Scarno e significativo il titolo della retrospettiva di quest’anno: Orizzonti 1960-1978. Altrettanto essenziale il suo programma, che si propone di tracciare collegamenti e intersezioni tra la mappatura espansa dell’immagine in movimento, offerta dalla recente riformulazione della sezione Orizzonti, e quel groviglio di passioni sovversive e assalti sperimentali che fu l’underground italiano degli anni Sessanta/Settanta. Siamo ansiosi di vedere come funzionerà questo piano di collisione, se le gemme rare estratte dai selezionatori siano in grado di oltrepassare il loro indiscutibile e già prezioso status di documenti di un’epoca, che è però destinata a restare ‘sotterranea’, da contemplare con nostalgia più o meno autentica da chi ha potuto o avrebbe voluto viverla da vicino. Vedremo se questi frammenti di vita vibrante, incrostata sui supporti più umili e diretti (super 8, 16 mm, videotape…), se queste “schegge di utopia” sono ancora in grado di bruciare nel presente, di scaldare e nutrire le pratiche che continuano ad affrontare i sussulti e le mutazioni della macchina-cinema in maniera riflessiva, critica, resistente.
A margine (o forse al centro?) della questione sarebbe poi opportuna quella che potremmo definire una riflessione ‘di campo’: esaminare cioè come in un momento quanto mai critico per il cinema, nello stato fluido e ribollente di questa sua infanzia post-mortem, si vada ridefinendo il rapporto tra marginalità e sperimentazione. Se infatti ieri era il calderone dei movimenti e della controcultura a incubare i germi di un’innovazione linguistica, che mirava a scardinare le routine ideologiche dell’istituzione per deflagrare nella vita vissuta (perché era questa che doveva cambiare, prima del cinema e attraverso un nuovo cinema), oggi sono nuove realtà istituzionali ad accogliere, promuovere, inglobare le istanze di ricerca: come calibrare la distanza o la prossimità che va dai “videoteppisti” che si aggiravano con Alberto Grifi al Parco Lambro di Milano nel 1976, dagli artigiani solitari e visionari come Paolo Gioli e gli odierni artisti visivi/filmmaker, che lavorano tra video-arte, animazione digitale, performance audiovisiva, found footage in grembo alla disponibilità che offre loro il mondo dell’arte contemporanea?
Ovviamente le questioni restano aperte e non possiamo pretendere che a rispondere sia questa rassegna tanto piccola quanto coraggiosa. Fornire una memoria storica allo sguardo contemporaneo, far emergere radici vitali, rimaste troppo tempo “underground”, questo ci sembra il suo primo intento, già più che ammirevole. Certo sarebbe stato bello vederlo concretizzato in un programma più esaustivo, capace di includere tanti altri frammenti significativi, che reclamano di essere strappati ai culti di nicchia, di avere nuove occasioni di incontrare il pubblico, specie quello più giovane. La redenzione dall’invisibilità ha una controparte indispensabile nella preservazione di queste visioni indisciplinate: la loro sopravvivenza, infatti, è spesso messa a repentaglio dalle stesse condizioni precarie che ne hanno garantito la radicale libertà. La presentazione del restauro di Anna di Alberto Grifi, in questo senso, sarà centrale per pensare il rapporto tra resistenza e sopravvivenza delle immagini. Oltre a questo momento privilegiato, la selezione si presenta comunque stimolante e di certo coerente in quella che sembra una predilezione per esordi, abbozzi preliminari, primi affondi: quelli di Carmelo Bene, Nico D’Alessandria, Romano Scavolini, Mario Garriba, Paolo Breccia. Una dimensione aurorale, rischiosa, provvisoria, che non soltanto è l’habitat essenziale della sperimentazione, ma si rivela anche un taglio particolarmente adeguato per accostare un passato insepolto e un presente in fermento, tracciare fragili, ma scintillanti costellazioni tra ciò che è stato e l’adesso, con gli occhi pronti a cogliere quello che Benjamin definiva “l’istante di leggibilità”.