Schroeter è stato il cineasta più marginale, fragile e incompreso del nuovo cinema tedesco.

I.  Il giovane Werner

Tanti avranno visto Werner Schroeter per la prima volta in Attenzione alla puttana santa di Fassbinder. Si fece notare subito per quella sua presenza naturale e imponente da dandy androgino: un corpo giovane e magro, vestito di nero e con un cappello a falde larghe, che emanava una strana sensualità molto camp, senza mai cadere nel ridicolo. Il suo ruolo di fotografo di plateau (sempre senza macchina fotografica [1]) era piuttosto secondario nel film, Fassbinder aveva più che ragione nel consacrare interamente il prologo a Schroeter. Quel piano fisso era anche l’unica parte del film in presa diretta, una scelta quasi obbligata per rendere la tonalità soave e leggermente stoned della voce di Schroeter mentre racconta una breve storiella, una sorta di falso aneddoto che, a posteriori, sembra prefigurare la chiave del suo stesso cinema (2): Pippo (“Goofy”) conosce per caso  gangster Winz-Willy “alto come una fanciulla di tre anni”,  e travestito da bambina, lo crede una piccola orfana e lo accoglie a casa sua. Quando la sera la polizia circonda la casa per arrestare il criminale Goofy continua a non capire l’accanimento contro la piccola. Rivelatagli la vera identità di Winz-Willy, Goofy incredulo esclama “Che choc sarà per la povera bambina scoprire di essere un criminale!”.
Un simile racconto (sottilmente maligno) sulla potenza del falso non poteva non piacere a Schroeter che nutriva per il gioco ingenuo e disinvolto dell’artificio una passione centrale, particolarmente evidente nei suoi primi film: uno strano amalgama di pathos e parodia mirato da un lato a raggiungere una sensualità estrema, dall’altro capace a trattare spesso con nonchalance il meccanismo e l’azione stessa del mettere in scena (da qui il suo palese disinteresse nei confronti di ogni aspirazione al realismo e alla perfezione tecnica).

Artista poliedrico, la cui opera si sarebbe declinata fino alla fine anche in mise-en-scène per il teatro e l’Opera (come Herzog), Schroeter era forse il membro più marginale, fragile e incompreso del “Nuovo cinema tedesco” degli anni ’60 e ’70, e si distingueva fra tutti per la forte passione musicale e la volontà di usare il cinema per entrare in un rapporto più alto con la musica. Carmelo Bene amava dire: “Non si può fare musica con la musica, né cinema col cinema, né teatro col teatro. Come non si può vivere con la vita.” Una frase che riecheggia una pagina landolfiana di Rien va: “Bisogna sempre fare altro”.
E Schroeter, nei suoi momenti migliori, faceva già “altro”, fin dall’inizio.

II. Maria che fermò il tempo

Il cammino di Schroeter verso la Settima arte fu tumultuoso, o almeno così amava raccontarlo lui, anche se va detto che la decisione di frequentare una scuola di cinema sembra essere stata non tanto un’iniziativa personale quanto un passo promosso in primo luogo dai genitori, che temevano continuasse a prostituirsi dopo avere abbandonato gli studi di psicologia. Schroeter si definiva autodidatta fin da quando abbandonò la scuola di cinema di Monaco dopo soli tre mesi, per poi ritornare sui suoi passi dopo l’incontro, al festival di Knokke-le-Zoute, col regista Rosa von Praunheim di cui si innamorò e che “sopportava l’altro solo a condizione che fosse creativo”. “Allora mi sono messo a fare dei film con la cinepresa 8mm della mia infanzia per fargli piacere” (3) dirà Schroeter. L’esame d’ingresso alla scuola di cinema di Monaco consisteva nell’analisi di una sequenza di Rocco e i suoi fratelli di Visconti. Schroeter preferì parlare “solo della passione di Visconti per Alain Delon. Pensavo di essere stato eliminato, invece fui preso.” Dopo Monaco, Schroeter tentò nuovamente, ma questa volta in compagnia di Fassbinder e Rosa von Praunheim, il concorso della scuola di cinema di Berlino. Ma nessuno dei tre fu preso. (4)

