«Nominalmente Pangborn era un critico televisivo, l’unico lavoro, insieme a quello di addetto alla manutenzione, che fosse rimasto in una società dove ormai le macchine facevano tutto». Cosi in un racconto di J.G. Ballard, datato 1978 (1) e ambientato in un futuro che ci sembra ormai prossimo.

1. Pangborn, che ha solide radici di cinefilo, anzi di filologo del cinema, trascorre le sue giornate, in solitudine assoluta, immerso nella luce di un solarium artificiale che gli è casa, studio, luogo di sopravvivenza e di meditazione; lo incontriamo mentre esamina la scena della doccia di Psycho su uno schermo principale, proietta quella sequenza centinaia di volte, ferma ogni inquadratura ed esplora ogni primo piano, separa le diverse fasi dell’azione e le distribuisce sulla dozzina di schermi minori intorno a quello più grande. Ma il suo non è un “lavoro”, se non nel senso che produce “alienazione”, né la sua e una funzione “critica”, perché non ha un pubblico cui rivolgersi (anche infiniti suoi simili sono “critici”, racchiusi presumibilmente in altrettanti solarium e alle prese con altrettante sequenze di film: quanto agli «addetti alla manutenzione», non sappiamo se classe subalterna con mansioni servili o vera classe dominante con mansioni asserventi, essi giustamente disdegnano il mezzo o ne sono refrattari). Da tempo Pangborn non è più “attivo”, se non nella misura in cui tende a un regno di assoluta astrazione: la costruzione di un mondo costituito interamente dai materiali della propria coscienza. Nei momenti in cui non è intento a dissezionare vecchi film o a sorbirsi classici che le emittenti rivisitano a scopo propedeutico (per esempio Casablanca, riadattato per un corso di direzione alberghiera: «vi si trattavano i rischi e le soddisfazioni connessi al management di un night-club all’estero»), usa il solarium come uno studio televisivo professionale perfettamente attrezzato, in cui egli è simultaneamente la vedette, lo sceneggiatore e il regista di un interminabile telefilm domestico, assiste a notiziari da lui stesso preordinati che riguardano la sua salute, il suo ritmo cardiaco nella notte, le curve della sua temperatura, utilizza telecamere automatiche e telecomandi per prendere visione di ogni angolo e di ogni dettaglio della sua unità abitativa. La finzione, analizzata sino a compenetrarsi di una nozione di realtà, e la realtà, simulata sino a rendersi parte degli eventi connessi alla finzione, non possono che condurre, dapprima, a un presunto sdoppiamento (Pangborn si sente minacciato da un «intruso») e, poi, a una completa identificazione (Pangborn si comporterà come l’intruso, Pangborn è l’intruso), per andare anche oltre il plot del vecchio racconto di Robert Bloch: il protagonista leverà contro di sé lo stesso coltello che ha levato sulla donna delle pulizie sotto la tenda e tra le piastrelle della doccia, «ansioso di fondersi col ciclo bianco degli schermi».
Fantascienza? Utopia negativa spinta all’estremo? Semplice provocazione di chi qui riferisce? Un po’ di tutto questo e un po’ tutto il contrario. Forse è sufficiente proiettarsi all’indietro di venti-trent’anni e ripercorrere sia pure superficialmente le varie condizioni in cui si è trovato a operare il “critico cinematografico” e l’evoluzione che il suo “lavoro” ha conosciuto per comprendere quanto questo futuro non sia poi tanto ipotetico né tanto lontano: speriamo soltanto con dei segni più positivamente connotati.

Una piccola premessa. Tutto il discorso è basato sull’esistenza di un soggetto politico-culturale (il critico cinematografico, appunto) della quale molti dubitano e alla cui definizione si può pervenire soltanto con varie approssimazioni. Egli stesso è il primo a non sapersi definire, sia che tenda a sfuggire a ogni tipo di classificazione sia che si interroghi periodicamente sulla propria funzione e sui propri risultati. Privo di un iter formativo preciso come di un preciso inquadramento corporativo, egli si determina non per ciò che è ma per ciò che fa, ultimo singolare rappresentante di addetto a un lavoro coatto ma con una costrizione che nasce quotidianamente dalla volontà dello stesso interessato. Riciclabile immediatamente in altra attività (che spesso già esercita in parallelo), sostituibile con estrema rapidità senza che l’utente avverta l’interruzione del servizio, impavido nel resistere alle pressioni generazionali e al variare dei modi e delle mode, egli esiste soltanto nella misura in cui impone o lascia avvertire la propria esistenza. Tramite fra prodotto e pubblico in una gamma infinita di compiti e di loro varianti (informazione, divulgazione, promozione, relazione, fustigazione, divagazione, formazione, stimolazione, tacitazione, oltre che approfondimento, studio, ricerca, elaborazione teorica o contributo alla formazione di un immaginario collettivo), egli può risultare autonomo dall’uno o dall’altro, anche nel senso che per l’esercizio della sua attività può prescindere dall’esistenza del primo, del secondo o di entrambi. Abituato ad agire su una materia impalpabile e spesso – ancor oggi – non verificabile (almeno in prima istanza o con la contemporaneità necessaria), è maestro nel dissezionarla, nell’isolarne uno strato, nel privilegiarne un livello di lettura, consapevole che strati e livelli sono infiniti e altrettanto impalpabili, quindi anch’essi non verificabili specie se egli avrà l’avvertenza di mutare di volta in volta, ed entro ragionevoli limiti, la scelta. E per antonomasia il “camaleonte”, meno nell’accezione di certi personaggi del Direttorio francese che in quella del film di Woody Allen. Quale professione più adatta a Zelig se non quella del critico cinematografico, psicologo con gli psicologi, sociologo con i sociologi, storico con gli storici, estetico con gli estetici, semiologo con i semiologi, umorista con gli umoristi, perbenista con i perbenisti e rivoluzionario con i rivoluzionari? E, del resto, esistono dubbi sull’esistenza di Zelig anche se è stato visto aggirarsi tra filmati degli anni ’20 e ’30, anche se è apparso accanto a personaggi famosi, anche se ha assistito eventi irripetibili. Un po’ come tanti critici cinematografici.

