiardo Schlesinger faceva uso di un falso telegiornale, qui costruisce una simulazione di reportage televisivo, nella quale un giornalista interroga i passanti a proposito di “…Quello di cui la Gran Bretagna dovrebbe vergognarsi”). Nella seconda parte, invece, il regista si adagia pedissequamente sui vagheggiamenti di Diana, piegandosi a un registro da mélo classicheggiante e kitsch, che è poi il tono con cui la protagonista ama ritrarsi. 
 
Non a caso, a suggerire che quello che vediamo possa essere semplicemente il frutto di un’autorappresentazione, sono le pareti riflettenti e gli specchi che costellano l’intera pellicola. Quando Diana abbandona il primo marito per intraprendere una relazione con il giornalista Robert, i due guardano attraverso delle finestre rotte una casa vuota. Più tardi, le stesse finestre verranno chiuse e la casa abitata. In un’altra scena, Diana guarda distrattamente dall’appartamento che ora condivide con Robert e manifesta la sua noia grattando il vetro dell’infisso, mentre l’uomo alle sue spalle scrive a macchina un articolo. Oltre al motivo della finestra, in Darling ricorrono anche altri filtri di vetro, come il binocolo con cui Diana spia la famiglia di Robert e soprattutto lo specchio su cui lascia i suoi messaggi al compagno. La relazione della coppia con i suoi momenti rilevanti è raccontata dal rossetto rosso steso sulla superficie riflettente, ed è lo stesso rossetto a lasciare una macchia indelebile quando Diana, definitivamente abbandonata da Robert, proverà a cancellarlo. Imprigionata in una gabbia di cristallo, Diana non può che lavorare per un’agenzia che porta il nome Glass e nutrire un attaccamento feticistico per la boccia del suo pesce rosso, al centro di molte scene (tanto che la stessa macchina da presa più volte si trova a filmare i personaggi attraverso questa superficie ricurva e distorcente). Scelta come testimonial nel ruolo di “ragazza felicità”, Diana tenta di salire agli onori della cronaca mondiale sposando un nobile italiano; ma quello che rimane di lei, nonostante la cornice barocca del palazzo e la presenza di una foltissima servitù, è un corpo spogliato che inorridisce constatando davanti a uno specchio la propria inguaribile solitudine. Tuttavia, nonostante questa fulminea parentesi drammatica e intimista, Schlesinger decide di non concedere al racconto di Diana un finale debitamente struggente o sentimentale: l’ironia dell’avvio prende nuovamente il sopravvento, e al posto di un toccante addio definitivo tra Robert e la protagonista, la macchina da presa si sposta a immortalare un’anziana donna che canta in mezzo a Piccadilly Circus. Un altro contrappunto sociale che sminuisce la narratrice, e forse anche noi, attenti osservatori di un’esistenza che altro non è che pura vacuità.
 
DARLING, regia di John Schlesinger, Gran Bretagna, 1965, 128' (Teodora – Flamingo Video)