Comunque sia, tutto è cominciato nel 1968: Schroeter ha appena ventitré anni e sta imparando i rudimenti dell’arte. Dai primi tentativi nascono una serie di corti in 8mm, tra cui Maria Callas Porträt, un gioiello. La prima della due parti è composta da una serie di piani fissi di fotografie a colori e in bianco e nero della Diva, ritratti e scatti di allestimenti d’Opera. Come in un film d’animazione, gli scatti sono montati sul ritmo della musica che li accompagna, ovvero arie di Verdi e di Bellini. Dopo un lungo primo piano abbinato a un ritratto a colori della Callas, la musica e il montaggio delle fotografie successive scandiscono un ritmo talvolta incalzante. In alcuni passaggi, Schroeter intervalla gli scatti a parti di fondo nero, lasciando in questo modo vuoto la metà o uno terzo dello schermo ed ottenendo un effetto di split-screen o triple screen che, nonostante la sua forma alquanto primitiva, riesce nell’intento di creare un montaggio musicale interno.
Nella seconda parte del film la musica cambia e lo schermo si fa quasi totalmente nero tranne nella parte centrale, dove – all’interno di una maschera che fa da cornice – lo spettatore può leggere un estratto di un articolo sulla Callas. Si tratta di una recensione più che ammirativa, tratta da un giornale tedesco, che descrive la Diva – in un crescendo musicale drammatico – come un essere “già partito da questo mondo” il cui canto, in un momento di intensa bravura, è allo stesso tempo “un tremendo grido di morte”.
Interpretata dalla Callas la musica, quasi avesse uno statuto ontologico superiore, diventa il centro di gravità incontestabile al quale l’immagine aspira a “corrispondere”, tramite un montaggio a suo modo assai raffinato e innovativo.  
Come gli altri film in 8mm di quel periodo, questo ritratto si inscrive in uno sperimentalismo ingenuo e ludico che può sembrare per certi versi maldestro o molto crudo, ma che rivela appieno le preoccupazioni e le sensibilità del suo autore. Per questo, e per l’evidente volontà di assumere (o l’incapacità di attenuare) certe imperfezioni, Maria Callas Porträt è uno dei film più interessanti e riusciti di Schroeter: guardarlo è divenire testimoni del momento in cui un melomane – che viene da una passione quasi incontenibile per la musica e per l’arte della Callas – scopre un pianeta nuovo, fin’ora a lui sconosciuto – il cinema – e ne esplora la grammatica e le potenzialità espressive.

È certo che la Callas occupasse uno spazio centrale nell’universo di Schroeter, fin dal giorno in cui, adolescente, ne ascoltò per la prima volta la voce. Quando la diva morì, nel 1977, Schroeter, profondamente scosso, scrisse un breve necrologio che può essere senza dubbio letto come un manifesto, un credo esistenziale ed artistico:

I momenti espressivi dell’arte, che siano nell’architettura, nella musica, o altrove, non esprimono niente altro che il desiderio di fermare il tempo, cioè ignorare il finito dei desideri dell’uomo e conferir loro, per via eccezionale, una plausibilità e dunque del rispetto… Maria Callas, con la sua forza espressiva, poteva immobilizzare il tempo fino a che ogni paura spariva, anche la paura dalla morte, fino a che fosse raggiunto uno stato prossimo alla Felicità.” (5)

Più tardi Schroeter rivelò che pensava molto al Faust di Goethe in questo contesto: il suo “Verweile doch, du bist so schön’ (“Fermati, sei così bello”) era stato per lui superato dalla Callas, che realizzò qualcosa di talmente bello da essere già eterno, “trasformando così il tempo in uno spazio.” (6)

III. Argila, il tempo come spazio

In Argila (1968), uno dei suoi primi film girati in 16mm, il suono è ancora sovrano, lineare, a fronte di un uso dello split-screen molto complesso. (7) L’immagine è spezzata in due parti – quella a destra in bianco e nero, quella a sinistra a colori – e riporta le stesse immagini invertite e leggermente sfasate, in modo da non essere parallele. La parte a colori “segue in ritardo” la parte in bianco e nero che è temporalmente sempre “più avanti” di alcuni secondi (circa 25 sec.). Il film rappresenta momenti di triangolo amoroso fra due donne (Gisela Trowe e Magdalena Montezuma) e un uomo taciturno (Sigurd Salto), mentre una terza donna (Carla Aulaulau) canta e commenta i frammenti dell’azione. Per Schroeter, l’idea era presentare “due spazi temporali, quello presente e quello del ricordo già contenuto nel presente – che si uniscono in un unico spazio temporale.” Un esperimento che, tutto sommato, cercava di “rappresentare il tempo come spazio”.