2. Italia anni ’50/’60 (i decenni sono anch’essi approssimativi). La dizione “critico cinematografico” (pur se mutuata da quelle, più assestate, di critico letterario, teatrale, d’arte) fa ancora sorridere o ingenera piacevoli confusioni (con chi fa il cinema, naturalmente). La situazione non è molto diversa da quella che Mario Gromo, critico per La Stampa di Torino dal 1931 al 1955, sintetizza nella prefazione alla raccolta delle sue recensioni: (2) «Quando anche in Italia, intorno al 1930, si iniziarono regolari rubriche cinematografiche sui giornali, parecchie furono le speranze e le diffidenze. Speranze di esercenti che ingenuamente si ripromisero una pubblicità gratuita ai loro film, per poi esserne, persino fra incidenti incresciosi, presto delusi; e diffidenze di lettori che si posero a “verificare” il nuovissimo cronista dopo aver visto il film (“e adesso vediamo un po’, che cosa ne dice questo qui”). Eppure, a poco a poco, fra i vari “questo qui” e i lettori, si andarono stabilendo alcune provvisorie intese. Si dissentiva, ma si riconosceva; e quelle piccole sigle divennero seguite consuetudini, rispondevano comunque alla necessità di un’informazione che per forza di cose andava anche ricercandosi un suo tono, un suo linguaggio». Gromo bazzicava con la narrativa leggera e con il teatro; il suo collega Arturo Lanocita – che avrebbe resistito, vice e poi titolare della rubrica del Corriere della Sera, dal 1935 al 1961 – con il teatro, la narrativa leggera, l’operetta e l’arte varia. In assenza di specializzazione o per cauta diffidenza nei confronti della stessa (che pur cominciava a vantare qualche nome) era naturale che i titolari dei quotidiani venissero scelti tra frequentatori di altre arti e di altre muse, tra i più innocui o tra i più spaesati. Parlare di cinema era compito dei letterati anche sui settimanali politico-culturali (3): Alberto Moravia occupava già L’Espresso, L’Europeo si fidava di Giuseppe Marotta, Epoca si basava su Filippo Sacchi, ma anche Vasco Pratolini, Mario Soldati o Carlo Bernari si esercitavano nella nobile disciplina. Una profonda differenza divideva però la prima dalla seconda categoria: i romanzieri affermati divagavano e si esercitavano, da loro ci si attendeva la bella pagina o l’intuizione estemporanea; i letterati più negletti miravano al sodo e lottavano con lo spazio, da loro ci si attendeva la trama, un commento, valutazioni degli attori e qualche nozione sull’aspetto più propriamente visivo del film. Non era colpa di nessuno (o forse no) se chi aveva più dimestichezza, almeno tendenziale, con il cinema, il cinema era passato a farlo (si chiamassero Carlo Lizzani o Michelangelo Antonioni, Gianni Puccini o Giuseppe De Santis). Con Il Tempo e II Messaggero già da allora “controllati”, rispettivamente, da Gian Luigi Rondi e Guglielmo Biraghi, il neonato Il Giorno “gestito” da Pietrino Bianchi (alfiere della “critica di gusto” e buon bersaglio per i suoi avversari) e l’ancor più sospetta Notte pilotata arduamente da Morando Morandini il cinema godeva di maggiori spazi e, talora, di maggior credibilità, ma restano indimenticabili e indimenticati i “sospetti” e i “rifiuti” dei primi tre critici citati nei confronti del “sociale” o del “nuovo”, qualche volta ai limiti della delazione. Bisognava ghettizzarsi sulle testate della sinistra (l’Unità con Ugo Casiraghi o Avanti! con Corrado Terzi) per rinvenire autentiche volontà di scelta, di polemica, dì contributo costruttivo o distruttivo che fosse: quel parlar troppo bene o troppo male, ma soprattutto quel parlare e quel farsi intendere che dovrebbero essere alla base di un colloquio con il lettore/spettatore, perché no?, con il “compagno”.
Si sono fatti un po’ di nomi (magari commettendo qualche asincronia) ma se ne potrebbero fare molti altri: molti invero no. Chi abbia memoria di una partecipazione a un’occasione collettiva in quegli anni, poniamo una mostra di Venezia, tratterrà la sensazione che in Italia, allora, a occuparsi di cinema, non vi fossero più di un paio di centinaio di persone, tutti compresi: quanto bastava a conoscere sommariamente ciascuno di loro e a riempire le pagine di un taccuino di indirizzi. Tolti i quotidiani, tolti i settimanali, nel gruppo rientravano tranquillamente i redattori e i collaboratori delle riviste specializzate, i dirigenti dei circoli del cinema e dei circoli universitari, i conservatori delle due o tre cineteche e qualche outsider sulla via di Damasco dell’insegnamento. Niente Università, niente filmclub, niente enti locali, niente altro associazionismo, povere e rare le altre mostre festival o rassegne stabili, confusa e dispersa l’editoria specializzata, pochi incompresi e lontani gli stranieri.

