Il cinema di Jesús Franco è un vino che sta invecchiando bene e che tutti gli appassionati di cinema (non di cinema horror, non di cinema di genere: di cinema) è tempo che portino in tavola. Film che una volta, specie in Italia, erano al più guardati come curiosità di genere, appaiono oggi come film d’autore. È senz’altro il caso dei tre titoli recentemente pubblicati dalla Sinister Film nel doppio dvd intitolato Dr. Orloff Collection, due dei quali (gli ultimi) si affacciano per la prima volta sul videomercato italiano: Gritos en la noche (L’horrible docteur Orloff/Il diabolico dottor Satana), El secreto del doctor Orloff (Les maitresses du docteur Jekyll/Le amanti del dr. Jekyll) e Miss Muerte (Dans les griffes du maniaque).
Girate in bianco e nero tra il 1961 e il 1965, le tre pellicole appartengono alla fase classica della filmografia di Franco – la prima – e sono accomunate da sobrie incursioni nell’universo visivo – iconografico e fotografico – del neogotico, genere che proprio in quegli anni gode di notevole fortuna, soprattutto in Italia. Ma la fantasia del regista spagnolo si nutre di altri modelli: il suo sguardo fugge lontano nel tempo, direttamente ai mostri della Universal e, più ancora, al cinema muto tedesco espressionista. Due modelli destinati ad affiorare periodicamente nella sua immensa produzione: oltre 180 film.

Il nome del dottor Orloff costituisce un ulteriore – per la verità piuttosto esile – trait d’union fra le pellicole. Il chirurgo criminale protagonista di Gritos en la noche diviene infatti personaggio secondario, oltre che di specchiata moralità, in El secreto del doctor Orloff ed è soltanto nominato in Miss Muerte. Il legame tematico non risiede dunque nel nome, bensì nella ricorrente presenza dello scienziato pazzo (si chiami Orloff, Fisherman o Zimmer) e negli esperimenti che egli conduce. Esperimenti (non solo chirurgici) dai risvolti più o meno macabri, intesi ora a ricostruire volti sfigurati, ora a riportare in vita morti di giornata, sempre e comunque ad afferrare la psiche umana e assoggettarla al proprio controllo. Tema, quest’ultimo, ben più caro al regista spagnolo, nonché centrale anche nel suo quarto horror giovanile, La mano de un hombre muerto, che, disponibile sul mercato internazionale, non sarebbe stato inopportuno includere nell’edizione italiana, facendo di un buon tris un ottimo poker.

Il nome di Orloff ricorre d’altronde anche nel seguito della filmografia dell’infaticabile tío Jess. Come protagonista o antagonista, egli appare prima in Los ojos del doctor Orloff (1973), dove è medico e ipnotista; poi – sdoppiato: padre e figlio – in El siniestro doctor Orloff (1982), stralunato e geniale rifacimento di Gritos en la noche; quindi in Sola ante el terror (1983), remake di Los ojos. Ancora, la bella Madame Orloff fa una brutta fine in Les expériences érotiques de Frankenstein (1972) e un dottor Orloff, scienziato cieco e veggente, ha un ruolo breve e memorabile ne La comtesse noire (1973). Il personaggio compare inoltre fugacemente in Les prédateurs de la nuit (1989) ed è protagonista di due pellicole che Franco non volle girare: El enigma del ataúd/Les orgies du dr. Orloff di Santos Alcocer (1966) e La vie amoureuse de l’homme invisible (1971) di Pierre Chevalier, noto anche col titolo Orloff et l’homme invisible.
Infine, negli anni ’70 Franco gira due film che riprendono la sceneggiatura di Gritos en la noche (a tratti alla lettera, battuta per battuta) ma in contesti narrativi all’apparenza lontani da quello originale. Si tratta di La venganza del doctor Mabuse (1971) e Jack the Ripper (1976). Nel primo caso il nome di Orloff è abbinato al più retto degli uomini di scienza, avversario del dottor Mabuse di langhiana memoria. Nel secondo allo squartatore: per l’anagrafe Dennis Orloff.
Questo intrico di nomi e trame, nel generare liberamente accostamenti veri e fasulli, identità e corto-circuiti, ci aiuta a comprendere la programmatica irregolarità degli itinerari franchiani, ammonendoci a non fidarci delle apparenze e sfidandoci a guardare oltre le superfici. «Oriana è solo un nome», dice fissandoci negli occhi Oriana Balasz, figlia di Oriana Balasz e nipote di Oriana Balasz, la protagonista (s’intende: nonna e nipote a un tempo) di Snakewoman (2005).