Lodato da Wim Winders in occasione della sua presentazione al festival di Amburgo (8), il film costruisce la propria messa in scena sui rimandi (via la messa in relazione non sincronizzata) fra immagine e suono, evidenti fin dalla prima sequenza, in cui Carla Aulaula canta la canzone “Hotel Happiness” ma resta afona, perché il suono non inizia con lei. Dopo questo incipit puramente visivo in bianco e nero, lo split-screen apre da sinistra alla stessa sequenza, adesso a colori e in ritardo rispetto alla sua immagine-gemella, e su questa sequenza inizia finalmente la canzone. Anche se neanche in questo caso la sincronia è perfetta (probabilmente perché il suono non fu registrato in presa diretta), ciò non cambia l’intenzione di Schroeter, secondo cui “il suono è assoluto, presente solo in una versione: il piano acustico è eterno, onnipresente, ed è sia presente, che passato e futuro.” (9)

IV. Immagini sparpagliate

Fu il primo lungo-metraggio, Eika Katappa, a lanciare la carriera di Schroeter e a renderlo noto al di fuori della Germania. Al festival di Mannheim il film piacque a Josef von Sternberg e vinse il premio principale, prima di passare a Cannes e a Parigi, alla Cinémathèque, dove trovò in Henri Langlois un fervente sostenitore. Il produttore Peter Berling offrì a Schroeter la possibilità di girare subito un film in 35mm, Nicaragua, rimasto incompiuto.
Eika Katappa (10) è sicuramente un’estensione dei lavori precedenti nel suo non rispetto di convenzioni narrative più lineari ma, a livello formale, si rivela molto meno sperimentale dei primi tre corti. Fedele al suo senso di pathos, sempre impregnato da un grande amore per la musica (classica e popolare) e da un gusto molto personale per una gestualità “tragica”, esagerata, Eika Katappa si compone di una serie di tableaux sontuosi che mettono in scena frammenti d’Opera e di miti cari a Schroeter. Un collage complesso, insomma, che diventa un inno libero, molto personale, alla vita e all’amore, intrecciati a una forte sensazione di degrado e di consapevolezza della morte.
Passando dal nord tedesco (Monaco, Heidelberg…) al sud del Mediterraneo, Eika Katappa è anche una sorta di “Viaggio in Italia alla Schroeter”, dove Napoli sembra costituire una meta spirituale. La città dove nacque il Bel Canto è l’ultima tappa di un trip allegorico in cui ci si lascia sempre più permeare dall’Opera, per riconquistarne la dimensione più sacra e popolare.(11)
In una celebre sequenza del film, uno dei personaggi prende un traghetto per andare a Capri: il piano-sequenza di un giovane che contempla il mare, mentre la nave avanza e il paesaggio marittimo sfila dietro di lui, sullo sfondo di una delle “ultime quattro canzoni” di Richard Strauss (“Im Abendrot” – al crepuscolo). Forse è anche la semplicità del dispositivo che permette allo spettatore di godere ancora di più questo momento sublime dove la musica, il paesaggio e il cinema entrano in una simbiosi fortemente suggestiva. Tra gli altri, Fassbinder ne rimase così impressionato che chiese a Schroeter di rifare la stessa sequenza nel suo Attenzione alla puttana santa, laddove Magdalena Montezuma si allontana a bordo di un motoscafo accompagnata da un’Aria di Donizetti.(12)
Anche in Eika Katappa il piano sonoro si rivela composto in modo semplice, senza sovrapposizioni, determinato non tanto da un rispetto per le musiche scelte, ma soprattutto dall’idea di lasciare gli altri elementi della messa in scena vibrare in funzione di esso. Così, non è mai possibile udire un rumore, un suono o un dialogo, contemporaneamente a un brano di musica. Ci sono o dialoghi, o suoni, o musica. (13)

IV. La Diva di tutte le Dive

Nel 1971 Schroeter gira il film che lui stesso considerava la sua “opera di genio”: La morte di Maria Malibran, un omaggio alla diva-madre di tutte le dive, la cantante mitica che rese le opere di Bellini, Donizetti e Rossini famose nel mondo e che mori ventottenne sul palco, esaurita. Ispirato anche a Jimi Hendrix e Janis Joplin, morti alla stessa età, il film è un anti-biopic assai libero che contempla il destino della diva in una successione di tableaux rituali, e soprattutto di volti. Decisamente contro le convenzioni narrative in vigore, Schroeter sceglie di ambientare i suoi frammenti di scene in epoche varie – non solo il novecento della Malibran –, cambiando ad esempio i luoghi, come se volesse de-storicizzare l’evento della sua morte (14). La ricostruzione della biografia non è storicamente fedele né per forza corretta, anzi, è alternata a scene di pura finzione come il suicidio della figlia della Malibran, cosi come a livello delle musiche si trova poco di ciò che la Malibran cantava realmente (15). Una sorta di strategia di “amalgama anti-storico” dunque, che è per Schroeter un tentativo di andare oltre i fatti di un’esistenza per contemplare ciò che di più universale essa rappresenta.
“Il sangue che scorreva lentamente dalla sua bocca….”, dice Schroeter contemplando il momento della morte della Malibran, è “un simbolo meraviglioso del Novecento, perché quel colpo tragico era comunque in un certo modo pieno di speranza”. Questo era il romanticismo che attraversava il cinema di Schroeter, un romanticismo che, nonostante il suo gusto per la fatalità e la sua coscienza della morte, non diventa mai rassegnato, o depresso, ma al contrario sempre innamorato della vita.

