“L’America contemporanea, un colosso tardo-capitalista che si spaccia per democrazia, posseduto da immense corporazioni e dominato da un affarismo e un consumismo spietati, sta tentando di impadronirsi del mondo per mezzo delle multi-inter-nazionali, della televisione e del cinema hollywoodiano, servendosi dell’esportazione dei “valori” culturali americani per completare la disneyficazione del globo. Il resto del pianeta non dovrebbe avere paura dei dinosauri e degli extraterrestri ma della mercificazione di ogni sfera dell’esistenza umana, della commercializzazione apparentemente inarrestabile della vita e della società, del flagello crescente rappresentato dai parchi a tema, della pervasiva trasformazione del mondo in un centro commerciale. Il nostro destino sembra essere quello dell’omologazione culturale: un livellamento universalizzato verso il basso, un’insidiosa blandizie anestetizzante”.
Non è un giovane turco a scrivere queste parole ma un viennese novantenne scampato per un pelo all’Olocausto e trasferitosi negli Stati Uniti per dare vita alla prima film society americana dedicata alla diffusione del cinema sperimentale.

Ogni appassionato di cinema ricorda il momento in cui è incappato per la prima volta nel libro di Amos Vogel Film as a Subversive Art: per molti è uno dei reference book più importanti in campo cinematografico; per alcuni, più semplicemente, “La Bibbia”. Pubblicato originariamente nel 1976 da Random House, ha avuto breve vita sugli scaffali delle librerie italiane nei primi anni ’80 grazie alla torinese Studio Forma (in una traduzione di Cristina Trunfio) per fare poi bella mostra di sé impilato nelle librerie reminders e, infine, tornare a galla saltuariamente nel mare magnum di ebay e simili. L’edizione originale è stata ristampata nel 2005 con una nuova introduzione e se non fossero bastati il titolo e la copertina (con un immagine da WR – I misteri dell’organismo di Makavejev) a catturare l’attenzione, non mancavano di farlo i titoli delle varie sezioni in cui è suddiviso il libro (“L’attacco al montaggio”, “Il trionfo e la morte della camera mobile”, “L’eliminazione dello schermo”) o le immagini a corredo dei testi. Era l’intuito a identificarlo subito come un libro imprescindibile. Imprescindibile e sconosciuto.

Resta un mistero il fatto che anche i cinefili più appassionati – e non solo i più giovani – non abbiano mai sentito parlare del libro in questione né del suo autore. Sarà sicuramente perché l’edizione italiana è praticamente introvabile (anche in ambito bibliotecario); sarà perché all’università al massimo si parla di Metz e Bazin (presto nemmeno più di loro); sarà che il termine “sovversivo” fa paura o ne fa troppo poca, ridotto a un vuoto simulacro in un’epoca in cui sovversione e omologazione tendono a sovrapporsi e l’una assimila l’altra secondo una deprivazione reciproca di significato. Ma il testo di Vogel costituisce ancora il modello insuperato per chiunque voglia accostarsi criticamente al cinema sperimentale e scoprire i luoghi oscuri e rimossi in cui hanno avuto luogo le trasgressioni più radicali in ambito cinematografico.
Forse è destino di certi condottieri, troppo amanti dell’uomo per trasformarsi in despoti, venire misconosciuti dai suoi seguaci, se non persino traditi (ma questa è una storia che racconteremo più avanti). Noi non abbiamo paura di dire che se Il cinema come arte sovversiva non fosse mai stato scritto, forse non esisterebbe nemmeno questo sito che a Vogel e alla sua opera di divulgazione deve moltissimo. Forse non avremmo trovato l’energia e lo stimolo per ideare questo progetto e realizzarlo, per coinvolgere tutti coloro che vi hanno partecipato e vi parteciperanno, condividendo lo stesso entusiasmo per un’impresa di cui Vogel andrebbe fiero. Se dovessimo scegliere una persona da eleggere come mentore e guida spirituale non avremmo dubbi, sceglieremmo lui.