QUEL TOCCO CHE MI INSEGUE

«Io lo dico sempre ai ragazzi e ai giornalisti: “Quel film seppellitelo, cazzo… è una palla”. […] I film davvero buoni si devono poter vedere fuori contesto. Per godere di Gritos bisogna fare riferimenti storici e cose del genere, davvero è roba decrepita».
Nato bastian contrario, Franco ha in più occasioni sparato a zero sul suo primo autentico successo, che fra le altre cose gli ha fruttato l’etichetta – poco gradita – di specialista del genere horror. Al di là del rispetto con cui storici e appassionati hanno spesso guardato a questo film, prendendolo fin troppo sul serio, i meriti di Gritos en la noche vanno ricercati prima di tutto nella disinvoltura – a tratti irriverenza – con la quale il regista vi gioca con le convenzioni di genere.
Il soggetto è molto simile a quello del film di Georges Franju Occhi senza volto, uscito l’anno prima. Difficile credere a una coincidenza, secondo la tesi sostenuta da Franco, ma l’esito è talmente diverso da giustificare la presa di distanza. I due film raccontano la storia di un luminare della chirurgia plastica che si ostina a tentare di ricostruire il volto della figlia impiantandovi quelli di alcune ragazze, la cui vita egli sacrifica senza esitazione all’amore paterno e all’ambizione scientifica. Accanto a lui, variamente complici, una donna che ha salvato col suo bisturi e – solo in Franco – una sorta di mostro di Frankenstein, un ex condannato a morte, Morpho, che lo accompagna come un automa durante le sue scorribande criminali.

Franju scopre le carte sin dalle prime scene, soddisfacendo l’ansia di focalizzazione dello spettatore medio. Il regista francese ci informa infatti non solo delle intenzioni che muovono i personaggi del film, ma anche, puntualmente, del loro travaglio morale. Il comportamento del dottor Génessier trova, ad esempio, una ragionevole spiegazione nel senso di colpa per aver provocato l’incidente di macchina che ha portato la figlia a un passo dalla morte, lasciandola sfigurata. Lei, Christiane, vera protagonista della vicenda, è una creatura gentile e pietosa (un nome un destino) che di nascosto si reca a vedere ciò che resta delle ragazze sottoposte agli esperimenti, supplica di interrompere l’accanimento terapeutico e, presa piena coscienza di quanto le accade dentro e intorno, dichiara lucidamente di voler morire. Un itinerario psicologico lineare, all’insegna di una crescente consapevolezza, che, assecondando una visione pedagogica del cinema, approda naturalmente al finale liberatorio. Altrettanto circostanziate sono le informazioni circa le tecniche chirurgiche impiegate da Génessier e il decorso clinico della paziente operata, con il loro corollario di immagini raccapriccianti; e non meno espliciti i simboli, a partire dai cani e dalle colombe che vengono liberati dalle gabbie alla fine del film. Ebbene, basterà accostare i due animali scelti da Franju alla buffa civetta e allo stralunato gattino nero che ci accolgono nel castello di Orloff per capire quanto il punto di partenza di Franco sia diverso.

Innanzitutto, il regista madrileno non indulge affatto alla graficità dell’orrore. I dettagli macabri appaiono ridotti al minimo. Persino il volto sfregiato di Morpho è mostrato a piccole dosi, quasi con pudore. E Melissa Orloff, la figlia, intorno al cui dramma ruota l’intera vicenda, giace per tutto il film sopra un letto, vestita, senza pronunciare sillaba, immobile, mentre la durata complessiva delle sue inquadrature non tocca il minuto e mezzo. I suoi sentimenti non li conosciamo. L’espressione dei suoi occhi, forse, sì.
Quanto al padre, non è un rispettabile e pasciuto borghese anni ’50 ma un bizzarro viveur di inizio ‘900, cui Howard Vernon dona il suo volto lungo, strano, asimmetrico, spigoloso, e il suo sorriso teneramente ironico. Orloff vive nascosto in un castello, dal quale esce dopo il tramonto per recarsi in fumosi café-chantant dove fare la conoscenza di giovani, belle e disponibili cantanti dalla pelle di pesca. Nell’economia del film, il rapporto con le sue vittime, di natura chiaramente erotica, riceve più spazio e maggior rilievo delle sperimentazioni chirurgiche e dello stesso rapporto con la figlia. La sua figura diventa perciò ambivalente: è solo l’amore per la povera Melissa a guidarlo, o anche la segreta attrazione – censurata e rimossa, come l’erotismo nella Spagna cattofascista del caudillo – per le ragazze che intende sacrificare ai suoi esperimenti? A complicare la prospettiva – rendendola definitivamente affascinante – è la scelta di impiegare una sola attrice, la sfolgorante Diana Lorys, per i due ruoli di Melissa e della fidanzata dell’ispettore Tanner, Wanda Bronksy, la quale, per aiutare il fidanzato, decide in segreto di travestirsi da «sin verguenza», intrufolarsi nel café-chantant e finalmente infilare il naso – rischiando di rimetterci tutto il viso – nel castello di Orloff.
Ognuna di queste modifiche al soggetto è uno scorcio nuovo che si apre allo sguardo dello spettatore, invitandolo a non adagiarsi sulle convenzioni di genere e insieme a non accontentarsi di portare a casa alcune riflessioni, tutto sommato scontate, sul tema dell’etica della scienza.