La morte di Maria Malibran fu una rivelazione per Michel Foucault, che ne scrisse:

Guardate i baci, i volti, le labbra, le guancie, le palpebre, i denti in un film come La morte di Maria Malibran… Fare di un viso, di un zigomo, delle labbra, di un’espressione degli occhi, farne quello che ne fa Schroeter… Si tratta di una de-multiplicazione, di un gemmare del corpo, di una esaltazione in qualche modo autonoma di ogni minima parte, di ogni minima possibilità di un frammento del corpo. C’è l’anarchizazzione del corpo dove le gerarchie, le localizazzioni e le denominazioni, l’organicità se volete si stanno disfacendo… non è più una lingua, è qualcosa completamente diverso che esce da una bocca, non è l’organo della bocca profanata e destinata al piacere di un altro. È qualcosa di “non nominabile”, di ‘inutilizzabile’, fuori da tutti i programmi del desiderio; è il corpo reso interamente ‘plastico’ dal piacere”.(16)

(Nota a margine: nonostante la sua forza retorica, l’elogio di Foucault sembra esagerato se pensato per La morte di Maria Malibran, e somiglia di più alla descrizione programmatica di un film sognato, ancora da fare. Forse, piuttosto, un film come Ai (Amore) di Takeshi Limura potrebbe a maggior titolo pretendere di incarnare la frammentazione e anarchizzazione del corpo di cui parla Foucault.(17)

V. Il reale non è una misura

La valutazione di Foucault pone una questione: quali sono i tratti distintivi di Malibran e, per estensione, di tutti i film in 8mm e 16mm del primo periodo di Schroeter? Non è tanto il carattere frammentario o anarchico delle sue rappresentazioni (né in Malibran, né in altri film), quanto piuttosto il carattere artificiale e auto-cosciente di esse: come se non fossero mai niente più che una rappresentazione, e quindi, come tali, sempre e volontariamente artificiali, false, o esagerate (18). Per Schroeter non si tratta di rappresentare il mondo intorno circostante, ma di arrivare a una sensualità estrema, perché “la realtà così come esiste intorno a noi non può essere una misura e non deve essere rappresentata in quanto tale”, quindi “per me il teatro e il film devono essere estremamente sensuali.” (19)
Per avvicinarsi il più possibile a ciò che intende per sensualità, Schroeter insiste sulla gestualità dei propri attori. Il suo stile si definisce per i gesti “tragici” e i movimenti  “larghi” “che gonfiano un contenuto minimo” (20). E ciò che vale per la gestualità “tragica”, vale anche per la mimica. Secondo Schroeter, questo stile deriva in parte dall’“unico film che mi abbia mai influenzato” (21) ovvero La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer, visto nel 1961 in televisione e che considerava “con i suoi primi piani, le inquadrature concentrate, i suoi gesti di dolore […] a modo suo estremamente temerario.” (22)
Legato a questa “tragicità” dei gesti è un forte anti-psicologismo che si interessa poco a come quei gesti sono motivati e che determina anche l’approccio non-lineare, frammentario delle sceneggiature: “Nei i miei film”, disse Schroeter nel 1970, “ci sono solo climax”. (23)
Quando l’esagerazione dei gesti viene spinta oltre misura, va oltre il pathos e diventa parodia, o trash, e può comportare talvolta una nota di umorismo. Schroeter non escludeva questi eccessi, anzi, a volte sembrava incoraggiarli. E il risultato poteva diventare una strana coabitazione dove il sublime si sposa col “sublime a rovescio” (Jean Paul): sarà anche per questo che Schroeter non temeva il kitsch e a sua volta affermava che “C’è molto poco kitsch nella vita. All’arte occuparsene.” (24)
Altra distinzione superata da Schroeter è quella fra cultura alta e popolare e, in particolare, quella fra musica classica e musica “pop”. Entrambi i generi vengono usati senza discriminazione, cosi che Caterina Valente figura a pieno diritto accanto Maria Callas.
Nello stesso modo in cui la distinzione fra vero e falso, cultura alta e cultura bassa vengono trascurate, il cinema di Schroeter si apre anche un discorso trans-gender: attori di un sesso incarnano personaggi del sesso opposto, e sono tante le presenze di travestiti (25) fra i quali il più famoso è Candy Darling, una delle star della factory warholiana, in La morte di Maria Malibran.