LA FONDAZIONE DI CINEMA 16

“Sono vissuto a Vienna dalla nascita (1921) fino ai diciassette anni. Quando ne avevo sette ho ricevuto in regalo una lanterna magica, completa di slide colorate – proprio come Ingmar Bergman. Più tardi (avrò avuto dieci o undici anni) mio padre ha portato a casa un proiettore 9.5mm di provenienza francese. Era meccanico, non automatico. Grazie al quel proiettore si è presentata l’occasione non solo di realizzare e proiettare filmini casalinghi – mio padre filmava le gite di famiglia e cose del genere – ma anche la possibilità di comprare film disponibili in 9.5mm: Krazy Kat e Mickey Mouse, Charlie Chase, Chaplin. Mi divertivo a proiettare al contrario le commedie: era la magia di trasformare, sovvertire la realtà”.
È lo stesso Vogel, in un’intervista rilasciata a Scott MacDonald nel 1983 (pubblicata su Wide Angle nel 1997), a ricercare nella propria infanzia le origini di quella predilezione per la sovversione che ha caratterizzato la sua esperienza professionale di selezionatore, programmatore e diffusore cinematografico. Ed è il nazismo dilagante ad allontanarlo dall’Austria nel 1938, sei mesi dopo l’arrivo di Hitler. Giunto a New York, svolge i lavori più disparati e nel 1942 conosce Marcia che sposerà tre anni più tardi e sarà al suo fianco nella fortunata avventura del Cinema 16, l’organizzazione che fonderanno nel 1947 e manterranno attiva fino al 1963.

“Ero a conoscenza del fatto” spiega Vogel “che molti dei film che volevo vedere erano girati in 16mm e non venivano proiettati da nessuna parte. Non mi riferisco solo al cinema d’avanguardia, ma anche a documentari, studi scientifici o psicologici, film educativi o informativi… Capitava che ne leggessi sui giornali o che qualcuno me ne parlasse, così cercavo informazioni riguardo i distributori e chiedevo loro come potessi fare per vederli. Avevo capito presto che il noleggio era dispendioso e avrei dovuto possedere un proiettore ma all’epoca non me lo potevo permettere”.
Grazie alle proiezioni giornaliere tenute al Museum of Modern Art, Vogel entra in contatto con il curatore della Film Library del museo, Richard Griffith, e incontra Robert Flaherty, che diventerà uno dei principali sostenitori di Cinema 16. Sulle pagine della rivista Cinema, di brevissima circolazione (tre numeri appena) si incuriosisce al lavoro di Sidney Peterson e James Broughton, Kenneth Anger e Maya Deren. Particolarmente colpito dai film di quest’ultima, decide di utilizzare i pochi risparmi a disposizione per noleggiare la stessa sala utilizzata dalla Deren, il Province Playhouse nel Greenwich Village, e tentare una prima proiezione pubblica di opere da lui stesso selezionate. È il novembre 1947 e la programmazione riscuote un tale successo da convincere i coniugi Vogel a replicare l’evento per ben sedici sere, con due spettacoli al giorno.

Non sarà altrettanto fortunata quella successiva, funestata da una tormenta di neve, e i problemi con la censura convincono Vogel della necessità di creare un’associazione basata sulla sottoscrizione dei membri, l’unica maniera per aggirare il problema della censura preventiva (in tal caso, il comitato di censura subentrava solo qualora venisse avanzato un reclamo da parte di un affiliato). L’affluenza sempre più vasta (nel ’49 gli iscritti sono già duemila) costringe l’associazione, ora nominata Cinema 16 (in onore al formato della pellicola), a trasferirsi in sale più capienti (la Fifth Avenue Playhouse e il Central Needle Trade Auditorium).