Ma c’è dell’altro, ed è proprio Franco a raccontarcelo in un’intervista del 1962: «Alla sceneggiatura abbiamo aggiunto un altro tocco, un tocco che mi insegue – e mi fa piacere che sia così – il tocco dello humor. Uno humor un po’ astratto, però realista, perché in definitiva è questo che a me sembra più reale di tutto. È che alla fine questi personaggi di fianco, che non si fa a tempo a delineare dettagliatamente in un’ora e mezza di proiezione, restano del tutto spersonalizzati se non conosciamo le vere motivazioni delle loro azioni. Tutto ciò è un po’ surrealista, davvero, ma è la vita che è così. È possibile che l’identità di Gritos en la noche consista in questo. Nell’unione di elementi così disparati».
Le conferme sono innumerevoli. Non solo le indagini non porterebbero a nulla senza l’aiuto di un allegro barbone ubriaco. Non solo il regista indugia a lungo su un’esilarante galleria di testimoni oculari che – avendo visto chi Morpho, chi Orloff – bisticciano sull’identikit dell’assassino (col risultato che – per citare il dialogo italiano e sempre a proposito di umorismo, questa volta involontario – la polizia si ritrova tra le mani «due diverse versioni del diabolico Satana»). Non solo l’ultimo dei testimoni è un vecchietto mitomane con gli occhi fuori dalla testa che si accusa di tutti i delitti. Non solo Wanda si esibisce come ballerina in un inesistente Faust di Meyerbeer la cui locandina promette, oltre alle coreografie di Diaghiloff (storpiatura di Djagilev: siamo nel 1912, potrebbe essere…), Howard Vernon nei panni di Mefistofele, il produttore spagnolo Segre Newman come Faust, e quello francese Marius Lesoeur come impresario teatrale. Non solo lo spettacolo in questione è un’irresistibile parodia di melodramma che riprende, ridimensionandola, quella contenuta nel musical La reina del tabarin, girato da Franco l’anno precedente. L’umorismo arriva a insinuarsi anche tra le pieghe del dramma, forzandoci a contemplarne le dinamiche con un buona dose di disincanto. Come quando Wanda, vagabondando nottetempo nel castello degli orrori in una delle scene per altro più suggestive del film, si spaventa davanti alla propria immagine allo specchio; o nell’ironico montaggio che associa due gesti uguali a due diverse disperazioni: quella dell’ispettore Tanner, che prende il volto tra le mani dopo aver assistito alla testimonianza del matto, e quella di Orloff, che fa lo stesso mentre contempla il fallimento dei suoi esperimenti; o ancora nella gag del biglietto con cui Wanda avverte il fidanzato di trovarsi sulle tracce dell’assassino (e quindi in serio pericolo), la cui apertura è continuamente rimandata grazie all’infallibile fiuto dell’ispettore, che lo prende senz’altro per la denuncia dell’ennesima «loca». Non può essere un caso, infine, se Morpho, nella sua precedente vita, è stato giustiziato il giorno di nascita del regista, quel 12 maggio che il doppiaggio italiano trasforma in 21 maggio. Ma per capire lo spirito di Franco – quel tocco di humor che lo insegue – basterà distogliere un momento lo sguardo dalla seconda delle artiste che si esibiscono al cabaret e osservare, subito dietro, un po’ in penombra, il contrabbassista che la accompagna.