Un apparato a misura del cinema che allora si poteva fruire. Se non cessa il rimpianto per il gran numero di sale che costellavano la penisola, per il grande consumo di “prime visioni” (cui accedevano abbastanza tranquillamente anche cinematografie considerate “minori”), per il gioioso stratificarsi di “visioni ulteriori” (dove certi film, anche i più imprevedibili, continuavano a circolare indisturbati e recepiti per dieci, quindici, addirittura vent’anni), va anche detto delle forti limitazioni oggettive che quella struttura sottintendeva: un modesto film il lunedì in televisione (poi due volte la settimana), i programmi ciclici e riciclati delle cineteche, le volonterose “personali” o rassegne tematiche dei circoli del cinema, la vetrina aperta (si fa per dire) una volta l’anno dalla mostra di Venezia (pochissimi i fortunati che andavano anche a Cannes o a Karlovy Vary, distanti anni luce dai tram o dalle corriere che portavano ai circoli culturali o alle case del popolo ove tutti gli altri “dibattevano” i film). A ciò si aggiunga lo scarso accesso alle riviste o ai libri stranieri, un po’ per questioni di circolazione o di soldi, un po’ perché la seconda lingua degli addetti ai lavori restava pur sempre il latino (e la terza il greco), un po’ perché l’autarchia, lo strapaese, il nazionalismo (magari nell’accezione nazional-popolare di gramsciana memoria) e il provincialismo (cui anche la produzione neorealistica non era stata del tutto indifferente) continuavano a riversare i loro effetti, invano contrastati dal cosmopolitismo (fenomeno inviso alle sinistre, quindi caro alle destre) e dall’internazionalismo (coltivato dalle sinistre anche nel cinema ma presto confuso con il paternalismo o con la xenofìlia).
Insomma, nell’Italia del boom e del centrosinistra, la grande piccola massa dei critici cinematografici veri o sedicenti tali continuava a essere formata (doverose eccezioni a parte) da “cronisti di sala” più o meno diligenti: non dissimili dai cronisti di “nera” o dai cronisti di “rosa”, comandati a riferire di tutto quanto fosse registrato nei mattinali della questura (pardon, dell’Anica e dell’Agis), ora condannati a contrabbandare le proprie idee approfittando del film, ora indotti a contrabbandare il film approfittando delle proprie idee, ora indifferenti all’uno e all’altro problema. E, come tutti i cronisti, un tantino invidiosi delle grandi firme, degli inviati speciali, dei corrispondenti di lusso o degli opinion-maker che dominavano sulle altre pagine (o, nel caso dei poverissimi collaboratori di riviste specializzate, sulle pagine patinate dei settimanali). Per questi cronisti, almeno per i più giovani tra essi, esercitare il «mestiere del critico» (come titolava la rubrica di recensioni del quindicinale Cinema Nuovo) (4) aveva però veramente qualche similitudine con il pavesiano «mestiere di vivere»: imparare, conoscere, farsi le ossa, sbagliare anche, in attesa magari di tempi migliori.

3. Italia anni ’60/70 (sempre generalizzando). Anche se i due maggiori quotidiani italiani hanno rinnovato il proprio staff affidando, le proprie rubriche di cinema a un linguista e cultore di antichità locali come Leo Pestelli (La Stampa) e a un italianista maggiormente a suo agio con Ugo Foscolo che con Ejzenštejn o con Totò come Giovanni Grazzini (Corriere della Sera), qualcosa si muove, almeno nel senso che aumenta l’interesse e lo spazio per il cinema scritto, che affluiscono nuove leve un po’ dovunque, che la nozione di critico cinematografico si estende a campi e attività sino allora vergini, che la categoria fa numero e talora anche qualità. Il cinema comincia a uscire dalle sale, un po’ per andare nelle strade (o meglio nelle piazze), un po’ – al contrario – per chiudersi nelle case. Succede alla gente: perché non dovrebbe capitare anche ai film? L’aria del ’68 e dintorni provoca tutta una serie di dicotomie, che non si limitano più a quelle tradizionali tra classico e contemporaneo, tra qualità e divertimento, tra autore e mestierante. Si rassoda la nozione di impegno, serpeggia in infinite sfumature l’ideologia, il nuovo autoadesivo “cinema politico” compare su molte vetrine o vale ad attribuire un nuovo prezzo a molti vecchi prodotti.

Si è parlato di dicotomie. La prima, e la più significativa, è quella che si verifica tra critica esercitata nei luoghi abitudinari (l’abitudine, si sa, soffoca molte velleità e fa rimandare molte decisioni), cioè sui vecchi quotidiani, periodici o riviste, e critica esercitata nei nuovi spazi, volontaristici e autogestiti. Ne consegue una seconda dicotomia: quella fra “critico militante” (un’espressione mai chiaritasi del tutto, anche per comodità, ma che dovrebbe stare a significare professionalità, continuità e insieme consapevolezza del proprio ruolo di mediatore e tramite, non insensibile peraltro alle grandi istanze culturali e sociali) e “militante critico” (cioè chi antepone la militanza – non necessariamente politica, ma, poniamo, strutturalistica, psicoanalitica o semiologica – all’esercizio della critica o addirittura all’oggetto della critica stessa). La terza dicotomia, anch’essa conseguente, è quella che viene a verificarsi tra il luogo deputato alla fruizione, appunto la “sala”, e tutta un’altra serie di luoghi alternativi, che nascono per essere punti di riferimento aperti ma che concludono col risultare club più o meno esclusivi per adepti, affiliati o affluenti comunque omogenei (oppure, nei casi più sfortunati, per solitari di nome e di fatto): ai locali cinematografici, dove la fruizione è passiva e la compresenza casuale (ma dove si gode del calore della spontaneità, del colore della reazione istintiva e qualche volta di epiche battaglie tra sostenitori e detrattori del prodotto o del messaggio), si contrappongono locali indifferentemente più generici o più specifici, i primi dove il film serve da richiamo per parlare di tutto o di altro, i secondi dove il film si trasforma in oggetto di culto e di rituale e dove parlarne, se non con qualche ammiccatina, non fa bon ton.

