Un’unica ripresa di dieci minuti, una steadicam vaga sulle rive di un fiume nelle foreste del Suriname dove adulti e bambini di un villaggio saramacco fanno le loro abluzioni. Un quieto assorbimento nell’elemento liquido colto da un travelling discreto e partecipe, ma bastano alcuni secondi per osservare che il flusso naturale del fiume e delle immagini è stato invertito, e tutto scorre al contrario: i corpi che si tuffano sembrano allora sbocciare dalle acque mentre le teste che vi si immergono sono inghiottite all’improvviso sotto lo specchio dell’acqua. Un elementare rewind rivela qualità che si nascondono sotto la superficie delle immagini, un momento di familiare prossimità viene straniato in un rituale estatico.

Il movimento all’indietro su cui è costruito River Rites mi ha fatto pensare per contrasto alla forte vettorialità, alla spinta in avanti che regge il tuo primo lungometraggio del 2009, Let Each One Go Where He May, anch’esso girato in Suriname: tredici lunghi e silenziosi piani-sequenza in steadicam che seguono due fratelli mentre ripercorrono il cammino fatto dai loro antenati per sottrarsi alla schiavitù e ai coloni olandesi 300 anni prima. Puoi parlarmi della relazione tra questi due lavori?

La ripresa risale alla stesso periodo in cui stavo girando Let Each One Go Where He May, e inizialmente immaginavo che ne avrebbe fatto parte, ma non ho mai pensato a questa relazione tra i movimenti. Let Each One ha a che fare con la trasformazione nel tempo e nella direzione, in esso ogni movimento ha la sua direzione, questo muoversi in avanti di cui parli, mentre in River Rites penso di aver voluto piuttosto fermare il tempo e osservare qualcosa che era presente, racchiuso in quel momento particolare. Qui gli eventi hanno una qualità molto più ‘locale’, non hanno necessariamente un principio, una direzione e uno scopo, ma sono piuttosto cose che accadono in un luogo particolare.
L’idea di invertire lo scorrimento della pellicola è venuta dopo, ho lasciato in sospeso per un bel po’ quella ripresa, senza sapere che cosa farne, perché aveva una certa carica e peso di suo, ma non si inseriva nelle strategie che ho applicato in Let Each One. All’inizio avevo intenzione di farne una specie di rifacimento di The Girl Chewing Gum di John Smith, ma qualcosa non funzionava. Ora penso che ci sia soprattutto una connessione con Maya Deren, in particolare con la sua idea di rivelare un determinato gesto attraverso i mezzi del cinema. Penso alle riprese di Divine Horsemen ad Haiti: il documentario è incompiuto e questo è certo un peccato, ma il materiale in sé ha già una tale forza e una qualità davvero perturbante. Il fatto è che in pratica sta filmando un soggetto antropologico come fosse un film di famiglia, e in questo, per certi versi, c’è qualcosa di ingenuo, naif, ma nelle scene di danza succede qualcosa di particolare, proprio perché attraverso l’utilizzo del ralenti ci permette di estrarre e vedere il gesto, la presenza anziché rappresentare delle figure.

Hai citato un personaggio che ha sicuramente una relazione peculiare con il tuo lavoro, che si muove tra etnografia e cinema sperimentale, un intersezione che è perfettamente esemplificato in River Rites. Pensi che l’aspetto linguistico e riflessivo delle tecniche sviluppate nell’ambito della sperimentazione abbia in qualche modo una funzione critica rispetto ai problemi di posizionamento e soggettività dello sguardo antropologico?

Per quanto i termini come avanguardia e sperimentale, estendendosi a un campo sempre più vasto, abbiano perso molto del loro senso, la sperimentazione mi interessa in quanto dialogo con la specificità filmica e con le potenzialità del mezzo, ossia quello che può fare il cinema per meglio prendere posto nel mondo o produrre un mondo in cui abitare.
Tecniche come il rallentamento o l’inversione del flusso filmico sono sempre state strategie surrealiste per rivelare qualità nascoste nell’immagine: Maya Deren vi fa riferimento spesso anche nei suoi scritti degli anni ’50. Ma è solo da poco tempo che mi sto confrontando con il suo lavoro. Il fatto è che il suo percorso e il mio sono essenzialmente opposti: lei è arrivata all’etnografia e all’antropologia attraverso il cinema sperimentale e il suo interesse per la danza in particolare, mentre io sono arrivato al film sperimentale attraverso l’antropologia. Per questo considero un po’ ingenui alcuni suoi presupposti, come quello di isolare i gesti dall’ambiente e trattare una certa cultura come fosse essa stessa un gesto. La mia formazione post-moderna, dai Post-colonial Studies alla Critical Theory, mi insegna che questo non si può fare: una prossimità col soggetto ripreso è essenziale, ma deve funzionare in modo da prevenire noi stessi dal considerarci un soggetto con la S maiuscola. Serve un approccio più ravvicinato, come dicevo prima, più ‘locale’. Penso che Deren abbia abbandonato il suo progetto di Haiti proprio perché si è resa conto che non faceva parte di quel mondo o perché non la soddisfaceva il modo in cui vi si stava addentrando, c’erano troppe cose da descrivere, troppi nodi da districare. Mentre io cerco proprio di non di rappresentare le cose, perché penso che nella rappresentazione includa sempre la propria deformazione, ma semplicemente di presentarle e, allo stesso tempo, di essere presente.

