Caro Aristarco, a me pare che il carattere della critica cinematografica di sinistra in Italia sia alquanto diverso da quello prospettato da Renzi, e da quant’altri sono intervenuti poi rimanendo nella sua scia, o, quanto meno, partendo dalle sue posizioni, o accettandole. E la ricavo, questa impressione, anzitutto dal fatto ch’egli, rimanendo nel vago, non facendo nomi, non citando articoli, insomma non basandosi su un dato di fatto concreto, riscontrabile, controllabile, ma, per contro, partendo dalla postulazione di un giudizio, non solo non facilita una discussione ma, direi, neppure la imposta. Quali sono le condizioni onde una discussione si possa definir tale, e possa risultar proficua? Ritengo che si tratti di individuare un problema, di definirlo con la massima precisione possibile, di stendere una esposizione oggettiva delle tesi dell’avversario, e a quest’ultime contrapporre le proprie. Renzi, purtroppo, anziché discutere le ragioni dell’avversario, enuncia il proprio giudizio sui risultati. La sua quindi mi pare una polemica contro, non la messa in discussione di. In ciò ravviserei l’origine dell’impressione di confuso, che il suo scritto mi lascia. Egli parla dell’ “atteggiamento di una gran parte della critica di sinistra”, e basta. Sicché non sai bene quale sia, questa parte, e quale, l’altra […].

Di qui l’impressione che lo scritto di Renzi mi fa: d’essere un pamphlet contro la critica di sinistra, menomato dal fatto di non avere un punto di mira esatto, riconoscibile […]. In sostanza, Renzi dice, a quei non meglio identificati critici di sinistra: avete rinunciato a essere critici, siete diventati dei propagandisti, non avete fatto né critica, né buona propaganda, avete adattato la realtà alle vostre tesi, cioè non avete capito la realtà e l’avete travisata. In poche parole: avete sbagliato proprio tutto, siete degli sciocchi, orsù discutiamone. È davvero una bella pretesa.
Non che un problema della critica di sinistra in Italia non vi sia. Un problema c’è sempre, è connesso a ogni attività, nasce e si risolve continuamente. Ma credo che non lo si possa porre alla maniera di Renzi. Non credo, in altre parole, che si possa scambiare la parte per il tutto, e per di più senza specificare di che parte si tratti. All’esame che Renzi fa, dell’ “atteggiamento di una gran parte della critica di sinistra di fronte alla produzione cinematografica sovietica in questi ultimi dieci anni”, io faccio obiezione. Muoverei una contestazione di fondo. Critica di sinistra non è termine generico né termine che definisca un tutto unico. La critica di sinistra non è una scuola chiusa, non è un’associazione, un drappello. È un movimento culturale largo, nel quale si possono riconoscere, a parte le differenze strettamente personali, individuali, almeno tre o quattro raggruppamenti diversi, posizioni ben distinte. E poi vi sono all’interno di questi raggruppamenti, differenze di non poco rilievo. Come si fa a non tenerne conto? Si tratta di differenze che riguardano perfino la concezione del fatto artistico! Che, come Renzi dice, “una gran parte della critica di sinistra” abbia tenuto un atteggiamento unitario, costante, (che egli intende come vera e propria aberrazione mentale, abdicazione critica), rispetto al cinema sovietico,  “in questi ultimi dieci anni”, a me non pare. Gli scritti che conosco non me lo confermano. Questa critica è contraddistinta dall’essersi “votata all’apologia a ogni costo” del film sovietico? Oibò, basterebbe che uno qualsiasi di codesti critici avesse espresso giudizio negativo o limitativo su questo o quel film sovietico, che il postulato di Renzi cadrebbe. Cade, perché la cosa si è verificata.

Ma cerchiamo, per favore, di chiarirci su questo punto. Se un critico loda un film che lui trova bello, che a lui piace, e a me non piace, ch’io non trovo bello, posso da ciò dedurne che ch’egli è un apologeta, un banale propagandista? […] Il definire la critica di sinistra che si richiama al marxismo una attività “propagandista” non mi pare un argomento troppo convincente. Assomiglia troppo al modo di fare di certi uomini politici, secondo i quali, per esempio, la politica sovietica non esiste, esiste la propaganda sovietica, e qualsiasi iniziativa diplomatica sovietica non va intesa come iniziativa diplomatica ma come azione di propaganda […].