Anche se escono meno film, anche se il loro logoramento è più rapido, anche se molti prodotti infrangono le regole del racconto e di quel buon senso (o buon segno) che al cinema si chiama logica (o arte) – basta accontentarsi –, il consumo tutto sommato cresce o comunque si diversifica, e ad accrescerlo intanto si affacciano le varie emittenti televisive, pubbliche o private, italiane o quasi straniere, che fra tanto ciarpame ripescato non mancano di chicche, comprese quelle sottratteci dalla cosiddetta censura di mercato (che, stranamente, colpisce più di un tempo). Contro la censura di mercato si muovono anche mostre, festival e rassegne (basterebbe pensare per il centro-nord a Pesaro o a Porretta, per il centro-sud a Sorrento o a Taormina) che, organicamente o confusamente, all’insegna dell’ideologia o della mondanità, diffondono la conoscenza di prodotti emarginati o diversi, e non la diffondono più soltanto a pochi addetti ma a qualche migliaio di spettatori diretti che fungono da cassa di risonanza e poi a qualche altro migliaio o più, tramite i cento canali di distribuzione volante o precaria che in quasi tutte le città vengono a formarsi. Anche l’editoria cinematografica comincia ad avere il suo sussulto (che giungerà sino a una sorta di provvisorio boom al termine del decennio): un sussulto disordinato e qualche volta speculativo, ma che risponde a un vecchio appetito, talora a una vera e propria fame e che comunque contribuisce ad accrescere il consumo di certi prodotti.

In questa fase il critico (e il termine ovviamente diventa sempre più generico) conosce almeno tre istanze: interrogarsi, operare, rendere il meno precario possibile il proprio ruolo. Interrogarsi è delegato a pochi, anche se con l’avallo di tutti: un convegno su «Responsabilità sociali e culturali della critica cinematografica» tenuto a Perugia nel 1971, encomiabile per analisi e capacità di intervento (5), ripercorso oggi induce più alla commozione che al sorriso, quella stessa intima commozione che sì prova di fronte a un’utopia non realizzabile in una certa condizione storica a sua volta utopica, cioè di fronte alla metafora di un’utopia (ma era il tempo in cui anche gli scrittori si davano un sindacato, pensavano di poter mutare – a livello di massa scrivente – i rapporti con gli editori, dì poter anticipare o contrastare l’evoluzione della società, addirittura di poter stabilire un unico continuum spazio-temporale tra essi scrittori, ogni scrivente e ogni leggente). Ma l’interrogarsi non ha senso senza l’analizzarsi: e qui si pone, e va doverosamente citata, l’ottima ricerca statistico-sociologica ordinata da Bruno De Marchi dell’Università Cattolica e fatta propria dal sindacato critici. “La critica cinematografica in Italia” (6) – questo il titolo della ricerca, risalente: al 1974 ma pubblicata soltanto nel 1977 (la data non è casuale), cioè a giochi già fatti – aveva se non altro il merito di scomporre il quadro, di rivelare (se ancora necessario) la disomogeneità della categoria, la casualità della metodologia, il misto di presunzione e indifferenza caratterizzante molti aspetti del campione. E anche l’ardimento di accennare a possibili compromissioni tra l’esercizio della professione, la proprietà delle testate, le consulenze prestate al settore produttivo, i legami praticati con distributori ed esercenti, l’afflusso di flani pubblicitari a certe pagine e non ad altre.

Quanto alla seconda istanza, quella dell’operare, più che sulle pagine dei giornali o delle riviste (dove lo spazio viene considerato “tiranno” anche quando non lo è o potrebbe non esserlo), sì esplica altrove, ovunque si dia il caso o l’opportunità (e, se non ci sono, si può contribuire a creare artificialmente l’una e l’altro). Il critico si scopre “operatore culturale”: interviene, organizza, sovrintende, propone, agisce sul territorio o sulla base (spesso pensando al vertice), ed è ascoltato, consultato, omaggiato a seconda delle circostanze. Se alcuni critici integrano (con profitto proprio o altrui) la vecchia mansione alla nuova, altri abbandonano addirittura l’antico esercizio (optando per la Rai, dove “critica” tradizionalmente non si fa o la si fa soltanto attraverso le scelte dei singoli programmi o dei cicli, spesso muniti di improbabili “commenti”o “presentazioni”, o per la direzione di mostre stabili, che sovente trovano la loro forza nella quantità più che nella qualità, confermando il vecchio vezzo dei quotidianisti). Altri ancora sì disperdono per i mille canali dell’immaginario pubblico o della politica artistica di corrente, cui enti locali e partiti volentieri si appoggiano. Ma l’operazione culturale più massiccia è quella rappresentata dall’Università, ove il cinema occupa finalmente i suoi spazi, in modo più casuale che organico, nel senso che da alcune importanti sedi (basterebbe pensare alla Statale di Milano, forse in odore di eresia) resta escluso, mentre altrove gli spazi o le discipline addirittura se li inventa. Alla pattuglia, presto un battaglione, di docenti anche la critica offre i suoi uomini, e accanto ad approdi più che legittimi e naturali si conoscono anche accessi (ora per cooptazione, ora tramite regolari concorsi per titoli e per esami) che sono il frutto di ogni compromissione possibile o di ogni rifiuto dell’evidenza. Oltre alle lottizzazioni (ma non si pensi solo a quelle partitiche: ve ne sono di più squisite e raffinate che si rifanno alla “tendenza” o alla tendenza nella tendenza), per salire in cattedra occorrono le pubblicazioni, compito tra i più ardui per critici che da sempre non sono andati oltre l’elaborazione delle due cartelline, per storici che non conoscono la via di mezzo tra la summa onnicomprensiva dell’intero scibile cinematografico o la disamina del singolo film muto di cui restano soltanto poveri frammenti (un po’ come accadeva un tempo ai grecisti), per teorici che da trent’anni riscrivono lo stesso libro, nemmeno emendandolo. Fioriscono i libri per concorso – caratterizzati ad hoc, e dopo opportuno vaglio, da ampie bibliografie sempre uguali, da ampie citazioni e da un florilegio di note al piede – metà tiratura dei quali finisce in omaggio e l’altra metà viene esitata (con le pressioni del caso) a studenti riottosi o rassegnati: una fioritura che fa sembrare prospera l’editoria specializzata e che in realtà ne avvelena i meccanismi di mercato. Fiorisce nel contempo l’editoria cinematografica degli enti locali, che fortunatamente a quei meccanismi non deve rispondere e che quindi si permette audacie di segno positivo, non fosse il fatto che poi i suoi prodotti risultano privi di circolazione, intasano biblioteche di scuole medie o scaffali di dirigenti comunali, vivono talora in funzione delle famigerate prefazioni elettoralistiche di sindaci e assessori.

