La confusione morale cui ho fatto riferimento nel mio articolo precedente (“Ironic Ethics”, Cinema Canada, No. 12) è esemplificata con precisione da Michael Dorland e Gary Evans nelle loro recensioni particolarmente perverse. Sono stati lo staff e i bambini di Warrendale a darmi per primi una chiave interpretativa del fenomeno molti anni fa. In quel periodo i quotidiani pubblicavano le foto dei ragazzini emotivamente disturbati nascondendone i volti con una striscia nera e la cosa li aveva fatti arrabbiare moltissimo. “Cosa hanno di così orrendo le nostre facce che non possono essere mostrate?” chiedevano.

È una meschina supposizione quella di Evans, secondo il quale Jimmy, Clint e gli altri uomini di Skidrow siano persone che vivono con vergogna la propria condizione e che quindi nel ritrarli li si umili. In realtà è il contrario: erano contenti e inorgogliti di prendere parte alle riprese. John Grierson, grande ammiratore del film, ha sottolineato come sia stato proprio il loro rifiuto nell’accettare l’umiliazione che la vita ha procurato loro a permettere a noi, e  agli spettatori, di entrare in contatto con la loro (e la nostra) umanità. In secondo luogo, la fama di Warrendale non è legata al fatto che la BBC si sia rifiutata di mandarlo in onda. È vero: David Attenborough, all’epoca direttore del canale, ha deciso di non acquistarlo (una faccenda leggermente diversa) perché riteneva fosse sacrosanto preservare la santità inalienabile di espressioni tabù come “fucking asshole”. La sua decisione, per me assai curiosa, passò inosservata in Gran Bretagna: Lord Harlech, ambasciatore per l’amministrazione Kennedy e allora capo del British Censor Board era deciso ad acquistarlo per la sua Harlech Television e trasmetterlo sul network ITV. Qualunque sia stata la fama del film, è legata piuttosto all’aver vinto il premio della giuria al Festival di Cannes e il British Academy Award come miglior film straniero. Può anche darsi che avesse dei meriti propri, dunque, visto che Jean Renoir ne ha parlato negli ultimi anni della sua vita come del miglior documentario che avesse mai visto. La sua dichiarazione da giurato al Festival di Montreal riconosce con esattezza il profondo affetto reciproco che ha legato i ragazzi, lo staff e la troupe del film.
La stessa cosa può essere detta in relazione al rapporto che lega me e la troupe, Richard Leiterman, Chris Wangler, Arla Saare, a Billy e Antoinette Edwards di A Married Couple.

Allo stesso tempo è evidente il disprezzo appena velato (e sicuramente inconsapevole) che rivelano Dorland e Evans non solo nei confronti di coloro che hanno preso parte ai film appena citati e a Who’s in Charge?, ma anche nei riguardi del pubblico che li ha visti. Parlano di “vittime” del regista, carne da macello offerta in pasto a spettatori bestiali, altrimenti impegnati a crogiolarsi nel pantano offerto da soap opera e spazzatura commerciale, come una massa di beoti incompetenti.
Dorland tenta anche uno spudorato sgambetto collegando erroneamente R. D. Laing e il Tavistock Group Relations Program, con il quale non aveva assolutamente nulla a che fare. Ciononostante, si serve del falso collegamento per accostare la schizofrenia al lavoro svolto nella conferenza. Dorland, che chiama in causa Sartre, dovrebbe ricordarsi della tesi centrale di “San Genet”, secondo la quale i genitori adottivi dello scrittore, proiettando in lui le loro colpevoli fantasie di furto, hanno causato gran parte dei problemi avuti da lui in età adulta.
Anche i ricordi di Evans sono poco chiari: travisa spesso gli eventi della conferenza e confonde le persone che vi hanno preso parte. Incapace di distinguere i singoli, le loro posizioni ed esperienze personali, fa di tutti un’unica massa. Mi viene difficile aiutarlo a rinunciare al suo approccio mistificatorio ma posso chiarire un punto. Non mi sono offerto di pagare le spese dei litiganti per due motivi: il primo è che non sono stato in grado di pagare nemmeno le mie, il secondo è che i litiganti non avevano un costo. Chi ha dato il via al progetto li ha assicurati che avrebbero potuto intentare causa liberamente e impunemente e, per quello che mi risulta, è ciò che hanno fatto.
Due delle sei persone coinvolte mi hanno già manifestato la propria soddisfazione per aver preso parte al film; e dei ventotto partecipanti alla conferenza, venti hanno detto che si è trattato di un’esperienza utile e positiva.
La donna che ha pianto, ad esempio, e che sosteneva di non essere andata all’incontro per mettersi a piangere, ha poi dichiarato di essersi sentita sollevata. I suoi sentimenti erano un fardello di cui non vedeva di liberarsi e, più tardi nel pomeriggio, ha avuto una lunga conversazione con Gordon Lawrence (il presidente della conferenza) che le è stata molto d’aiuto. In realtà voleva piangere da qualche parte.

