L’homevideo ci dà la possibilità di rivedere un film importante del 1974, il primo lungometraggio dell’australiano Peter Weir, che in Italia era circolato a malapena sulle emittenti private, The Cars that Ate Paris; al tempo della messa in onda era stato tradotto Le macchine che distrussero Parigi in luogo del più calzante “mangiarono”, che esprime con esattezza la foga animalesca, famelica, con cui le auto alla fine si avventano sulle case di Paris.

Paris non è la capitale francese, ma un piccolo paese della provincia australiana i cui abitanti sopravvivono con uno strano commercio: causano incidenti automobilistici sulle strade di accesso al paese, per poi depredare le vetture dei pezzi di ricambio, di tutto quanto trasportano e dei passeggeri sopravvissuti, che vengono adottati dalla comunità oppure destinati agli esperimenti del mad doctor locale. L’Australia versa, come tutto l’Occidente – ne siamo informati dalle affissioni dei giornali – in una grave crisi economica, la benzina è alle stelle, e la comunità di Paris risponde alla difficile situazione in questo modo. In questo scenario si muovono Arthur e suo fratello, che perlustrano in auto i borghi di campagna alla ricerca di un lavoro. I due, poco dopo l’inizio del film, deviano per Paris, ignari della trappola: una luce abbagliante li colpisce e Arthur si sveglia giusto in tempo per vedere il fratello perdere il controllo del veicolo. Arthur si ritrova nel letto dell’ospedale del paese: il fratello è morto e lui è subito accolto dalla famiglia del sindaco. Riuscirà a integrarsi nella comunità di Paris?

L’orizzonte del film è pienamente anni Settanta: la crisi della civiltà tecnologica e occidentale, che in quel periodo vive anche una crisi economica. In piena decadenza dell’Occidente, Paris – lo testimoniano le parole del suo sindaco, molto simili a quelle dei sindaci dei western e piene di riferimenti al puritanesimo – si illude di poter tornare addirittura alla morale dei padri fondatori, di coloro che colonizzarono l’Australia: in effetti, i suoi abitanti rifondano la civiltà dell’auto sulle rovine della precedente, con uno strano esperimento sociale ed economico. Se nel mondo ci sono ormai tante carcasse, rifiuti e macerie, Paris ne produce di ulteriori e le ricicla con gli incidenti che provoca ad hoc; se ovunque abbondano orfani perché la civiltà dell’auto uccide, Paris offre padri e madri addottivi, ed è soltanto un dettaglio che molti genitori vengano uccisi apposta.

Weir conosceva e amava Weekend di Godard e, sebbene eviti di ricalcarne gli incidenti simili a sculture, si è probabilmente ispirato alla visione apocalittica del francese, al suo fine settimana insanguinato d’incidenti lungo le strade. Anche se il film non ottenne né riscontri di botteghino né di critica, il giovane regista firma un interessante debutto: dopo alcuni lavori sperimentali caratterizzati da critica e satira delle istituzioni (qualche cortometraggio e un episodio in un film a più mani, Michael), Weir aveva tutte le carte in regola per una lettura grottesca, acida, surreale del consesso civile quale gli dava occasione la città di Paris, con i suoi “tarati” abitanti, da amante di Kubrick e da giovane che aveva viaggiato e respirato l’aria della contestazione in Europa; ciò che però non ci si poteva aspettare, e che Weir non aveva ancora avuto modo di esprimere, era l’attitudine al fantastico, che diventa addirittura metafisico: l’attitudine a costruire cioè una dimensione altra, allucinata – folle nel caso di questo primo film, mitica e ancestrale in Picnic a Hanging Rock e ne L’ultima onda – una dimensione autonoma e parallela rispetto a quella che riconosciamo come la realtà di ogni giorno, e a catturarvi lo spettatore fino a farlo alla fine dubitare che sia l’unica, l’integrale; quello di Paris sembra un enclave isolato e folle, ma per caso il mondo esterno non sarà identico? Siamo certi ne possiamo uscire?