In questa seconda istanza è già contenuta in nuce la terza: quella di rendere il meno precario possibile il proprio ruolo, anzi di ridefinirlo in modo nuovo, a costo di avventurarsi su terreni infidi e di trascurare le antiche ma preziose esperienze del colloquio quotidiano, semplice ed efficace, con il lettore/spettatore. Abituato alle quaranta righe su una colonna a pagina diciassette, il critico si muta in saggista. Abituato alla dispersione o alla irreperibilità dei propri piccoli testi scritti a caldo, telefonati in fretta, fraintesi dallo stenografo o incongruamente tagliati dal proto, il critico raccoglie, anzi si predispone alla raccolta: d’un passo solo passa dal pollo ruspante che razzola nel prato sotto casa all’allevamento di pollastri in batteria, che escono dalla catena di montaggio tutti uguali, già cellofanati e con una suadente etichetta. Un po’ di saggi ed è subito libro, un po’ di interviste ed è subito documento, un po’ di interventi ed è subito progetto. Tolto il mestiere ai diligenti schedatori e ai pazienti raccoglitori di ritagli, i critici più assidui, più infaticabili, più abili nel gestire la pletora dei loro vice e nello smistare le pellicole che non contano, si trasformano – dopo i primi assaggi positivi – in critici da repertorio, scrivono insomma per l’organico e per il futuro (7). Un organico che si chiama pubblicazione a fine anno (o a scadenze fisse) delle proprie recensioni in volume e un futuro che si chiama fruizione del film (e quindi della recensione) in tv. Il compito è talmente nobile e fruttuoso (oltre che, fuor d’ironia, d’indubbia utilità) che si può persino sottostare al prevedibile saccheggio da parte di una nuova categoria di critici di complemento, quella degli addetti alla post-recensione (che poi è una pre-recensione, o viceversa) dei film che “passano” sul piccolo schermo. Che l’avvenire sia nel mezzo elettronico e che il corredo informativo-orientativo per lo spettatore accorto possa tutt’al più consistere in un repertorio da tenere accanto al televisore (come da tempo si fa, più rozzamente, in America) è evidente.

4. Italia anni ’70/’80 (la generalizzazione continua). Nel novembre del 1982 ha luogo a Lecce – tema: il cinema italiano (8) – un convegno di «cine-critici». È questo il neologismo usato, o forse coniato, da Lino Miccichè, nuovo presidente (al posto di Grazzini) del loro sindacato, ed è un neologismo che la dice lunga. Rispetto alla dizione “critico cinematografico” (ove prima viene la disciplina e poi la specializzazione), qui il peso è spostato sul prefisso (come nel vecchio caso di “cineamatore”, ove l’ars amandi è ovviamente secondaria, o nel caso di “cinerivista”, che non designa una pubblicazione specializzata, bensì un locale ove accanto al film si assiste a uno spettacolo d’arte varia) e non si direbbe né per amor di sintesi né per vezzo di esterofilia. È piuttosto un sintomo (forse involontario) di una nuova categorizzazione della figura più o meno professionale di cui ci stiamo occupando: il cinecritico cerca o trova il suo posto non più al di fuori della mischia (l’antica torre d’avorio o la vocazione ermetica o la postazione mimetizzata), non più al di sopra delle barricate (posizione scomodissima e assolutamente instabile, tanto che il meschino finiva col cadere da una parte o dall’altra), ma accanto ad altre categorie di addetti ai lavori, ciascuna col suo bravo prefisso in cine – o in tele-, oppure in telecine- o in cinetele-. Nell’ambito del convegno citato, vi allude indirettamente anche la relazione di Morando Morandini (La mutazione del critico di cinema sui quotidiani degli anni Ottanta) il quale, rifacendosi alla propria esperienza sul quotidiano II Giorno rileva alcuni segni di malessere che Io inducono addirittura a sospettare la prossima estinzione della specie animale cui dichiara di appartenere: rigido spazio predelimitato per le recensioni; recensioni che non solo non appaiono più all’indomani della prima, ma che escono a singhiozzo nei giorni successivi, al limite quando il film è stato già smontato; notizie cinematografiche (che so, il necrologio di un regista o il sequestro di un film) che non fanno notizia, almeno per i selettori e per gli impaginatori, e al tempo stesso abbondanza di spazio per la pellicola, vecchissima e abusatissima, che qualche tv mette in onda; grande rilievo per le occasioni festivaliere (dalle quali si parla ampiamente anche di film che nessuno vedrà mai) e in compenso rimando alle stesse o raffazzonata sintesi dei giudizi quando il film presentato in quelle occasioni compare finalmente nelle pubbliche sale, ecc. ecc. Allo spettacolo cinematografico, secondo Morandini, succede insomma quello che è capitato, nella gerarchia dei divertimenti di massa, al teatro cinquant’anni prima o, aggiungiamo noi, all’opera lirica cent’anni fa: si è dissociato dagli spettatori (anche se è tutt’altro che un “pentito”) e il suo critico è costretto a navigare di conserva (9).