Gritos en la noche è un buon film. Lo è nonostante qualche goffaggine narrativa (il lungo dialogo tra Orloff e Arne, sua complice, è poco più che un espediente per metterci a parte dell’antefatto; l’improbabile scioglimento del dramma), largamente compensata dall’attenzione ai dettagli e, sul piano visivo, dal fascino di inquadrature e sequenze che ci tuffano per lunghi tratti nell’universo fantastico, e fuori dal tempo, del muto. Tutte le sequenze senza dialogo o con dialoghi ridotti all’osso, a partire da quella che apre il film, sono vere leccornie cinematografiche. Qui risplende l’artista innamorato delle atmosfere d’inizio Novecento, l’epoca, appunto, nella quale egli decide di spostare l’azione, con l’intento esplicito «di non defraudare il pubblico, che se va a vedere un film dell’orrore vuole vederlo come dev’essere, con tutto ciò che consegue, con gatti neri, castelli tenebrosi, medici malefici».
Un film – conclude nella stessa intervista (quella a “Film Ideal” del 1° settembre 1962) – «che sia un po’ antologico». In altre parole, un film per cinefili innamorati, come lui, degli horror della Universal (James Whale soprattutto) e, più ancora, considerando il livello di astrazione delle immagini e il tipo di recitazione, di quelli di F. W. Murnau. È la via che lo porterà a girare quel film quasi-muto che è Dracula prisonnier de Frankenstein (1971).

I 93 minuti dell’originale spagnolo sono ridotti a 83 nella versione francese, L’horrible docteur Orloff, pubblicata dalla Sinister Film. I tagli alleggeriscono la pellicola, qua e là un poco annacquata, ma vanno a colpire uno dei momenti più emozionanti, oltre che uno degli omaggi più riusciti al cinema espressionista: l’ultimo tacito incontro tra padre e figlia, nell’epilogo tragico. Scorciato malamente anche in altri punti, il nuovo finale è semplicemente disastroso. Oltre a ciò, allo scopo di incrementare quel fattore thrilling che, come si è visto, nell’economia del film è abbastanza marginale, la versione francese, come l’italiana, inietta nella pellicola dosi massicce di commenti sonori. La versione spagnola è molto silenziosa.
Per finire, al pubblico francese sono concesse due brevi sequenze di nudo, per un totale di quattro tette, due delle quali impiegate dal chirurgo per i suoi esperimenti, in luogo del volto di una delle vittime. Una duplice interpolazione che costituisce una ragione in più per augurarci l’uscita, in qualche parte del mondo, di una buona edizione della versione spagnola.
La qualità video è discreta, come quella del dvd Image made in usa, di cui sembra condividere gli elementi; ma per apprezzare fino in fondo i pregi fotografici della pellicola occorre dare un’occhiata agli spezzoni inseriti in Névrose, versione infedelissima di El hundimiento de la casa Usher (1982), rimontata dalla distribuzione francese e pubblicata sempre dalla Image con il titolo inglese Revenge in the House of Usher.
La versione italiana, tagliuzzata alla buona qua e là, rimpiazza la sequenza dei titoli di testa con un caotico montaggio di fotogrammi e grida femminine: caso mai qualcuno fosse entrato in sala con l’idea di assistere a una commedia sofisticata. Se ne possono ammirare alcuni frammenti in una delle interviste pubblicate tra gli extra. I dialoghi sono un adattamento libero quanto maldestro di quelli spagnoli. Di tanto in tanto, per giustificare il titolo italiano, qualche personaggio dimentica il nome del protagonista e ci mette in guardia dal celebre dottor Satana. Veramente diabolico.

¿PORQUÉ? – IL MOSTRO INFELICE

«Come ti dicevo, il film [Gritos en la noche] per me è sepolto nel dimenticatoio. Invece di El secreto del doctor Orloff ho dei ricordi pessimi, e parlarne mi comporta un certo sforzo…» (1991, intervista di Carlos Aguilar).
Concepito per sfruttare il successo del primo, il secondo Orloff nacque sotto cattiva stella. La cooperativa di produttori spagnoli senza molta esperienza che aveva promosso il progetto non garantì i finanziamenti previsti. Ne soffrì, tra l’altro, il reparto degli interpreti. Franco dovette rinunciare a Vernon, il cui talento e la cui personalità avevano senz’altro contribuito in misura considerevole al successo di Gritos en la noche. Il ruolo dello scienziato criminale, il dottor Fisherman (Jekyll per il pubblico francese), allievo dell’anziano e questa volta integerrimo dottor Orloff, fu pertanto assegnato a un critico cinematografico, debuttante nelle vesti di attore, Marcelo Arroita-Járegui, il cui faccione da cane bastonato sarebbe stato in seguito utilizzato con profitto in ruoli da caratterista (e che, ironia della sorte, alla fine degli anni ’60 Franco avrebbe nuovamente incrociato quale solerte funzionario degli uffici di censura intento a puntare le forbici contro 99 mujeres). Ne uscì un tipo singolare di malvagio goffo e ottuso, verosimilmente molto lontano dalla figura che avrebbe saputo tratteggiare Vernon.