Vedete, c’è qualcuno davvero convinto che piangere o esprimere sentimenti debba essere motivo di vergogna. Il ché è particolarmente ingiusto nei confronti di coloro che vivono con angoscia la propria condizione di disoccupati e per i quali l’opportunità di sfogare le proprie ansie può avere una certa utilità. Ciò non significa che si debba spingere o manipolare le persone affinché lo facciano – cosa che, ci tengo a specificare, i consulenti non hanno fatto in alcun modo. Che qualcuno abbia percepito un ché di manipolatorio nella conferenza non implica che ciò sia vero. Anzi, è molto interessante constatare la varietà di reazioni percettive legate alla conferenza e quanto vi è stato detto.
Da alcune settimane lavoro con uno dei membri della conferenza a un nuovo progetto: riconosce in tutta franchezza che il presidente della conferenza è stato perfettamente chiaro nello spiegare ciò che essa avrebbe offerto e che, davanti alle macchine da presa, ha detto esattamente il contrario. Ma ora è d’accordo con me che quanto ha detto davanti alle macchine da presa non è così importante. Stando alla mia esperienza personale, a volte ci sentiamo imbrogliati, perseguitati e attaccati anche se non siamo direttamente oggetto dell’attacco. È una sensazione che può subentrare con facilità nei momenti di stress o ansia, come quando si è senza lavoro, ad esempio. Si può dire che essere liberi di esprimere tale sensazione ci aiuta a fare i conti con essa, e questa è stata sicuramente l’esperienza avuta dal membro della conferenza con cui ho parlato, oltre che uno dei motivi fondamentali per cui è stata tenuta la conferenza.

La questione etica ha avuto un forte risalto in occasione dell’ultimo Grierson Film Seminar a Niagara-on-the-Lake lo scorso autunno. Ogni anno il seminario riunisce registi e film da ogni parte del Paese e del mondo. Who’s in Charge? ha aperto la settimana e ha dato il via a un intenso dibattito proseguito poi sulla scorta degli altri film in programma. Con un pizzico di sgomento ho compreso che partecipavo allo stesso dibattito da almeno 25 anni e che i suoi termini non erano cambiati di una virgola. Anno dopo anno, le preoccupazioni sono sempre le stesse: il voyeurismo, il libero assenso, lo sfruttamento e la manipolazione. Il dibattito viene portato avanti con incessante ferocia e accuse avvelenate nei confronti di coloro di cui si critica la politica e i cui film non vengono apprezzati. Ma è curioso come, in tutti gli anni in cui ho preso parte al seminario, non ricordo un singolo filmmaker che non mi sia sembrato completamente e scrupolosamente dedito al proprio lavoro (e posso dire la stessa cosa per i giornalisti che vi ho incontrato). Il ché mi fa pensare che la polemica sia in qualche modo solo una cortina fumogena per nascondere altro. Cosa, non mi è chiaro.
Durante le discussioni del Grierson, però, mi è venuta in mente una cosa. Se ci dovessimo sforzare di descrivere la maniera in cui svolgiamo il nostro lavoro, come artisti o come giornalisti, potremmo dire che: immagazziniamo le esperienze di altre persone (le loro vite, se preferite), le mastichiamo, le digeriamo e alla fine le “riproduciamo”, dando loro una nuova forma espressiva. Ed è qualcosa di molto più serio del voyeurismo e della manipolazione. Potete chiamarlo cannibalismo.

Allora, forse, il nostro lavoro risveglia in noi fantasie primarie e sensazioni di cui normalmente siamo inconsapevoli, per quanto scrupolosamente ci si sforzi di far parte dei nostri lavori insieme ai soggetti che riprendiamo, e per quanto innocenti si possa essere nell’effettiva malversazione. E poiché l’artista e il pubblico prendono parte insieme al lavoro, ci sono molte ansie di cui liberarsi. Mi spiego: evidentemente io non sono un cannibale e posso far sì che ciò sia perfettamente evidente proiettando l’orrendo crimine in voi. Ovvero, proiettando su di voi la mia colpa così che la portiate al mio posto – a meno che non siate così abili e capaci da proiettarla su qualcun altro a vostra volta.
Al Grierson Seminar questo processo di proiezione è stato condotto con effetti di gran clamore, i presenti che saltavano sulle sedie a gridare “non io, non io!”. E avevano ragione. Non colpevoli di cattiva etica, non colpevoli di inganno volontario, ma chiaramente colpevoli per aver involontariamente proiettato le nostre fantasie di colpevolezza sugli altri, fantasie che in realtà hanno poco o niente in comune con il lavoro del filmmaker.
Può essere che io sia davvero un bieco sadico, come suggerito da Dorland e Evans. Ma ciò che penso davvero è allo stesso tempo bieco e sadicamente triste – almeno nell’accezione di persone la cui mano destra finge di non vedere quello che fa la sinistra – e riguarda la maniera sprezzante e autoindulgente con la quale loro proiettano i propri sentimenti distruttivi sugli altri.

(“More muddy morals: a reply to critics”, originariamente pubblicato su Cinema Canada 104, febbraio 1984; traduzione di Alessandro Stellino).