All’apice del suo successo l’organizzazione vanta settemila iscritti in grado di riempire locali da mille e cinquecento posti (“era triste, a volte, lasciare fuori qualcuno, ma non potevamo fare altrimenti”) e le proiezioni diventano un punto di ritrovo per cineasti e artisti (“i Beat venivano sempre, così come tutti coloro che gravitavano in ambito cinematografico, compresi filmmaker e docenti”). Il pubblico che affolla le proiezioni è variegato per età e provenienza sociale ma Vogel non fa niente per andare incontro al gusto della platea o facilitare la ricezione dei film, al contrario: “volevo mostrare film che fossero in qualche modo disturbanti, che favorissero una conoscenza ulteriore e implicassero un cambiamento. La nozione stessa di cambiamento era centrale al lavoro di Cinema 16. […] Mi sono sempre considerato un socialista radicale, convinto che anche un film sulla cosmologia, uno studio psicologico o un film d’avanguardia potessero svolgere una funzione positiva nel migliorare la società. […] La gente che veniva a vedere i nostri programmi sapeva che c’era il rischio di restare scontenti, persino offesi da ciò che veniva loro mostrato ma […] la cosa più difficile è acquisire un nuovo modo di vedere le cose. C’è qualcosa di estremamente confortevole – per non dire conservativo, se non reazionario – nel rapportarsi solo a ciò che è convenzionale. Sceglievo i film che mi colpivano di più per la loro imprevedibilità, confidando nel fatto che anche altri sarebbero rimasti colpiti allo stesso modo”.

Il catalogo a disposizione dell’associazione cresce in maniera esponenziale e Vogel, che  spartisce i diritti per la distribuzione al 50% con il regista, nel 1951 stampa la prima brochure con l’elenco dei venti film a noleggio da Cinema 16: ci sono The Potted Psalm di Broughton e Peterson, Psyche, Lysis e Charmides di Markopoulos, Fiddle De Dee di Norman McLaren e Improvisation No. 1 di Jordan Belson, con la successiva aggiunta di altri undici titoli tra cui Shipyard di Paul Rotha e Fireworks di Kenneth Anger. Quello finale, distribuito nel 1963, ne vanta oltre duecento, compresi i film di Maya Deren, Stan Brakhage e Robert Frank, ma anche N. U. di Antonioni, Pickpocket di Bresson e Easy Street e The Immigrant di Chaplin.

Vogel cura personalmente i rapporti con i registi che promuove, intrattiene lunghi scambi con Anger, Peterson, Brakhage e Markopoulos tra i tanti, spesso e volentieri consigliando loro modifiche al montato o aggiustamenti di vario tipo. Di particolare interesse il carteggio con Anger (riportato quasi per intero all’interno dello speciale di Wide Angle), utile non solo a comprendere il sostegno offerto da Vogel al filmmaker (Fireworks e tutti i film successivi vennero ripetutamente inclusi all’interno delle programmazioni di Cinema 16) ma anche le condizioni di estrema difficoltà economica in cui il regista si trovava a lavorare. E se è vero che molti degli autori sostenuti dalla fondazione sono ben contenti del rapporto privilegiato con Vogel, altri cominciano a vederlo come un nemico.

“Quando venne pubblicato il primo manifesto del New American Cinema lo ricevetti via posta. Rimasi sconvolto. Per due ragioni: primo, a New York veniva formata un’organizzazione il cui punto di vista condividevo completamente, radicale, anticommerciale, anti-Hollywood, dedicata a forme di cinema indipendenti e d’avanguardia – ovvero le stesse cose che avevano caratterizzato il mio lavoro in tutti quegli anni – e nessuno aveva pensato di invitarmi; secondo, conoscevo molto bene tutte le persone che ne facevano parte e quando decisi di indagare sui motivi per cui non ero stato chiamato in causa scoprii che venivo considerato precisamente l’ultima persona da invitare. Il tentativo era quello di fondare un nuovo centro dedicato al cinema indipendente a New York e si voleva tenere alla larga il vertice del centro considerato rivale”.

Inizia così la lunga diatriba tra Vogel e Jonas Mekas, ideologo e fondatore del NAC, protrattasi a lungo e mai definitivamente chiarita. Vogel non riceve alcuna risposta a fronte delle ripetute richieste di spiegazione, specie quando Mekas lo accusa di essere uno dei principali nemici del cinema indipendente (!!!) sulle pagine di Cinema 68. A distanza di anni, è ancora più evidente lo scopo di questa mossa “politica”: trasformare la cooperativa di distribuzione del NAC nell’unico punto di riferimento per il cinema d’avanguardia non solo a New York ma in tutti gli Stati Uniti (simili attacchi vennero sferrati nei confronti di associazioni californiane come la celebre Canyon Cinema di San Francisco). Attratti da una spartizione nei guadagni più favorevole rispetto a quella offerta da Vogel (il 75% anziché il 50%), molti registi passano dall’altra parte.