L’idea di fondo da cui nasce il film è nuova e interessante: spogliare il tema fantachirurgico dall’aura espressionista e dagli sbalzi tragicomici di Gritos per intrecciarlo invece a un patetico melodramma familiare (un po’ sul genere della Scala a chiocciola di Siodmak, uno dei registi prediletti di Franco) ambientato in epoca contemporanea, nel piccolo mondo antico della provincia austriaca; così da rileggere l’elemento horror in chiave di metafisica del lutto. Andros (Hugo Blanco), la creatura che Fisherman telecomanda con un macchinario a ultrasuoni obbligandolo a strangolare le sue amanti, altri non è che lo zombie del fratello Albert, l’uomo di cui la moglie si era innamorata alla follia e che perciò, molti anni prima, Fisherman aveva assassinato. Una creatura di Frankenstein gentile, sensibile, dolente e muta (dirà solo una parola), che quando riesce a fuggire dalla teca nella quale è rinchiusa si reca a meditare presso la propria tomba, nel piccolo e deserto cimitero del paese. Andros: simbolo di un disastro familiare, fantasma sul cui volto tumefatto si coagula il dramma di una di quelle «disfunctional families» nelle quali Robert Monell ha individuato uno dei temi conduttori della cinematografia di Franco; tema, tra l’altro, presente in tutti e tre i film di questa collezione.

Anche Fisherman, come l’Orloff di Gritos, abita in un antico castello, nei cui meandri nasconde il laboratorio e la creatura. Finché l’equilibrio dell’infelicità non viene alterato dall’arrivo di una ragazza, Melissa, figlia del nostro zombie, la quale non ricorda affatto il padre, morto quand’era piccola, e non conosce ancora le circostanze della sua tragica fine. Un buon soggetto, insomma, che senza gli intoppi produttivi avrebbe potuto dar vita a un ottimo film, e che sette anni più tardi Franco svilupperà in chiave più personale in Una vergine tra i morti viventi.
Diversamente dagli altri due film della raccolta, El secreto del doctor Orloff nasce senza il finanziamento di Marius Lesoeur, ossia dell’Eurociné. Il cast è infatti tutto spagnolo, ad eccezione di Agnès Spaak (Melissa), sorella maggiore di Catherine. È comunque plausibile che il produttore parigino sia venuto in soccorso di Franco già durante le riprese, e quindi che sul piano puramente finanziario il film costituisca anche questa volta una coproduzione ispano-francese.
Di certo, quando fu distribuita nelle sale francesi con il titolo Les maîtresses du Docteur Jekyll, la pellicola subì manomissioni più importanti, anche se meno capillari, di quelle da cui era nato L’horrible docteur Orloff. Franco girò due estese sequenze di nudo che, rimpiazzando il materiale originale, alterano in modo pesante le scene dei delitti (tra l’altro impiegando un’improbabile controfigura dell’assassino) e lo stesso tono generale del film.

A riprova del fatto che il lato umoristico e folle del cinema di Franco è sempre stato il meno apprezzato, il taglio più importante inferto dalla distribuzione francese colpisce, riducendolo ai minimi termini, l’episodio comico della testimonianza, per altro decisiva, di tale Sigfrido Brahms, logorroico ed effeminato pronipote di Ricardo Wagner. Una macchietta superba che Franco riproporrà quasi vent’anni dopo – senza nomi di compositori, con le varianti del caso e interpretando egli stesso il personaggio dello zelante testimone oculare – nel già citato El siniestro doctor Orloff.
Sul giudizio negativo del regista pesano troppo il ricordo, personale, delle vicissitudini produttive e il pensiero di quanto dell’idea originaria non si poté realizzare. Pur con le sue ombre, El secreto del doctor Orloff è un film riuscito e ben diretto. Franco non sbaglia un’inquadratura e non mancano le sequenze memorabili. Quella del cimitero; il commovente incontro tra zombie e figlia, con quest’ultima che non si spaventa affatto; e poi il dialogo intorno alla chiave – pezzo da antologia del cinema dell’assurdo, un decennio prima di Mel Brooks – tra Melissa e Ciceron, il servo del castello (figura che Franco riproporrà, anche nelle vesti di attore, in Una vergine tra i morti viventi). Ma forse la sequenza più straordinaria è quella, ricordata anche da Alain Petit nei suoi Manacoa Files, dei fumatori d’oppio: una di quelle scene mute e saldamente ancorate alla colonna sonora – qui opera di Daniel J. White, amico fraterno del regista – nelle quali Franco dà il meglio di sé; oltre che, nella fattispecie, occasione preziosa per introdurre una nota di torbido erotismo in un film che, per il resto, elude il tema principe dell’opera di Franco.