In attesa dell’estinzione, il nostro personaggio non assume però un atteggiamento passivo, bensì si rivela animato da molti guizzi, si agita in diverse direzioni, assume persino colorazioni professionalmente mimetiche e soprattutto si predispone una propria tana attrezzatissima e quasi autosufficiente. In primo luogo mira a conseguire (se non v’è contraddizione in termini) una specializzazione multimediale. In un mondo dove la bobina sapientemente arrotolata, il rullo drastico scanditore di tempi e la scatola di latta familiarmente detta “pizza” si avviano al loro tramonto, occorre familiarizzarsi con nuovi aggregati o contenitori che si chiamano nastro, disco o cassetta, e non è solo questione di attrezzi.. In un mondo dove il rito della sala tradizionale diventa sempre più desueto e forse incongruo, dove accanto al televisore domestico affiorano le telesalette, le visioni in monitor, i telecinema, dove il surrogato della mitica moviola è ormai a disposizione quasi di tutti, occorre modificare, insieme alle consuetudini della fruizione, anche i modi e i momenti della visione. In un mondo dove la rigorosa divisione fra cinematografico e televisivo è già venuta a cadere, occorre compiere un ulteriore passo in avanti e rendersi conto che proprio in termini di visione l’unico elemento unificante è un mezzo, ma che questo mezzo non è altro che l’occhio umano. E unificante poi di cosa? Praticamente di tutto. Se non v’è più grande differenza tra il prodotto cinematografico e quello televisivo, ve n’è poi molta tra l’immagine fotografica, l’immagine elaborata da un computer, l’immagine pittorica artigianale (realistica o astratta che sia) o l’immagine diretta provocata sulla nostra rètina da un vero ambiente o da un vero paesaggio (antropologicizzato o naturale che sia)? E quante interferenze o omologazioni si manifestano tra le due supposte categorie e le loro infinite componenti? Quante nuove possibilità o spunti di scrittura si aprono?

A questo punto il critico cinematografico, trasformatesi in critico multimediale per necessità, non può che precisare meglio la propria specializzazione compiendo il secondo passo sulla via dell’evoluzione (che, come è noto in biologia, consente di evitare o almeno di ritardare la temuta estinzione). Abituato a vedere da un’antica frequentazione, talora condannato a vedere per costrizione professionale, comunque abilitato a vedere (e si spera anche a saper vedere), il nostro critico – e qui stiamo già per dire: tutti noi – affronta in rapida successione una serie di fasi metamorfiche, al termine della quale, come vedremo, gli vengono offerte due possibilità, professionali o esistenziali che siano. Le fasi, non necessariamente nell’ordine, sono le seguenti: abitudine a visionare film in televisione (per aumentare l’informazione, rinfrescare la memoria o rivisitare il passato); uso del telecomando di canale (per vincere la noia, isolare la sequenza, manifestare la nevrosi o porre a raffronto prodotti diversi); uso del telecomando di colore, luminosità e suono (per ottenere la fruizione ottimale ma ben presto per modificare, anche creativamente, i dati di partenza); estensione della visione “critica” a ogni emissione televisiva (per ricercare nuovi valori narrativi e formali, scoprire la spettacolarità della cronaca o l’espressività dello spettacolo, provarsi a “recensire” l’uno e l’altra); scoperta del videoregistratore (per operare frequenti riletture, archiviare la memoria visiva, tutelare fiduciosamente il proprio futuro o rinviare continuamente un intervento attivo in attesa dell’occasione propizia); scoperta del montaggio elettronico (per scegliere, ridurre, contrapporre, alternare, insomma avviarsi alla codificazione di un nuovo linguaggio e alla realizzazione di un nuovo, personalissimo prodotto). L’elenco potrebbe continuare ma entreremmo troppo o nell’ambito di pratiche privatissime o in quello di un incerto futuribile(10). Volutamente esclusa la possibilità di uno sbocco creativo vero e proprio (che, tutto sommato, non ci riguarda più e si riferisce ai non pochi critici passati recentemente alla regia di videoclip o dì altri prodotti promozionali), restano al cinecritico degli anni ’80 due alternative o almeno due aspirazioni: mutarsi in “critico visivo” o convertirsi alla mansione del video-jockey, familiarmente vee-jay.

Nel primo caso, egli non dovrebbe far altro che mettere a profitto la propria familiarità con la visione cui si è già accennato, estendendo le proprie facoltà di lettura critica a tutto il visibile. Non si vede (ci si scusi il bisticcio) perché una persona ormai abituata a discettare di valori figurativi, formali, iconici, compositivi nell’ambito di un normalissimo film, dovrebbe arrendersi di fronte a qualsivoglia immagine di diversa natura gli venga proposta, fissa o in movimento che sia, e debba impedirsi di “recensirla”. Viceversa, considerato che già da oggi altri specialisti spesso intervengono su un prodotto per immagini con il solo scopo di valutarne gli aspetti etici, ideologici, psicologici, sociologici o politici, si può ipotizzare per il futuro la contrapposizione professionale tra il “critico visivo” di cui s’è detto (un critico onnivoro ma non onnisapiente) e un “critico verbale” avente il compito dì riferire e indagare su quanto attiene a questi altri aspetti.
Più che di contrapposizione si dovrebbe anzi parlare di abbinamento, proprio come già accade quando qualcuno si occupa delle fonti storiche del soggetto di un film o, al contrario, qualcun altro si occupa della regia (sia di quella televisiva sia di quella organizzativa) di un avvenimento sportivo o politico o culturale. Ma saprà il critico evolversi in questa direzione? C’è da sperarlo, eppure c’è anche da dubitarne: essere grandi fagocitatori di immagini non sempre significa, allo stato attuale, essere in grado di comprenderne e soprattutto di spiegarne le linee di lettura, specie le più recondite o involontarie.
Quanto al secondo caso, quello del vee-jay, non sussiste invece quasi nessun dubbio. Diciamolo pure: fare ciò che fa un Carlo Massarini con Mister Fantasy resta l’aspirazione segreta e inconfessata di molti critici (e anche di qualche cattedratico, sul tipo per esempio di Alberto Abruzzese) (12). Musica a parte (poniamo di annullare l’audio), quella fortunata e abilissima trasmissione è un modello di critica e di intrattenimento, di valutazione e di divagazione, di informa/ione e di scoop, di trascinamento e di frantumazione. Il felice conduttore ha a disposizione un ricco stock di visibile, tutto a brani e sequenze, la possibilità di colorarlo, integrarlo, manipolarlo, stravolgerlo e turbinarlo; gioca con gli effetti come con le classifiche, con gli accostamenti come con i cast e con i credits, con i giudizi come con le parole; provvede con mille accorgimenti a soddisfare il proprio protagonismo, ma ci fa anche sentire per un momento tutti protagonisti. Ha un pubblico vastissimo, ma agirebbe allo stesso modo anche se non lo avesse o se la trasmissione fosse a circuito chiuso. Eppure, non v’è dubbio, fa critica dell’immaginario visivo, fosse soltanto per l’acquisito potere dell’inclusione o dell’esclusione. Sarà un modello? Sarà, come nel racconto di Ballard, l’unico lavoro che ci rimarrà in futuro? Quanti altri, come Massarini, vivono già nel loro solarium artificiale, tutto monitor e niente finestre, e quanti altri, tra noi, sono già «ansiosi di fondersi col ciclo bianco degli schermi» a notte fonda?
              
