Il primo sguardo del quale Sebastian Meise consente d’appropriarsi nel suo Great Freedom è quello della sorveglianza. Una cinepresa della polizia che cattura, da dietro lo specchio semiriflettente di un bagno pubblico, corpi maschili avvicinarsi l’un l’altro con circospezione, per consumare rapporti fugaci e nervosi, al tempo stesso incerti e spontanei proprio perché inconsapevoli d’essere osservati. Non è un caso che il film, vincitore del Premio della Giuria in Un Certain Regard a Cannes nel 2021, si apra con una sequenza che ricorda il lavoro di William E. Jones in Mansfield 1962 (2006) e Tearoom (2007), entrambe indagini sull’intricato rapporto tra desiderio, sessualità, repressione e controllo. Il montaggio di finti filmati d’archivio della polizia messi in scena da Meise introduce la tematica cruciale attorno alle politiche del corpo, qui inquadrate nel contesto della Germania post-bellica, svelando al contempo il carattere intimamente voyeuristico dell’arte cinematografica.

Da questo punto in poi, il film cambia forma e diventa un Kammerspiel fatto di corpi intrappolati, come quello di Hans, protagonista genetiano che sembra aver ereditato il candore anti-borghese del Franz “Fox” Bieberkopf di Rainer Fassbinder ne Il diritto del più forte (1975). Hans è un omosessuale trasferito dai campi di concentramento direttamente in prigione, per finire di scontare la sua condanna ai sensi del Paragrafo 175 del codice penale tedesco, che tra il 1871 e il 1994 criminalizzava qualsiasi atto sessuale tra uomini. Insofferente all’autorità, Hans entra ed esce di prigione, docilmente ostinato a non rinnegare la propria identità. Tra le mura carcerarie, la sua indole si traduce in gesti di dissenso talmente naturali da risultare quasi svogliati, come la rissa nel cortile o la resistenza all’arresto, che gli costano periodi di detenzione in una buia cella d’isolamento. L’immagine si annulla e Hans annega nell’oscurità, per riemergere, poco dopo, in un altro tempo, attraverso un montaggio ellittico che pare individuare proprio in quel dissenso l’ulteriore costante di una dimensione, quella carceraria, in cui di fatti tutto è immobile. Ed è ancora il buio che avvolge il corpo di Hans nel suo principale atto di ribellione, la ricerca del piacere nella prigionia della carne. Nel buio del cortile stringe tra le braccia i suoi fragili amanti, in un simulacro di libertà in cui, per qualche ora, sugli occhi della sorveglianza calano le palpebre. Nel buio della stanza cinge le spalle di Viktor, amico e compagno di cella condannato all’ergastolo.

Se il tempo in Great Freedom è dilazionato nei tre intervalli del 1945, 1957 e 1969, lo spazio è unitario e non oltrepassa quasi mai le mura del penitenziario. L’esterno, inteso come vera e propria terra di libertà, esiste solo nei sogni di Hans, che progetta fughe immaginarie nella Germania dell’Est e guarda la luna con aria trasognata. Al contrario, Viktor non si concede fantasie. Il suo destino è di guardare da lontano, come nelle soggettive in cui osserva l’atto d’amore di Hans per Oskar attraverso lo spioncino della cella o lo scorcio del processo che deciderà della sua vita nei pochi secondi che precedono la chiusura delle porte. La sua personale forma di evasione, quindi, si concretizza nella dipendenza da cocaina.

Discutendo della sua ricerca artistica, William E. Jones rimpiangeva forse provocatoriamente il tempo in cui l’omosessualità era fuori legge. Un tempo in cui, sostiene, il sesso era ancora in grado di creare uno spazio di resistenza e di azione collettiva o individuale. Quando Hans viene scarcerato, in uno Stato che non lo considera più illegale, la Grande Libertà che ha sempre sognato si sgretola in un attimo di fronte ai suoi occhi. Ecco quindi che Meise ripropone la situazione iniziale abbandonando il punto di vista delle cineprese nascoste e integrandola nel linguaggio visivo che ha canonizzato nel corso del film, quasi a suggerire l’istituzionalizzazione di un contesto che invece, al di là di ogni retorica, resta perverso proprio perché perverso continua ad essere agli occhi della borghesia. Il finale è una riaffermazione del sé, anti-borghese e dissidente. E quale miglior atto di dissenso che privarsi volontariamente della libertà, quando è l’autorità, invece, a scegliere finalmente di concederla?