Oltre al doppiaggio francese sottotitolato, l’edizione dvd include un doppiaggio italiano di buona qualità, ma afflitto da una sistematica e infausta riscrittura dei dialoghi. L’azione è trasferita dall’Austria all’Inghilterra e, a dispetto di tutto (temperamento, fisionomia, gestualità, contrapposizione culturale con gli altri personaggi), il ragazzo di cui Melissa si innamora, lo spagnolo José Manuel, diventa il britannico William. I nuovi dialoghi e il tono della recitazione vanno così a stravolgere uno dei personaggi meglio tratteggiati del film, trasformando il ragazzo schietto e disarmante dell’originale in un tipo polemico, arrogante e, quel che è peggio, che non canta Lilì Marlene! Ascoltare i dialoghi italiani leggendo la traduzione di quelli francesi è un’esperienza istruttiva.
Se Melissa diventa Mary, studentessa all’università di Birmingham, il nome dello scienziato pazzo è Fisherman, come nell’originale spagnolo, cosicché la presenza del nome del dottor Jekyll nel titolo italiano, tradotto alla lettera da quello francese, suona doppiamente assurda.

RAGNA D’AUTORE

Con Miss Muerte si cambia musica. Questa volta infatti le riprese filano lisce come l’olio. O quasi. Solo il personaggio di Irma Zimmer, figlia nonché allieva devota del nuovo mad doctor, deve cambiare identità poco prima dell’inizio delle riprese. L’attrice scelta dal regista, Ana Castor, che aveva già lavorato con lui in Labios rojos e La mano de un hombre muerto, non vuole comparire sullo schermo con il viso deturpato: la sostituisce in modo nel complesso convincente l’argentina Mabel Karr, anche se la bellezza di ceramica della Castor avrebbe senz’altro aumentato l’algido fascino del personaggio. Franco è soddisfattissimo del bianco e nero violentemente contrastato di Alejandro Ulloa e trova un collaboratore geniale in Jean-Claude Carrière, che l’anno prima aveva scritto la prima sceneggiatura a quattro mani con Luis Buñuel per Il diario di una cameriera, film finanziato, come Miss Muerte, da Serge Silberman.

Punto di partenza è La sposa in nero di William Irish, soggetto cui Franco attingerà di nuovo, sempre con grande libertà, in Sie tötete in Ekstase, con l’indimenticabile Soledad Miranda nel ruolo della protagonista. Franco e Carrière trasformano la vendicatrice da sposa in nero a figlia in nero e contaminano il soggetto innestandovi l’elemento fantascientifico, rintracciabile sia nel laboratorio di chirurgia criminale degli Zimmer che nel personaggio della bella assassina telecomandata che dà il titolo al film. Ne vien fuori un cocktail equilibrato di horror, melodramma, sci-fiction, erotismo, fantastico, realismo e commedia poliziesca che finalmente riflette in pieno la struttura polimorfica e prismatica dell’immaginario del regista, la sua visione cangiante, aperta, mai scontata, del mondo. Anche le parentesi investigative sono più snelle e gradevoli che nei film precedenti, con lo stesso regista nei panni di un tenero ispettore di polizia annebbiato dall’insonnia (quello del Secreto del doctor Orloff soffriva di rinite). Lo affianca un minuto e inutile collega di Scotland Yard (il personaggio per il quale la mancanza del doppiaggio spagnolo si fa maggiormente sentire), a sua volta interpretato da Daniel J. White, autore di una colonna sonora a tratti magica e sempre finissima, tra le più belle del cinema di Franco.