                                                                           

NOTE

(1) “Motel Architecture”, ora compreso con il titolo “Solarium” nell’antologia Mitologie del futuro prossimo, n. 976, di Urania, Mondadori, 1984. Nella stessa antologia il racconto “Riunione di famiglia” (“The Intensive Care Unit”, 1978) ipotizza l’esistenza di una famiglia esclusivamente “televisiva”: opportuni collegamenti video hanno consentito al protagonista di scegliere la propria compagna, di celebrare le nozze in un fastoso studio, di accoppiarsi con lei, di fecondarla (ovviamente lo sperma è stato trasmesso su un monitor di servizio), di assistere alla nascita, alla crescita e all’educazione dei loro figli, il tutto senza quegli sgradevoli contatti affettivi e corporali connessi ai metodi tradizionali. La dipendenza televisiva di questi “spettatori” è talmente globale che, il giorno che otterranno di derogare dalla norma e di riunirsi fisicamente in via sperimentale, l’insofferenza per la “riunione dì famiglia” darà subito il via a un’orrenda strage.

(2) Mario Gromo, Film visti, Edizioni di Bianco e Nero, Roma, 1957.

(3) Proprio ed esclusivamente ai “letterati”, in quanto il nome dell’autore già faceva libro, è toccato all’inizio l’onore della raccolta dì recensioni in volume. Ricordiamo: Pietro Bianchi, L’occhio del cinema, Garzanti, Milano, 1957; Filippo Sacchi, Al cinema col lapis, Mondadori, Milano, 1958; Giuseppe Maretta, Questo buffo cinema, Bompiani, Milano 1956 (con le successive raccolte Maretta ciak, 1958, e Visti e perduti, 1961, nonché, postume, Facce dispari, 1963, e Di riffe o di raffe, 1965); Mario Soldati, Da spettatore. Un regista al cinema, Mondadori, Milano, 1963; Alberto Moravia, Al cinema. Centoquarantottofìlm d’autore, Bompiani, Milano, 1973.

(4) Il mestiere del critico sarebbe stato successivamente anche il titolo di una raccolta di “schede” (1958-1961) del gruppo di Cinema Nuovo (a cura di Guido Aristarco, Mursia, Milano, 1962), forse l’unico esempio in questo campo di pubblicazione “collettiva”. Raccoglie infatti recensioni di Guido Fink, Adelio Ferrero, Vittorio Spinazzola, Giulio Cattivelli, Guido Oldrini, Franco Valobra, Paolo Gobetti, Lorenzo Pellizzari, Ugo Finetti.

(5) Gli atti sono stati pubblicati l’anno successivo in un quaderno del Sncci: Adelio Ferrerò, Sergio Prosali, Ernesto G. Laura, Italo Moscati, Giorgio Tinaz/i, Responsabilità sociali e culturali della critica cinematografica, Marsilio, Venezia, 1972.

(6) La ricerca appare in un altro quaderno del Sncci: La critica cinematografica in Italia. Rilievi sul campo, a cura di Bruno De Marchi, prelazione di Giovanni Grazzini, autori Annamaria Cascetta, Corrado Galignano e Maria Grazia Osnaghi, Marsilio, Venezia, 1977.

(7) La priorità spetta a Giovanni Grazzini (Corriere della Sera) con Gli anni Settanta in cento film (Laterza, Bari, 1976), ma subito rintuzza Tullio Kezich (Panorama e La Repubblica) con Il Millefilm 1967-1977 (Il Formichiere, Milano, 1977). Grazzini retrocede con Gli anni Sessanta in cento film (Laterza, Bari, 1977) e sferra l’attacco dell’appuntamento annuale con Cinema 77 (Laterza, Bari, 1978), mantenendo puntualmente – lui e l’editore – l’impegno nel tempo. Con Il Centofilm Kezich regge il ritmo per tre stagioni (dal 1977-1978 al 1979-1980), poi gli infortuni economici del suo editore gli impediscono di proseguire. Ma si rifà nel 1983 pubblicando presso gli Oscar di Mondadori Il nuovissimo Millefilm che recupera il periodo 1977-1982 e si offre a un prezzo di copertina imbattibile. Imbattibile è anche il suo primato (2100 film in quindici anni), mentre Grazzini – nello stesso periodo – non va oltre i 600-700 film (ma le sue recensioni sono più lunghe e talora più selezionate). Da Laterza, Grazzini continua sino a Cinema ’93 (1994) a macinare il proprio impegno annuale; non lo fermano i passaggi di giornale (dal Corriere a Il Messaggero e poi a L’Indipendente) bensì l’assunzione di incarichi pubblici. Nella stessa collana prende il suo posto, con Cento film 1994 (Laterza, Bari, 1995) e gli annuali volumi successivi, Kezich (in collaborazione con Alessandra Levantesi) che nel marzo 1989 è passato da La Repubblica al Corriere della Sera e che ha comunque raccolto le sue precedenti recensioni in II film ‘80 (Oscar Mondadori, 1986) e in II film ’90 (Oscar Mondadori, 1990), raggiungendo a quel punto un totale di 2942 film. Intanto, per restare sempre in questo ambito, si è affacciata Lietta Tornabuoni (La Stampa e L’Espresso) con la seguente progressione: ’90 al cinema (Einaudi, Torino, 1990), ’91 al cinema (Einaudi, Torino, 1991), ’92 al cinema (Baldini & Castoldi, 1992), ’93 al cinema (Baldini & Castoldi, 1993), ’94 al cinema (Baldini & Castoldi, 1994). Dopo di che, senza rinunciare al supporto cartaceo, l’impavida Tornabuoni si lancia nella multimedialità con i due floppy disk Cinefile 95 e Cinefile 96 e il cd-rom Cinefile 97, distribuiti in edicola direttamente dal suo quotidiano. A conferma che la strada del vee-jay è ancora lunga.