La città, e la sua economia tutta basata sullo scambio dei pezzi delle auto incidentate, divertono apparendo come una parodia grottesca della società tecnologica e capitalistica; Weir però suggerisce che, ben oltre la parodia, Paris non sia altro che il compimento, lo stadio definitivo della civiltà in cui le macchine sono più che parte ineliminabile delle nostre vite: le hanno ormai fagocitate. C’è un culto, una sottomissione all’auto a Paris, più che una semplice aberrazione dell’economia che è costruita attorno a quella; e c’è, nel modo in cui metalli e sangue si confondono e spargono sui verdi campi dell’Australia, una mutazione di ciò che chiamavamo natura.

Crash di Ballard è uscito soltanto un anno prima, e anche Weir suggerisce che il paesaggio dell’Occidente sia ormai figlio di molti crash, postumano diremmo oggi, e che la contrapposizione di natura e civiltà non significhi più granché, perfino in una nazione rurale come l’Australia. Nuove categorie devono essere adottate, nuove immagini anzi, visto che parliamo di un artista e non di un filosofo, debbono essere create per raccontare il punto in cui siamo: lo strano mondo di Paris è esattamente questo: iperrealistico e western, campagnolo e futurista al tempo stesso.Prima però c’è un congedo dal vecchio mondo e dalle vecchie immagini, nel caso qualcuno li credesse ancora validi, congedo che Weir allestisce adottando proprio il linguaggio attraverso il quale l’auto ha imposto il proprio appeal, quello della pubblicità (lo stesso farà Cronemberg, vent’anni dopo, in Crash): mentre passano i titoli di testa, il regista costruisce infatti un ironico spot della coppia moderna benestante che corre in auto, giovane e bella, e si tratta proprio del calco di una famosa pubblicità australiana di sigarette. Ma l’auto non tiene il controllo, va fuori strada, chiara metafora di un’epoca (e di una rappresentazione) ormai conclusa.

Subito dopo che l’auto ha cappottato, la macchina da presa si alza a mostrare in lontananza le colline, la natura enigmatica e maestosa: perché se è Paris a risucchiare le auto, Paris è pur sempre parte della wilderness.
Quando alle auto, una volta depredate, viene dato fuoco, si sente una musica placida, ipnotica: una pira è innalzata, e un fuoco purificatore riempie l’inquadratura, in un’immagine di grande bellezza plastica. La musica si fa religiosa: è come un’offerta sacrificale innalzata nel culto dell’auto. Eppure in quel rito c’è anche qualcosa di antico, dionisiaco, legato al ciclo della natura: vento, fuoco, metallo si mischiano. Attorno al paese le carcasse delle auto sono ammassate in mezzo al verde, sparse tra l’erba: è una “natura morta”, sono le vestigia della defunta civiltà industriale, eppure sembra che la natura trovi modo di rivalersi, in un abbraccio mistico con le rovine; sembra che le macchine possano prendere forza dalla natura e cacciare gli uomini, non esserne più strumenti ma sostituirli.
A Paris vi è a tratti una sospensione panica, come se un’energia sotterranea stia per scatenarsi, esplodere. Si incaricheranno di lasciarla libera i giovani del paese, ribelli e contestatori. Le loro auto, simili ad animali preistorici, ringhiando, radono al suolo il paese. Gli abitanti di Paris ora percorrono la strada buia per lasciarsi alle spalle quel luogo maledetto, con loro c’è anche Arthur. Dove fuggire?

È questo ormai il nuovo mondo, aveva paternamente detto il sindaco del paese ad Arthur, è il mondo dell’auto. Arthur era stato traumatizzato da un incidente automobilistico già prima di arrivare a Paris, tanto che non guidava più per lo shock avuto: era già cittadino di Paris da prima di giungervi. L’incidente che lo fa piombare nel microcosmo del paese è provocato da una luce abbagliante, è come un’illuminazione, una visione attraverso la quale Arthur non fa altro che scoprire il luogo in cui è sempre stato, in cui siamo tutti; perciò Le macchine che distrussero Parigi è racconto metafisico più che, come si diceva un tempo, fantasociologia.

LE MACCHINE CHE DISTRUSSERO PARIGI (The Cars that Ate Paris), regia di Peter Weir, Australia 1974, 84′ (Ripley’s Home Video)