Ma la trovata vincente è la figura enigmatica della serial killer. All’inizio Miss Muerte non è che il personaggio di un bizzarro show sadico-erotico, un’enigmatica e imperturbabile donna-ragno le cui unghie, affilate e affusolate, sfregiano a morte un manichino sotto il cui volto inanimato si muovono veri occhi di uomo. Successivamente, assoggettata alla volontà criminale di Irma, che ne impregna le unghie di curaro, questa figura di finzione si converte in una vera macchina per sedurre e uccidere i responsabili della morte del dottor Zimmer. Di Nadia, la ragazza che si cela sotto i panni di Miss Muerte, il film non ci dice quasi nulla, salvo mostrarci con chiarezza la sua condizione di prigioniera del proprio ruolo, femme-fatale oscillante tra la voluttà della seduzione e l’angoscia di dover essere per forza la donna-mantide che annienta, sotto ogni profilo, i suoi maschi-manichini. Una vampira suo malgrado, che invece dei denti usa le unghie: figura che anticipa, tra le tante seduttrici franchiane, la celebre Irina von Karnstein, protagonista di La comtesse noire (1973), che userà invece la bocca.
A dar vita al personaggio è l’attrice francese Estella Blain, allora trentacinquenne, la cui rara bellezza, dai tratti marcati, quasi duri, ma vera e vibrante (si veda il memorabile dettaglio dei suoi occhi nell’oscurità, durante la sequenza hitchcockiana del treno, fissi sul volto di Howard Vernon), fu pari alla sua infelicità. Morì suicida la notte di capodanno del 1982.

Nonostante l’ottimo lavoro di scrittura, bisogna riconoscere, almeno a giudicare dal film finito, che in Miss Muerte non tutto funziona a dovere. Al di là di qualche forzatura narrativa, quale la presenza della vettura di Irma Zimmer proprio sul punto della linea ferroviaria dove viene gettato il cadavere di una delle vittime, il problema principale del film è che ben presto dimentica la sua stessa premessa drammatica, ossia il lutto di Irma per la morte del padre. In proposito, una delle foto di scena pubblicate da Mondo Macabro, nell’edizione dvd americana, mostra il dottor Zimmer con il volto sfigurato e, accanto, la figlia Irma come appare nella seconda parte della pellicola, con i capelli neri e il volto rifatto. È dunque chiaro che la sceneggiatura, in origine, prevedeva almeno una scena nella quale il padre morto riappariva misteriosamente alla figlia, come in Al otro lado del espejo (1973), il film che Franco avrebbe voluto girare già nel 1965 e che, per motivi di censura, fu rimpiazzato proprio da Miss Muerte, lasciandogli però in eredità il tema, tipicamente franchiano, del perverso, macabro legame tra padre e figlia.

Oltre a ciò, la scena dell’uccisione del dottor Moroni, che non è opera di Miss Muerte, appare stranamente frettolosa, se non addirittura monca. Quando vediamo Moroni per l’ultima volta, possiamo tutt’al più supporre quale fine lo attenda; circostanza ancor più rimarchevole se si considera che, subito prima, l’omicidio della moglie – con la quale, per inciso, Irma Zimmer non ha alcuna pendenza in sospeso – è messo in scena con profusione di dettagli. Anche in questo caso le foto di scena ci vengono in soccorso, mostrandoci Moroni legato a una sedia, mentre Miss Muerte lo minaccia con uno strano coltello simile a una grande unghia delle sue: un’altra scena importante che, per ragioni che non conosciamo, fu esclusa dal montaggio finale.

Il soggetto ingegnoso e originale non è dunque sufficiente a fare neppure dell’ultimo dei tre film un lavoro dalla struttura narrativa impeccabile, secondo i canoni classici, che prevedono chiarezza espositiva, coerenza psicologica e compiutezza di disegno. Qualità che in tutta la cinematografia di Franco si registrano solo nel musical La reina del tabarin (1960): film delizioso, nel suo garbato convenzionalismo, che non a caso il regista ricorda senza entusiasmo. Per trovare la propria strada, Franco dovrà sbarazzarsi proprio dell’architettura narrativa imposta dalla sceneggiatura in favore dell’improvvisazione sul set, del flusso di coscienza, di quella libera composizione di immagini, suoni e figure, lasciati scorrere lungo esili fili narrativi, da cui prenderanno vita i suoi film più affascinanti. Lo farà presto, anche grazie all’esperienza compiuta accanto a Orson Welles per il Falstaff, di cui diresse la seconda unità.
Persino nel caso di Miss Muerte, il cuore del film non va insomma ricercato in una logica degli eventi che comunque, in qualche misura, zoppica, bensì nella pura forza delle immagini e in quell’abbinamento di recitazione asciutta e inquadrature insieme esatte e sorprendenti che è uno delle principali qualità del cinema di Franco. Uno sguardo, un gesto, quando sono quelli giusti, bastano.