Infine, nessun romantico, e Schroeter lo era innegabilmente, può essere insensibile al divario che separa un istante dall’eternità. Si tratta della distinzione più alta e difficile da oltrepassare per qualsiasi artista, eppure, Schroeter a modo suo tentò anche questo. Cosi, uno degli effetti più magici del suo cinema è particolarmente presente in Malibran e deriva dal ritmo del film e dal senso di tempo che viene creato: un’estrema lentezza dei gesti, dei movimenti e delle mimiche che a volte sembrano essere gelati, fermati nel tempo e che, in combinazione con una musica sontuosa, danno l’impressione di un’intensità inedita. In questi momenti il cinema di Schroeter non è lontano da ciò che egli stesso ammirava nell’arte della Callas: il fermarsi del tempo.

VI. Epilogo

Negli ultimi due anni dalla morte, Schroeter tornò ad essere molto presente nei media in occasione del suo ultimo film Nuit de Chien. Il viso era ormai molto cambiato, scavato, consunto dalla malattia, ma questo non mutava la passione, la raffinatezza, la lucidità del suo discorso che lo confermava come un beau parleur dalla vasta cultura, con un forte senso dell’aneddoto, e la memoria di tutta una vita, vissuta pienamente, da raccontare. (26)
Fresco e allo stesso tempo apocalittico e pieno di vita, Nuit de Chien chiude un percorso cinematografico ricco e atipico, non per forza sempre costante, che si può dividere in diverse fasi e tappe, coincidenti con il passaggio dal 8mm al 16mm e al 35mm.
Dopo i primissimi esperimenti in 8mm e le prime opere in 16mm, Schroeter passò al 35mm con Regno di Napoli per dedicarsi a una narrazione più complessa e lineare, in contrasto con le strutture frammentarie ed episodiche che caratterizzavano le opere in 16mm. In parallelo realizzò un discreto numero di documentari e film d’essai spesso in forma di collage.

È comunque sbagliato considerare i periodi in 8mm e 16mm come dei blocchi omogenei, caratterizzati da uno spessore constante. Dopo i primissimi corti, il cinema di Schroeter non si mise più in gioco nella ricerca sperimentale, trascurando così quello che sembrava un suo grande talento. Il suo romanticismo operatico, caratterizzato da un gusto esclusivo per l’eccesso drammatico avrebbe avuto bisogno, per continuare a funzionare ed essere credibile, di esplorare ed essere messo in relazione con scelte formali sempre nuove, originali. Quando il giovane Schroeter nel 1970 dichiarava “nei miei film ci sono solo climax” (27) al contempo ne esponeva già di fatto il lato vulnerabile: che una serie di climax, senza qualcosa di più complesso che li elevi ad un livello formale che si trasforma, può stancare. Senza un equilibrio perfetto fra l’esuberanza delle scene e l’intelligenza della forma scelta – equilibrio che forse solo Argila possedeva – si rischia di cadere nell’irritazione.

In un momento di grande lucidità Schroeter stesso disse una volta che “è più interessante trasformarsi che riprodursi”.28 La critica più dura del suo cinema si trova potenzialmente qui: da un certo punto in avanti, Schroeter smise di trasformarsi. I film diventarono più narrativi, ma senza ritrovare l’energia e la poesia che animavano le prime opere.

Schroeter stesso descriveva il suo percorso artistico così :

Credo che i cineasti che hanno cominciato a fare dei film sperimentali abbiano inventato una nuova espressione. Però dopo un certo tempo – è questione d’età – si comincia a capire meglio la vita invecchiando. Non si può restare al cinema della giovinezza… Ma è normale che, più avanti negli anni, ci si occupi diversamente e si cerchi di valorizzare un’espressione un po’ più primitiva, ma più forte a livello umano. Si valorizza di più il piano spirituale di quello piano estetico. […] Troppi registi si fermano a questa giovanilità anche quando hanno cinquanta o sessanta anni. I film diventano sempre più brillanti, più stilizzati, e alla fine sempre più vuoti. Se la gente ha creduto che i miei film fossero molto sofisticati ha sbagliato. Si basano solo su tre idee: calunniare la morte, amare l’amore, la vita e l’essere umano.” (29)