A cercar di stringere il nocciolo della questione, mi par di capire che in sostanza Renzi parla dell’atteggiamento di alcuni critici comunisti in un ben determinato momento della loro attività. La cosa non concerne quindi “gran parte della critica di sinistra”. Ne sarà, semmai, una parte. Ma come si fa a confondere ciò con la ricerca teorica della sinistra, con la enorme mole di lavoro di ricerca filologica, di informazione, di analisi, che la sinistra ha svolto? La letteratura cinematografica italiana di sinistra, e proprio in un libero gioco interno di correnti e di tendenze, ha prodotto in questo dopoguerra opere di ricerca e di sistemazione teorica e storiografica, che poche altre letterature possono vantare […] Come si fa ad identificare l’atteggiamento dogmatico e settario, rivelatosi in questa o quell’occasione, di qualche critico comunista, con la posizione culturale del Partito comunista italiano? Ch’io sappia, i documenti ufficiali di questo partito sui problemi della cultura sono di dominio pubblico. Che contengano prese di posizione dogmatiche o settarie, proprio non direi. Il contrario, direi. Lo stesso, cioè il contrario, direi per l’apporto di lavoro, di studio e di ricerca, dato dalle pubblicazioni culturali promosse o fatte dai comunisti. Da Risorgimento a Realismo al Contemporaneo, da Rinascita a Società, la linea culturale comunista, salvo rarissime eccezioni è stata antisettaria, antidogmatica, antiestremista. L’estremismo, malattia infantile del comunismo è un libro di Lenin che qualcuno ha letto.. E direi di più. Quando, per mano di questo o quel critico comunista, si sono profilate posizioni estremiste, dogmatiche, settarie o, per dirla in termine più preciso, ždanoviane, esse non hanno trovato ospitalità né in Rinascita né in Società. Sono state discusse, dibattute, sottoposte a critica, e rifiutate. Si prenda la briga, Renzi, per favore, di confrontare le correzioni di Rinascita  e di Nouvelle Critique, e poi mi sappia dire se la differenza c’è. O di confrontare le posizioni ed il lavoro di un Salinari, per esempio, e di un Kanapa. Vedrà che per essere antisettari, antidogmatici, antiestremisti, non s’è atteso il XX Congresso […].

Ciò non vuol dire che non vi siano stati casi di prese di posizione estremiste, dogmatiche, settarie. Un “momento ždanoviano”, nella critica cinematografica italiana marxista, c’è stato. Ma non è esatto identificarlo né con la critica cinematografica di sinistra nel suo complesso, né con la critica cinematografica comunista, e nemmeno con le posizioni del Partito comunista italiano sui quesiti teorici e pratici del cinema. È stato un momento che, anzitutto, va visto nel suo contesto storico, poiché ha una data d’inizio e una di fine, mi pare. E poi riguarda alcuni critici comunisti, non tutti, e neppure “gran parte di essi”. Se le cose stanno così, vediamo se è possibile opporvisi, e discuterne. Non direi che la questione si possa prospettare nei termini in cui la pone Renzi, e nei modi onde l’ha sviluppata Gobetti. Può darsi, non lo nego, che si sia verificato il caso di critici comunisti che hanno assunto posizioni  ždanoviane in modo meccanico, senza troppo riflettervi, o in modo superficiale, o troppo ingenuo. L’articolo di Gobetti mi è parso soprattutto lo sfogo, s’egli mi consente di dirla in termini scherzosi, di un innamorato deluso. Ma se io amo una donna, e poi smetto di amarla, oppure, avendone conosciuta un’altra più bella, mi dico: però, quell’altra era brutta, ebbene questo non è un problema teorico. Io ho  molto apprezzato la sincerità, la furia moralistica di Gobetti, ma credo che egli abbia perlomeno esagerato, nel dire la “nostra consapevole rinuncia a pensare in modo onesto, sincero, indipendente”. Nostra? Noi chi? Io contesterei a Gobetti persino le ragioni della sua “confessione”. Mi pare ch’egli abbia ipertrofizzato certe lacune, certe opacità del proprio lavoro, e abbia dimenticato che accanto a singoli errori che può anche aver fatto (ne fanno tutti, e chi pensa il contrario è semplicemente un presuntuoso), ha svolto anche un lavoro positivo, culturalmente e socialmente valido. Anche con la migliore delle buone volontà, non si riesce mai a sbagliare proprio tutto. E allora direi che certi sbandamenti di gusto o di valutazione, se fatti per un generoso senso di anticonformismo, e nel fuoco di una battaglia ideologica acutissima, non si possano biasimare troppo. O quanto meno, si debbano restringere alle loro reali proporzioni.