Note sull’edizione

Per chi conosce il cinema di Franco attraverso il ricco mercato internazionale, che ormai conta 106 titoli disponibili su supporto digitale, contemplare la realtà italiana, con la sua manciata di film, spesso non i migliori, in edizioni per lo più tagliate o corredate del solo doppiaggio italiano, può essere un’esperienza frustrante. La Dr. Orloff Collection, forse per la prima volta, rende giustizia a questo autore. Accanto al doppiaggio italiano (ove esiste), la collezione ci offre non le tracce audio originali spagnole, ossia le prime e senz’altro le migliori, ma per lo meno quelle del paese coproduttore, la Francia. Le versioni francesi, pur con i limiti già evidenziati, sono comunque di gran lunga preferibili a quelle italiane, e il merito maggiore dell’edizione è quello di averci offerto una sottotitolatura delle prime due pellicole realmente basata sui dialoghi francesi, e non sulla trascrizione di quelli italiani.

Si potevano però evitare alcune sbavature. Le scene di Gritos en la noche mai doppiate in italiano sono per errore presentate in lingua inglese, anziché in francese. Sulla confezione si legge che Miss Muerte è in lingua spagnola con sottotitoli italiani, mentre in realtà è in francese con sottotitoli inglesi. Tra l’altro, la corrispondenza tra le versioni spagnola e francese avrebbe consentito di aggiungere agevolmente la traccia spagnola, che circola tra i collezionisti, molto superiore a quella francese; mentre i sottotitoli italiani esistono dal 2005, quando il film fu proiettato a Livorno durante il Joe D’Amato Horror Festival. Infine, la copertina reca i nomi degli interpreti di uno solo dei tre film, El secreto del doctor Orloff.

Gli extra sono inclusi nel secondo disco. Si tratta di tre videopresentazioni, dedicate alla figura del regista e ai film della raccolta, e di un documentario di Pier Paolo Dainelli, Bellezze perdute, che ci offre una lunga carrellata di film affini per soggetto a Gritos en la noche. Ventiquattro minuti nel regno dell’horror, quello vero, utili a inquadrare come negli anni e nei decenni l’immaginario filmico, specie in Italia, abbia guardato con insistenza al rapporto che lega chirurgia sperimentale e metafisica, ossessiva aspirazione a rendere la bellezza immortale e contemplazione inorridita della sua volatilità. Le prime due presentazioni, di Giacomo Aloigi (Profonde tenebre) e Gian Luca Castoldi (Il diabolico dottor Franco) ci avvicinano al contenuto del cofanetto, ma con qualche circospezione di troppo. Aloigi, autore di thriller, ci parla con passione del «Cinema thrilling di Jess Franco» premettendo però che, tra i generi, è quello che il regista spagnolo ha frequentato di meno. Quanto alla panoramica franchiana proposta da Castoldi, vi si omette troppa parte della sua produzione. A partire dagli anni ’70 lo studioso si sofferma solo su quattro film splatter – genere che il regista ha sempre dichiarato di detestare e che ha frequentato ancor meno del thriller – senza aggiungere parola su quanto egli girò, con tutt’altra convinzione e con esiti ben più personali, in Francia, Germania e nella sua stessa Spagna. Segue la consueta stroncatura della produzione digitale degli ultimi 15 anni, che pure include lavori sperimentali di estremo interesse e vera modernità quali Vampire Blues, Vampire Junction e Snakewoman. L’ultima breve videopresentazione, del regista Luigi Cozzi, per metà uno spot della sua casa editrice, indugia su alcuni luoghi comuni, definendo tra l’altro Killer Barbys – una pellicola che va per i 17 anni – una delle ultime produzioni di Franco.

Il cofanetto resta un’occasione d’oro per chi voglia inoltrarsi nel meraviglioso mondo del cinema del tío Jess. A patto che sappia farlo con lo stesso sguardo incantato e sensibile con cui Melissa si inoltra attraverso il cortile che porta all’antico castello dei suoi avi. È però avvisato: fermarsi ai film gotici in bianco e nero è come uscire da teatro dopo aver ascoltato un bel preludio. Il sipario deve ancora alzarsi. E se ne vedranno delle belle.

DR. ORLOFF COLLECTION (Sinister Film)
IL DIABOLICO DR. SATANA (Gritos en la noche) , regia di Jesús Franco, Spagna 1962, 79′
LE AMANTI DEL DR. JEKYLL (El secreto del doctor Orloff), regia di Jesús Franco, Spagna 1964, 81′
MISS MUERTE, regia di Jesús Franco, Spagna 1965, 79′