Comunque, anche se ci concentriamo solo sul suo lavoro dei primi anni, il cinema di Schroeter è uno dei più difficili da apprezzare per il suo giusto valore laddove momenti di grande spessore si alternano a scelte che funzionano meno. L’esagerazione, se viene spinta troppo, non diventa più parodia, ma si rivela solo cheap. Sono soprattutto questi i momenti che fanno dubitare sullo statuto mitico, leggendario, che si è creato intorno all’opera cinematografica di Schroeter e che per certa critica, in alcuni momenti particolari del suo percorso, ha fatto si che venisse accostato a cineasti emersi nei Sessanta come Adolpho Arrietta, Philippe Garrel (30) e Carmelo Bene (31).

Anche se sarebbe piaciuto a tanti (in Germania e all’estero) conoscere l’esistenza di un artista tedesco che corrisponda e sia al livello di questi artisti, Werner Schroeter  – ci dispiace dirlo – non lo era, nonostante il carattere insolito e suggestivo del suo percorso cinematografico. La sua reputazione era in parte anche frutto del suo culto della propria persona come genio, eseguito con un tocco di vanità che a volte faceva tenerezza, ma che, al contrario, poteva anche portare alla dissoluzione della immagine intera. 

NOTE

(1) «Definizione non così male di Schroeter cineasta: colui che ha appena bisogno di una camera per trasformare l’immagine in oro»  («Définition pas si nulle de Schroeter cinéaste: qui n’a qu’à peine besoin d’une caméra pour transformer l’image en or. »). Philippe  Azoury, Werner Schroeter, qui n’avait pas peur de la mort, Capricci, 2010, pag. 22.

(2) «Dare la chiave della sua opera nell’ouverture di un film di un’altro è un gesto raro, che però non sorprende venendo da lui» (« Donner la clé de son œuvre en ouverture d’un film d’un autre est un geste rare, mais qui ne surprend pas, venant de lui.»). Idem, pag. 22.

(3) «Alors je me suis mis à faire des films avec la caméra Super8 mm de mon enfance pour lui faire plaisir».

(4) Werner Schroeter, Tage im Dämmer, Nächte im Rausch, Aufbauverlag 2011, pag. 53.

(5) «Les moments d’expression de l’art poussés à l’outrance, que ce soit dans le secteur de l’architecture, de la musique ou ailleurs n’expriment rien d’autre que le désir d’arrêter le temps, c’est-à-dire ignorer le fini des désirs de l’homme, leur octroyer en cas exceptionnel une plausibilité et donc du respect»… «Maria Callas, par sa force d’expression, pouvait immobiliser le temps jusqu’à ce que toute peur ait disparu, même la peur de la mort et qu’un état proche de lui que l’on pourrait appeler le bonheur soit atteint». Werner Schroeter, «Der Herztod der Primadonna», in Der Spiegel, n° 40, 1977.

(6) Conversazione con Dietrich Kuhlbrodt, Viennale 2008. La conversazione fa parte dei bonus del dvd di Eika Katappa e Der Tod der Maria Malibran, edizione Filmmuseum München.

(7) Schroeter dice di non aver visto Chelsea Girls di Warhol all’epoca, opera celebre per il suo uso dello split-screen. Philippe Azoury, Werner Schroeter, qui n’avait pas peur de la mort, Capricci, 2010, pag. 35.

(8) Wim Wenders, «Die phantastischen Filme von Werner Schroeter über künstliche Leute», su Filmkritik, maggio 1969.

(9) Werner Schroeter, op. cit., pag. 63.

(10) Il titolo sembra essere stato preso da una locandina turca, senza che Schroeter ne conoscesse il significato. (Tage im Dämmer, Nächte im Rausch, pag. 65). Dovrebbe significare, in una sorta di greco un po’ grezzo, “Immagini sparpagliate”.

(11) Philippe Azoury, op. cit., pag. 41.

(12) Un’altro elemento di Eika Katappa che si ritrova in Attenzione alla puttana santa è la frase: “Life is so precious–even right now”. Nel film di Schroeter viene pronunciata varie volte da Carla Aulaulu, mentre nel film di Fassbinder una volta sola da Hanna Schygulla.

(13) Werner Schroeter, op. cit., pag. 70-71.

(14) Michelle Langford, Allegorical Images: Tableau, Time and Gesture in the Cinema of Werner Schroeter, Intellect, Bristol 2006.