“Non sono mai stato una persona sofisticata quando si trattava di relazioni di potere, né mi ha mai interessato servirmi dell’associazione per promuovere il mio nome. Jonas era deciso a creare il proprio impero grazie al NAC, molto più di quanto lo fossi io a creare il mio grazie a Cinema 16”. Come sottolinea giustamente MacDonald, Mekas era un accentratore il cui primo interesse era rappresentato dai registi del suo circolo; Vogel, invece, metteva in primo piano il concetto di divulgazione di un certo tipo di cinema e l’attenzione volta alla creazione di un pubblico capace di recepirlo. A distinguere i due, ancora prima delle questioni di potere, è una visione del cinema, come è sottolineato nell’imprescindibile testo “13 confusioni” (pubblicato all’interno di questo speciale): nonostante il suo approccio radicale, Vogel ha sempre inteso il cinema sperimentale in una maniera molto più ampia di Mekas, non qualcosa di chiuso e ripiegato su se stesso ma in continua relazione con le altre forme di espressione filmica. Ed era proprio questa dialettica, ricercata in maniera ostinata, a rendere le programmazioni di Cinema 16 molto più vive e interessanti di quelle organizzate della Filmmakers’ Cooperative di Mekas.

I PROGRAMMI DI CINEMA 16

Quando nei primi mesi del 1948 viene stampato e distribuito ai soci lo “statement of purposes” della neonata Cinema 16, Vogel sottolinea come uno degli scopi principali dell’iniziativa la promozione del cinema d’avanguardia in tutte le sue varie forme, insieme ai documentari, ai filmati scientifici e educativi, “per una maggiore comprensione della natura del mondo e dei suoi problemi”. Sin dal suo primo volantino pubblicitario è evidente l’intento dell’associazione di promuovere, fianco a fianco, cinema sperimentale, “espressionista, surrealista e astratto”, e cinema documentario, i film di Fernand Lager, Man Ray, Watson-Weber e Maya Deren insieme a quelli di Flaherty, Grierson, Ivens e Cavalcanti, senza dimenticare i filmati realizzati a scopo educativo e normalmente confinati all’uso interno nei circuiti scolastici e scientifici. Come ribadisce lo stesso Vogel nell’intervista pubblicata su questo sito, la varietà di formati e la loro combinazione all’interno dei programmi di Cinema 16, all’epoca assolutamente innovativa e oggi uno standard sempre meno seguito, era pensata per “far collidere forme di film differenti e creare in tal modo una reazione – a livello di pensiero, se non di azione – all’interno dell’audience”, e costituiva precisamente la natura del prolungato successo dell’iniziativa.
 
Il primo programma, del novembre 1947, comprende Lamentation (1943) di Martha Graham, “capolavoro di danza interpretativa”, il documentario sul comportamento dei primati Monkey into Man di Stuart Legg, lo “psicodramma d’avanguardia” The Potted Psalm (1946) di James Broughton e Sidney Peterson e due corti di animazione, Boundary Lines (1945) di Philip Stapp e Glen Falls Sequence (1946) di Douglas Crockwell; il secondo, presentato il mese successivo, And So They Live (1940), un documentario sulle condizioni di vita di una comunità degli Appalachi di John Ferno, Five Abstract Film Exercises (1941-44), una serie di animazioni astratte realizzate da John e James Whitney, lo studio psicologico The Feeling of Rejection (1947) e due film animati di Norman McLaren, Hen Hop e Five for Four (1945).