(8) Gli atti sono pubblicati in “Cinema italiano’80-’82”, numero speciale di Cinecritìca, Roma, n. 14, settembre 1983, e comprendono molti altri interventi che andrebbero citati e analizzati, anche se il tutto resta un discorso tra “colleghi” e “amici”, privo di confronti all’esterno e delle talora pur necessario “cattiverie” ad personam.

(9) Sulla “professione del critico” gli interessati risultano comunque in genere restii a confessarsi in prima persona. V’è anche da dire che raramente a qualcuno viene l’idea di intervistarli. La duplice eccezione si è però verificata per Tullio Kezich che ha avuto l’onore di occupare una ventina di pagine di un diffusissimo settimanale d’opinione, lo stesso cui collabora (“Che cinema, la vita!”, a cura di Bruno Blasi, in Panorama, 28 maggio 1984). Non che Kezìch si confessi molto, ma racconta abbastanza da invogliare un ricercatore di storia del nostro cinema a occuparsi dell’argomento, sinora trascurato. E prima che la situazione evolva troppo e che tante memorie non risultino più registrabili. Questa mia proposta non ha trovato interlocutori, né presso molti dei diretti interessati né presso gli editori specializzati. In compenso due critici di livello nazionale, raggiunti i cinquant’anni dì carriera, hanno scoperto alcune delle loro carte: è apparso infatti, nella collana «Storia orale del cinema italiano», il composito volume di Sergio Toffetti, ‘ndemo in cine. Tullio Kezich fra pagina e set, Lindau, Torino, 1998, che fa seguito al più “teorico” volumetto di Morando Morandini, Non sono che un crìtico, Pratiche, Parma, 1995, poi in nuova edizione, Non sono che un critico. Il ritorno, Il Castoro, Milano, 2003. Non basta. Ezio Alberione, con Di cosa parliamo quando parliamo di cinema. Riflessioni su critica, cinema e quant’altro, Loggia de’ Lanzi, Firenze, 1997, ha intervistato vecchie e nuove glorie: in ordine alfabetico, Irene Bignardi, Gianni Canova, Pierà Detassis, Fernaldo Di Giammatteo, Roberto Escobar, Goffredo Fofì, Bruno Fornara, Enrico Ghezzi, Paola Malanga, Paolo Mereghetti, Morando Morandini, Enzo Natta, Roberto Nepoti, Alberto Pezzotta, Maurizio Porro, Giancarlo Zappoli, ottenendone molte utili considerazioni e poche effettive “confessioni” o testimonianze di valore storico.

(10) A un incerto futuribile appartiene senz’altro la copia di Metropolis di Fritz Lang (1926) rivisitata elettronicamente da Giorgio Moroder (1984). Moroder non si è limitato a musicare in chiave rock il film e a virarlo sequenza per sequenza, ma è anche intervenuto con più colori sulla stessa immagine e ne ha variato il ritmo di montaggio con operazioni di replay e di duplicazione dei fotogrammi. Il risultato è stato una radicale mutazione di target, di destinatario e di consumo: un po’ come il Casablanca per manager alberghieri che citavamo all’inizio, con la differenza che questo Metropolis rientra già nella nostra realtà.

(11) Mi è stato fatto osservare che questa contrapposizione richiamerebbe quella un tempo artatamente applicata tra critici “formalisti” e critici “contenutisti”. Ma la vecchia distinzione veniva usata in negativo dall’una parte per “bollare” l’altra e finiva con l’annullarsi in un unico criterio estetico (quello crociano) semplicemente utilizzato in due modi diversi. Mentre l’attuale proposta prende soltanto atto di una certa realtà visiva (quale si è venuta a formare negli ultimi anni) e di una situazione di fatto alla quale i critici più sensibili già corrispondono.

(12) La trasmissione quotidiana dalla Mostra di Venezia 1984, condotta su RaiTre da Beniamino Placido, con la collaborazione di Paolo di Valmarana, Irene Bignardi e Patrizia Carrano, è già un esempio (imperfetto) dì critica da vee-jay. Le manca qualche perfezionamento tecnico, qualche ulteriore marchingegno elettronico, ma lo spirito che la anima è proprio quello di un Massarini, solo più attempato e più acculturato. Risparmiamo al lettore l’analisi, che sarebbe “cattiva” anche se la trasmissione ci ha affascinato, e cogliamo l’occasione per chiedere anticipatamente “scusa” di altre “cattiverie” che qualcuno potrebbe riconoscere nelle pagine precedenti. 

(Originariamente pubblicato in … e ristampato all’interno del volume Critica alla critica – Contributi a una storia della critica cinematografica, Bulzoni Editore)