Un altro aspetto importante di River Rites è il suono: l’incedere ipnotico del brano dei Mindflayer amplifica la qualità estatica di queste immagini e stringe un nodo con un altro capitolo di questa tua ‘etnografia psichedelica’, il terzo dei “Black and White Trypps”, dove le riprese del pubblico invasato a un concerto noise dei Lightning Bolt vengono rallentate e anche qui straniate in una dimensione rituale tutta occidentale e contemporanea. Vedi un rapporto tra la radicalizzazione del suono e della performance live operata da gruppi come i Lightning Bolt, la manipolazione delle immagini e il concetto di estasi?

Quello che mi esalta nella musica di Brian Chippendale [batterista di Lightning Bolt e Mindflayer] e Matt Brinkmann è che si basa esclusivamente su basso e batteria, la forte presenza del ritmo nel brano diventa è un fattore di forza scatenante, che è facile riconnettere alla tradizione musicale dell’Africa Occidentale, ossia alle radici del popolo Saramacco del Suriname.
Il termine estasi presuppone un distacco, un lasciare qualcosa, ma penso che qui sia soprattutto questione di rivelare, come nel caso della fotografia spiritica tra ottocento e novecento, la cui ambizione era di presentare cose che non possono essere viste, rappresentate. Vedere questi corpi che si muovono al contrario, che schizzano fuori dall’acqua, è un trucco vecchio quanto il cinema, come nelle immagini invertite dei tuffatori, ma penso che in esse ci sia davvero qualcosa di rivelatore, ogni azione, ogni evento è coinvolto, implicato in una coreografia, come un microuniverso che accade nell’inquadratura. Penso che si modifichi la cognizione che abbiamo di solito del tempo, e la musica contribuisce a questo effetto: il suono estremo, distorto del basso che si sovrappone alle immagini dà l’impressione di sincronizzarsi ai movimenti, a stringere questo legame, questa alleanza con le immagini, per svelarne un altro livello, un’indice dell’azione che la fa apparire come qualcosa di controllato dall’esterno. Tecnicamente sono arrivato a questa soluzione grazie a un incidente di proiezione: mentre mostravo tutta la serie dei “Black and White Trypps”, arrivati a Trypp #6 [un’altra scena rituale, sempre estratta dalle riprese di Let Each One e con forti riferimenti a Les Maitres Fous di Jean Rouch], la cinghia del proiettore si è inceppata e le immagini hanno cominciato a rallentare a tratti: questa dilatazione mi ha colpito, ha cambiato improvvisamente quello che pensavo su quelle immagini, quello che credevo vi fosse contenuto.

Fino a poco tempo fa insegnavi cinema all’università, curi programmi cinematografici, gestisci una galleria casalinga, come molti artisti che oggi si occupano di cinema ti muovi insomma tra vari ambiti. In questa fase di disseminazione della pratica cinematografica, che la si voglia chiamare “post-cinema” o che si lasci senza definizione, come ti definisci tu, come ti collochi?

Sì, si sente tanto parlare di una morte del cinema, di un “post”, o di un’ibridazione che presuppone che questi diversi campi si debbano intersecare, come spinti uno contro l’altro, ma io li penso piuttosto come spazi da occupare di volta in volta: sono passato dalla fotografia alla performance e all’installazione fino al video e al cinema, oltre appunto ai miei studi di antropologia e Critical Theory. Ho sempre tenuto a mente come queste fossero tutte forme e discipline distinte, con la loro storia e le loro regole, ma non mi sono sentito di dover scegliere una di queste come campo di elezione. Rispetto a un paio di generazioni fa c’è stato un cambiamento significativo: allora c’era un’opposizione marcata tra avanguardia e cinema commerciale, mentre adesso puoi affrontare la varietà e diversità di tutte queste cose, tenendo conto ovviamente delle loro precise caratteristiche estetiche. Non è necessario considerarsi in una condizione postuma o ibrida, si tratta piuttosto di saltare da una cosa all’altra, passarci attraverso. Io lavoro con tanti media differenti e con approcci altrettanto diversificati perché ognuno di essi risponde a un particolare obiettivo. Passo spesso da un progetto ad un altro… in effetti sto facendo fin troppe cose, per questo almeno ho smesso con l’insegnamento… Ma quando ti apri a questa dimensione poi funziona da sé, vai sempre avanti.

E da un punto di vista ‘istituzionale’ dove ti trovi più a tuo agio tra gli spazi dell’arte contemporanea o in quelli di un grande festival come questo o in uno più underground?

Mi trovo bene dappertutto, certo ci sono molte differenze. Voglio dire, il festival qui a Venezia è straordinario, ma non è certo per me. Il fatto di esserci significa però che anche qui qualcosa si sta muovendo, la sezione Orizzonti si è aperta a cose nuove, ci sono i film di Pelesjan. È così che il cinema va avanti, progredisce, anziché regredire, attraverso un confronto continuo, una competizione tra le sue varie forme. Quindi il fatto di essere qui o altrove è secondario, fa parte del gioco, quello che importa è la possibilità di occupare i vari spazi in maniera differente. I casi di Nicolas Provost o di Steve McQueen lo confermano: hanno presentato qui dei lungometraggi di finzione, ma continuano anche a produrre progetti d’arte, installazioni, si muovono tra ambiti istituzionali e fonti di finanziamento di vario genere. Anch’io ad esempio sto cominciando una produzione insieme a Ben Rivers, che sarà un lungometraggio di finzione, ma anche un’installazione artistica, avrà insomma vite diverse. Forse il caso più esemplare di quello di cui stiamo parlando è Apichatpong Weresethakul.