(15) A parte Rossini, che la Malibran cantava spesso, si possono ascoltare Brahms (la Rapsodia per Alto), Puccini (Gianni Schichi), e alcune musiche strumentali di Mozart (“L’andante del concerto per pianoforte no° 21”), Stravinski (“Le Sacre du Printemps”) e musiche popolari del Novecento – una canzone di Marlene Dietrich (“Auf der Mundharmonika”) e un blues (“St Louis Woman”) tra gli altri.

(16) “Regardez les baisers, les visages, les lèvres, les joues, les paupières, les dents dans un film comme la Mort de Maria Malibran… Faire d’un visage, d’une pommette, de lèvres, d’une expression des yeux, faire ce qu’en fait Schroeter…. Il s’agit d’une démultiplication, d’un bourgeonnement du corps, d’une exaltation en quelque sorte autonome des moindres parties, des moindres possibilités d’un fragment du corps. Il y a l’anarchisation du corps où les hierarchies, les localisations et les dénominations, l’organicité si vous voulez sont en train de se défaire… ce n’est plus une langue, c’est tout autre chose qu’une langue qui sort d’une bouche, ce n’est pas l’organe de la bouche profanée et destinée au plaisir d’un autre. C’est une chose « innommable », « inutilisable », hors de tous les programmes du désir; c’est le corps rendu entièrement plastique par le plaisir ». Michel Foucault, « Sade, sergent du sexe, Entretien avec Dupont», in G. Cinématographe, n° 16, dicembre-gennaio, pp. 3-5 ; oggi in Michel FOUCAULT, Correspondance Dits et Ecrits: volume II, testo n° 164.

(17) Girato nel 1962 in 8mm (poi gonfiato in 16mm) e dotato di una colonna sonora composta da Yoko Ono, Ai consiste essenzialmente di primissimi piani in un bianco e nero cosi sgranato che lo spettatore arriva poco a poco ad identificare due corpi che stanno facendo l’amore. Anche grazie alle lunghezza focale molto corta  e all’uso di lenti macro, le inquadrature sono quasi sempre tali che è difficile identificare subito le parti del corpo che ci vengono presentati. È proprio questa non-identificabilità a prima vista che rende alle parti “l’autonomia” alla quale accenna Foucault (“l’exaltation en quelque sorte autonome des moindres parties”).

(18) « Il cinema di Werner Schroeter é un ritorno a un cinema cerimoniale e di rappresentazione. Però è un cinema che sa che la rappresentazione come elemento primo della narrazione a finito di funzionare oggi. Rimane il sistema stesso di rappresentazione. Schroeter gioca al massimo questo sistema, pur sapendo e facendolo capire allo spettatore che si tratta della rappresentazione data come tale.” (« Le cinéma de Werner Schroeter est un retour à un cinéma de cérémonial et de représentation. Mais c’est un cinéma qui sait que la représentation en tant qu’élément premier du récit a cessé aujourd’hui de fonctionner. Reste le système même de représentation. Schroeter joue à fond ce système tout en sachant et en le faisant très bien comprendre au spectateur que c’est de la représentation donnée comme telle. »). « Entretien avec Jean Douchet (à propos du cinéma de Werner Schroeter) », intervista di Gérard Courant fatta l’8 novembre 1981 a Parigi, in Gérard Courant, Werner Schroeter, Edizioni Goethe Institut e Cinémathèque Française, gennaio 1982.

(19) “Ich suche mich im Fremden”, in Welt am Sonntag, 12 aprile 2009

(20) “Der magische Realist, Bernhard Graff”, in Suedeutsche Zeitung del 13 aprile 2010.

(21) W. Schroeter, op.cit. pag. 65. Schroeter cita spesso anche i film di Markopoulos che aveva visto a Knokke-le-Zoute, in particolar modo Twice a Man (1965).

(22) “Mit seinen Grossaufnahmen, konzentrierten Cadragen, Schmerzgesten ist der Film auf eigenartige Weise extrem verwegen.“ W. Schroeter, op.cit.

(23) “In meinen Filmen gibt es nur Höhepunkte.” Da (redazione), “Gehobene Sprache”, in Der Spiegel, n° 45, 2 novembre1970.

(24) “Il y a très peu de Kitsch dans la vie. À l’art de le prendre en charge » da Hélène FRAPPART, «Werner Schroeter, le Maître de la Voix», in Cahiers du Cinéma, novembre 2002, pag. 55.