Mica a caso il “momento ždanoviano”  di cui parlo ha coinciso con gli anni della guerra fredda. Mica a caso vi hanno influito l’inasprimento della lotta ideale, la radicalizzazione degli scontri polemici, e poi la discriminazione, la pressione dell’avversario di classe. Ma non solo di questo si tratta. Con i suoi difetti e le sue qualità, anche questo “momento ždanoviano” fa parte di un complesso e anche complicato processo di elaborazione culturale. Ne è una tappa. Si sono chiesti Renzi e Gobetti quanta parte vi abbia avuto il tentativo di tener conto di certe istanze della critica ottocentesca russa (Cernyševskij, Dobroljubov), oppure delle posizioni sociologistiche d’un Plechanov? O pensano che questa operazione era illecita? Che si possono fare ricerche in direzione Sainte-Beuve, ma non in direzione Cernyševskij? Che, insomma, Rivière sì, ma Plechanov no? Una posizione siffatta a me parrebbe provinciale, mi piacerebbe poco. Pochissimo. Anzi, non mi piacerebbe per niente. Di questo “momento”, di questa operazione, si potranno discutere i risultati. Ma se li si nega a priori, di che cosa si può discutere? Constatiamo pure che vi sono stati casi in cui la tendenza a quel che Renzi chiama “apologia” è affiorata, e magari ha prevalso. Era l’essenziale? O non era, assai più semplicemente, il risultato di una posizione affettiva? È estraneo alla critica, l’elemento affettivo? […] Non sarò certo io a sostenere le ragioni di una critica di gusto. Ma non sarò neppur io a negare il diritto del critico ad avere predilezioni, a giudicare di testa sua e di cuor suo. Se a me il finale del Mičurin di Dovženko piace, spiacentissimo, ma non posso dire il contrario soltanto perché lo stesso finale a Renzi non piace. Ne dò un giudizio positivo, lui ne dà uno negativo. Non vedo come se ne possa cavare un problema teorico. Non vedo neanche perché se ne debba trarre il motivo per una rissa verbale. Confesserò una mia personale debolezza: quando mi imbatto in scrittori che dicono “chi non la pensa come me è un cretino”, divento molto malinconico. Avere fiducia nelle proprie idee, nelle proprie convinzioni, è un conto. Pretendere di avere la verità in tasca è un altro.

Può anche darsi ch’io predichi bene, e razzoli male. Può darsi che anch’io sia stato, in questa o in quell’occasione, ingiusto nelle discussioni, nelle polemiche, nei dibattiti, però ho sempre cercato di opporre ragionamento a ragionamento, fatto a fatto. E non ho mai pensato che si possano raggiungere risultati definitivi, risultati che chiudono una questione. Per questo non ho alcuna difficoltà ad ammettere che i risultati del “momento ždanoviano” della critica cinematografica in Italia possono anche essere stati parziali, lacunosi. Per quel che mi riguarda, non lo contestavo ieri, non vedo perché dovrei contestarlo oggi. […] Ma, caro Aristarco, c’è un altro punto di Sciolti dal Giuramento che vorrei discutere. È il punto in cui si avanza l’esigenza di “alcuni sostanziali punti di revisione”. Un ennesimo invito alla revisione del marxismo! La storia del marxismo è piena zeppa di inviti siffatti. Ma essi non sono mai stati, e non possono esserlo oggi, argomento di vera discussione. Insomma, se tu la pensi in modo diverso dal mio, io non posso venire a dirti: guarda, sbagli, cambia idea, ragiona come me, e tutto si aggiusta. Questo non è in alcun caso un invito alla discussione. Renzi poi dice: “finché non si instaura un sistema che permetta una continua libertà di critica anche verso i principi, non ci può essere che un ristretto gioco nell’ortodossia del momento”. Io avrei qualche obiezione da fare. La “continua libertà di critica verso i principi”, se diventa sistematicità del dubbio, significa, a parer mio, la fine di ogni concreta ricerca di pensiero. La libertà di critica va esercitata verificando continuamente la teoria con la pratica e viceversa, le idee con la realtà e viceversa. Libertà della critica secondo me significa capacità di imparare dai fatti, e trarne delle conclusioni. Ma non può voler dire non avere posizione, non avere principi. La critica deve essere libera? Certo! Ma libera rispetto a cosa, rispetto a chi? Libera rispetto a quale posizione culturale, a quale posizione teorica, a quale reale schieramento? Libera rispetto a quale classe?
Come vedi, caro Aristarco, mi diverto a portar acqua al mulino di Renzi: faccio il dogmatico, il settario, il talmudista: cito Lenin.
Cordialmente tuo
Glauco Viazzi

(Cinema Nuovo, anno VII, n. 125, 15 febbraio 1958)