A partire dall’anno seguente, con l’istituzione di Cinema 16 come società per membri e l’arrivo di Jack Goelman in qualità di assistente di Vogel, la programmazione viene studiata in anticipo su base annuale: in aprile viene proiettato Dreams That Money Can Buy (1947) di Hans Richter; in maggio, tra The World Is Rich (1947) di Paul Rotha e Wind from the West (1942) dello svedese Arne Sucksdorff, figura anche il corto di Eisenstein Death Day (1934); il 2 giugno c’è la prima di Weegee’s New York, uno studio espressionista che mescola tecniche sperimentali e immagini documentarie realizzato dal celebre fotografo; il 23 dello stesso mese, tre film di Maya Deren (Meshes of the Afternoon [1943], A Study in Choreography for Camera [1945] e Ritual in Transfigured Time [1946]), cui fa seguito l’incontro con la regista su “La forma del film”.

Nei programmi del ’49 fanno capolino Un chien andalou (1929) e Las hurdes (1933) di Buñuel, Indonesia Calling (1947) di Joris Ivens e The River (1938) di Pare Lorentz, mentre il critico Parker Tyler, uno dei pochi sostenitori del lavoro di Vogel sulla carta stampata dell’epoca, discute con il pubblico su “Come guardare un film sperimentale”. In un articolo pubblicato lo stesso anno su Saturday Review Vogel illustra il suo modo di lavorare e consiglia a tutti gli interessati di servirsi di due fonti imprescindibili: i cataloghi “The Educational Film Guide” e “The Blue Book of 16mm. Films”, “che includono praticamente tutto ciò che esiste in 16mm e la loro reperibilità”.

Negli anni ’50, accanto a The Lead Shoes (1949) di Peterson, Fireworks (1947) di Anger e ai film di Oskar Fischinger e Curtis Harrington vengono mostrati i primi documentari del free cinema (Thursday’s Children, O Dreamland, Momma Don’t Allow e Together), i corti di uno sconosciuto Roman Polanski, Ombre di Cassavetes e, all’interno di eventi speciali, Vampyr e Dies Irae di Dreyer, L’orgoglio degli Amberson di Welles, Freaks di Browning, A propos de Nice e L’Atalante di Vigo, Terra di Dovzhenko, Rapacità di Stroheim e Il trionfo della volontà di Leni Riefenstahl, accolto con sconcerto da un gruppo di spettatori che accuserà Vogel di fare propaganda nazista (la stessa reazione seguirà la proiezione di The Eternal Jew [1940] di Franz Hippler – nel primo caso sarà Vogel stesso a ribattere alle critiche, nel secondo nientemeno che Sigfried Kracauer). Hitchcock, Vidor e Zinneman parlano al pubblico del loro lavoro e nel maggio del ’58 si organizza un viaggio in Canada per andare a vedere Un Re a New York di Chaplin, bandito negli Usa.

Amos e Marcia, insieme a Goelman, sfornano un’iniziativa dietro l’altra – tra cui l’annuale Creative Film Award – e, al finire del decennio, Cinema 16 è la più ampia film society del mondo (si calcola che circa duecentomila persone abbiano preso parte alle varie proiezioni). Nonostante questo, la situazione economica – si tratta pur sempre si un’organizzazione no-profit – è drammatica e Vogel deve fare i conti con un incremento del 30% dei costi di gestione in poco più di un decennio. Convinto che l’estrazione sociale del pubblico che partecipa alle proiezioni debba essere la più ampia possibile e di voler offrire un servizio anche a chi non si può permettere di partecipare ad altri tipi di attività culturali, rifiuta di aumentare il prezzo di iscrizione e non intende richiedere alcun tipo di supporto governativo in grado di imporgli direttive o vagliare le sue scelte. Piuttosto che rinunciare alla propria libertà è disposto a mettere a rischio la sua unica fonte di sostentamento.

LA FINE DI CINEMA 16 E L’EREDITÀ DI VOGEL

Quando nei primi anni ’60 si consuma la frattura con Mekas, fino ad allora assiduo frequentatore delle proiezioni di Cinema 16 ed egli stesso sostenuto in veste di regista con il suo film d’esordio Guns of the Trees (1962), nessuno dei membri dell’associazione ha modo di sospettare che l’avventura cominciata quasi quindici anni prima sia ormai giunta al capolinea.