(25) Il lavoro con i travestiti è uno dei grandi punti di somiglianza del cinema di Schreoter con quello di Adolpho Arrietta, oltre allapassione per la musica (classica e popolare). E Arrietta, che  fu probabilmente il primo a filmare grandi gruppi di travesti con disinvoltura e poesia in Les Intrigues de Slyvia Couski (1975) e Tam Tam (1976), si dichiarò molto colpito da Eika Katappa che vide alla Cinémathèque all’epoca. Va comunque detto che lo spazio centrale che l’Opera occupa per Schroeter come fonte d’ispirazione e modello di mis-en-scène da trasfigurare, nel cinema di Arrietta è preso piuttosto dal cinema “classico” (americano e europeo). Entrambi i cineasti sono spesso stati considerati come dei figli di Cocteau per la loro “poesia del falso”.

(26) L’autobiografia Tage im Dämmer, Nächte im Rausch dà purtroppo solo una pallida idea dell’eloquenza di Schroeter, poichè scritta a quattro mani e completata postuma. È quasi un peccato che siano state integrate anche quelle parti dei suoi discorsi che svelano l’aspetto estremamente esibizionista e individualista della sua personalità. A proposito della sua colloboratrice e musa di lunga data, Magdalena Montezujma, diceva ad esempio: “Magdalena era molto inammorato di me. Io la stimavo come amica. Per un periodo abitavamo in tre in un appartemento di trentacinque metri quadri a Monaco. Steven Adamczwewski (…) abitava con noi, il mio grande amore, un americano, pazzo, giovanissimo. Avevamo un letto, e quando facevo l’amore con lui, mi ricordo, Magdalena veniva con un secchio e lavava i calzini davanti al letto. Fu splendido, ma per lei certamente anche triste. Si occupava lei della corrispondenza con i laboratori, le sale, il Goethe Institut e coi distributori… Qualcuno lo doveva fare. Io non potevo ed ero troppo pigro. Preferivo scopare.” (Werner Schroeter, Tage im Dämmer, Nächte im Rausch, pag. 47-48).

(27) «Gehobene Sprache», in Spiegel, n° 45, 2 novembre 1970.

(28)  Hélène Frappat, «Werner Schoroeter, Le Maître de la Voix», in Cahiers di Cinéma, novembre 2002, pag. 60.

(29) “Je crois que les cinéastes qui ont commencé à faire des films expérimentaux ont inventé une nouvelle expression. Mais au bout d’un certain temps — c’est une question d’âge — on comprend mieux la vie en vieillissant. On ne peut pas en rester au cinéma de jeunesse. […] Mais il est normal, au bout d’un certain temps, que l’on s’occupe de manière différente et que l’on essaie de valoriser une expression un peu plus primitive mais plus forte humainement. On valorise plus au niveau spirituel que sur le plan esthétique. […] Trop de réalisateurs s’arrêtent à cette juvénilité même s’ils ont cinquante ou soixante ans. Les films deviennent de plus en plus brillants, de plus en plus stylisés et finalement de plus en plus vides. Si des gens ont cru que mes films étaient très sophistiqués, c’est une erreur. Ils fonctionnent seulement tout le temps sur trois idées: calomnier la mort, aimer l’amour, la vie et l’être humain.»

(30) Jean Douchet disse: «Fin dall’inizio, mi sembrò uno dei cineasti piu importanti della sua generazione con Philippe Garrel.» (« D’emblée, il m’est apparu comme l’un des cinéastes les plus importants de sa génération avec Philippe Garrel.»).

(31) «Con Carmelo Bene, ci mettevano a tutti i due l’etichetta « barocco », cosa che trovo assurdo, non vedo affatto…Ci vedevamo spesso all’eopca, facevamo le stesse stupidaggini: bevevamo troppo e si prendevamo troppa cocaina. Era la nostra dieta, mangiavamo niente. » (“Avec Carmelo Bene, on nous collait à tous les deux l’étiquette « baroque », ce que je trouve absurde, je ne vois pas du tout… On se voyait souvent à une époque, on faisait les mêmes bêtises: on buvait trop et on prenait trop de cocaïne. C’était notre régime, on ne mangeait rien.). Cyril Neyrat, « Entretien avec Werner Schroeter», in Cahiers du Cinéma, gennaio 2009, n° 641.

EIKA KATAPPA & DER TOD DER MARIA MALIBRAN (Filmmuseum)
Maria Callas Porträt, regia di Wener Schroeter, Germania 1968, 13′
Argila, regia di Wener Schroeter, Germania 1968, 36′
Eika Katappa, regia di Wener Schroeter, Germania 1970, 143′
Der Tod der Maria Mailbran, regia di Wener Schroeter, Germania 1971, 104′