Nonostante i pregiudizi del caso, dovuti all’origine romanzesca e teatrale del film e ai pericoli del biopic d’ambientazione storica, a A Dangerous Method bastano pochi minuti, giusto il tempo di far tollerare l’ambientazione mitteleuropea, per far capire che, sì, è un film in costume di David Cronenberg, per cui in un modo o nell’altro dovremo farcene una ragione, non sperare di vedere la violenza emergere oltre la compostezza delle immagini, ma che è pur sempre un film di Cronenberg, e allora non sarà mai un film in costume come gli altri – cosa che infatti non è.
A Dangerous Method non è Prendimi l’anima: è un film brulicante, carico di energia trattenuta, un romanzo realista in bilico sull’abisso che apre alle oscurità delle mente. Per Cronenberg è un viaggio a ritroso nei temi del suo cinema (il sesso, la furia del desiderio, il rinnovamento della mente attraverso la violazione del corpo), intrapreso per risalire al peccato originale di chi per primo ha indagato l’inconscio e ne ha sperimentato gli abissi sconosciuti. Da un punto di vista formale, trattenuto e rarefatto com’è, con la morbidezza di movimenti di macchina che avvolge e assale i personaggi, è una resa dei conti con l’eredità letteraria del cinema, il legame con l’opera e la derivazione dai romanzi d’appendice di fine ’800, acquisita proprio negli anni in cui Freud dava avvio alla psicanalisi.

Oltre la cortina di compostezza, però, covano la fragilità della psiche e di conseguenza della rappresentazione: quell’impulso mortifero che non porta più alla violazione della carne, ma conduce alle soglie di un vuoto che vive al di là di ogni immagine, è rappresentato sia in termini individuali, come tentazione alla perversione, sia in termini storici, con gli studi dei tre psicanalisti e i tragici eventi del primo ‘900 che impongono una nuova visione dell’umanità. Nell’unione di questa distruzione individuale e collettiva il XX secolo, e con esso il cinema, poggia le basi della sua grandezza, della sua modernità, e di conseguenza del suo spettacolare fallimento.
Entrambi, Jung e Freud, sono agenti della distruzione: anche loro, soprattutto loro, “dei della carneficina”. E se la psicanalisi rappresenta il tentativo di dare forma scritta, ragionata all’operato dell’inconscio, sono il romanzo e il cinema, che su di essa hanno fondato i loro presupposti morali, il frutto impuro e bellissimo di quel tentativo. C’è sì, in Freud e Jung, una forza individuale studiata, compresa, e per questo tenuta a bada, ma ce n’è anche un’altra, universale e collettiva, contro la quale non si può fare nulla.
È chiaro che il vero personaggio cronenberghiano è il Carl Jung di Fassbender, inseguito dalle proprie paure e dalla propria ambizione, ma lo è altrettanto che tocchi al Freud di Mortensen prendere coscienza dei limiti della civiltà occidentale. È Freud che nella scena chiave del film, di fronte allo skyline di New York, domanda all’allievo e collega: “lo sanno queste persone che stiamo portando loro la peste?”. Perché sarà proprio da quel momento che, con l’arrivo delle sue teorie negli Stati Uniti, sorgerà il legame virtuoso tra psicanalisi, arte ed ebraismo alla base della cultura americana e, di conseguenza, occidentale. “Siamo ebrei, lo saremo per sempre”, dice ancora Freud, intimando a Jung di non atteggiarsi a Dio, di non assecondare la tentazione a scavare negli abissi dell’inconscio, e di tenere invece desta l’attenzione verso i comportamenti umani.

Lo scontro intellettuale che divide i due scienziati è in fondo quello che informa l’intera cultura novecentesca. Quello tra mito e cultura. Tra il delirio sciamanico della parola di Dio e il controllo razionale della narrazione romanzesca. Tra la tentazione (di Jung) della discesa alle radici del comportamento umano, fino all’essenza che porta alla liberazione, e la saldezza culturale di Freud, che discerne la psiche e non prova a ridefinirla atteggiandosi a divinità.
Al di là di ogni rischio didascalico, nello scontro tra segni psichici puri come quelli raffigurati da Jung e Freud, il mistico e il razionale, il cattolico e l’ebreo, il figlio prodigo e il padre, Cronenberg interroga l’origine dell’arte, la necessità di interpretare il mondo attraverso la parola, trovando in un cinema romanzesco parlato a dismisura quella forma di controllo fragile e in fondo fallimentare che è l’unica che possediamo per continuare a raccontare e raccontarci.

Dalla conoscenza dell’inconscio, e dalla fatale attrazione per le sue dinamiche oscure, è nata la cultura contemporanea, poi sviluppatasi come un sogno di completezza continuamente abortito. Nell’ironia del Freud di Mortensen non può così non esserci la consapevolezza di un’indagine sia scientifica sia artistica tanto necessaria, addirittura inevitabile, eppure parziale: l’unica che la nostra società abbia sviluppato per darsi un ordine.
Cronenberg, che per anni quell’ordine l’ha stravolto, ora ha paura di ciò che ha visto. E con il suo film cesellato come un romanzo dalle mille stesure sembra credere che il suo sia stato un metodo per fare cinema straordinario, ma troppo pericoloso.


A Dangerous Method, regia di David Cronenberg, Canada/ Germania/ Gran Bretagna/ Svizzera 2011, 99′