Giunge, così, inaspettata la lettera del febbraio 1963 inviata a tutti i membri del club: “Cinema 16 è di fronte a un grave problema. Negli ultimi 15 anni Cinema 16 ha ottenuto ciò che nessun’altra associazione culturale no-profit di New York ha mai ottenuto, basandosi esclusivamente sul proprio sostentamento. Mentre tutte le altre organizzazioni culturali dipendono da ingenti sussidi da parte di individui o gruppi più o meno facoltosi, Cinema 16 ha ricavato il proprio profitto interamente dai membri iscritti. E se il passare degli anni ha fatto sì che ci trasformassimo da una traballante iniziativa in un’istituzione, l’onda finanziaria si è sollevata contro di noi. I costi che sosteniamo, al pari di quelli di altre attività culturali, sono aumentati più in fretta dei nostri incassi, a loro volta colpiti negativamente da una serie di fattori che illustriamo ampiamente nell’analisi che fa seguito a questa lettera. Per fare fronte agli aumenti legati al noleggio delle sale e delle pellicole, così come ai costi di stampa, pubblicità e spedizione, per tre volte abbiamo ritoccato il costo dell’iscrizione ma adesso siamo arrivati a un punto in cui non è più possibile farlo ulteriormente. Ci troviamo dunque in una stretta finanziaria. A risultato di ciò, il deficit che speravamo di eliminare è cresciuto a tal punto da minacciare la nostra esistenza”.

Costretto a tentare un passo mai compiuto in precedenza Vogel è obbligato a richiedere agli affiliati contributi in grado di saldare il buco di ventimila dollari entro il primo aprile di quell’anno. Ma, nonostante i diversi appelli pubblicati sulla carta stampata, la richiesta cade nel vuoto e i battenti di Cinema 16 chiudono una volta per tutte. La possibilità di continuare l’attività di programmatore presso il Lincoln Center si dilegua con la stessa velocità con cui è balenata e Vogel si deve accontentare di ricoprire la carica di direttore del Film Department interno alla stessa istituzione e fonda, insieme a Richard Roud, il New York Film Festival, di cui è direttore dal 1963 al 1968. Abituato a visionare centinaia di film all’anno, continua a scrivere per diverse riviste, tra cui The Village Voice e Film Comment, e decide di raccogliere gli appunti scritti nel corso di vent’anni di appassionata cinefilia (“non vedevo mai un film senza prendere note”) per formare lo scheletro di quello che diventerà Il cinema come arte sovversiva.

Adesso che Amos Vogel ha appena compiuto 90 anni, ci sembra più che mai doveroso occuparci della sua figura, recuperare un’eredità che veniva offerta in dono già nelle pagine finali del suo libro: “L’arte non potrà mai prendere il posto dell’azione sociale e la sua efficacia può essere seriamente indebolita dai limiti imposti dalle strutture del potere, ma il suo compito rimane inalterato: cambiare le coscienze. Quando ciò accade, anche se soltanto con un singolo essere umano, si tratta di un risultato talmente importante da fornire sia giustificazione che spiegazione all’arte sovversiva. […] In tal senso, il soggetto di questo libro rimarrà sempre di attualità e queste pagine sono solo una prima stesura, perché il vero soggetto è la libertà umana, i cui guardiani, in tutti i tempi e sotto tutte le condizioni, sono i sovversivi”.

Non c’è dubbio che, oggi come oggi, sia sempre più difficile sostenere un cinema che sopravvive faticosamente ai margini dell’industria, perché ancora più difficile è sostenere il proprio ruolo di critici. Ma questa non dev’essere in alcun modo una scusante: per dirla con Vogel, ogni critico è un guardiano. In  coscienza dovremmo solo temere di passare per “buoni tedeschi” se cooperassimo allo sfacelo generale sempre più diffuso non in virtù delle nostre azioni ma in virtù del nostro silenzio. Perché, a ben guardare, non è mai cambiato niente, e i presupposti per svolgere bene il proprio lavoro sono sempre gli stessi: “avere radici salde all’interno della comunità e saper riconoscere un buon film quando lo si vede”.