Non arriverà mai sui nostri schermi, questo bruciante lamento post-adolescenziale. Non arriverà perché sfugge alle categorizzazioni e gli esercenti non sarebbero in grado di indirizzarlo verso il suo pubblico. Un pubblico che ci sarebbe, e pure folto, non fosse altro che il mercato tricolore non si sente di azzardare mosse e continua a pescare dagli stessi acquari, incurante di ciò che scorre in libertà.

Ce n’è tanta, di libertà, in Bellflower, diretto, scritto, montato, fotografato, prodotto, e recitato in prima persona da Evan Glodell. Chi è? Non lo sappiamo e non vogliamo saperlo: biondo, corpulento, forse ha studiato cinema a Los Angeles e forse è un fan di Tarantino. Basterebbe contattarlo su Facebook e chiederglielo, sta lì. Poco importa. Dopo i movie brats che hanno imparato il mestiere nelle università e nei cineclub, e dopo i commessi di videoteche ingozzatisi di cinema di genere italiano in vhs, sarà arrivato il momento dei registi cresciuti su Youtube? Oggi, per innamorarsi del cinema, può essere sufficiente condividere un link con gli ultimi minuti di Strada a doppia corsia di Monte Hellman: l’asfalto risucchiato dal parabrezza, le immagini che procedono a scatti, si inceppano, risucchiate a loro volta dalla pellicola che si accartoccia e brucia. Non importa quello che c’è prima, chi guida, la storia sua e di chi gli sta accanto, non importa sapere quando è stato fatto il film, da chi e perché. Importa solo l’impatto emotivo, la sua contagiosa riproducibilità.

Forse oggi basta una scena come questa a far innamorare del cinema un giovane, a fargli venire voglia di dedicare due anni e mezzo della propria esistenza a mettere in piedi e portare sulle proprie spalle un film sullo spaesamento generazionale, sull’incapacità di trovare la propria strada e intravedere un futuro, di riconoscere l’amore quando ci si para davanti.

C’è un momento, in Bellflower, in cui tutto sembra filare liscio, in un miracoloso equilibrio: Woodrow e Milly, attraversano le lande desolate del southwest, la brezza che riempie l’abitacolo dai finestrini aperti, insieme alla musica che proviene dall’autoradio. In silenzio, si scambiano sguardi incerti e, lentamente, i sorrisi lasciano il posto al timore: di non sapere che fare, di non avere dove andare e niente più da dirsi. L’equilibrio si rompe: Milly va a letto con il miglior amico di Woodrow. Woodrow perde la testa: vuole ammazzare tutti, e lo fa. Una strage. La fotografia si stinge in colori abrasi, il montaggio si sfalda, accelera d’improvviso e corre impazzito come la macchina che sputa vampate di fuoco dai bocchettoni posteriori. Sul mondo scende l’apocalisse, un apocalisse forse solo immaginata, perché non c’è stata nessuna esplosione nucleare, nessuna devastazione geologica o atmosferica, solo il drammatico strappo del passaggio da un’età all’altra: quella in cui le illusioni dell’adolescenza lasciano il posto agli obblighi dell’età adulta. L’apocalisse è interiore, esistenziale, sentimentale, e il viaggio a bordo di un auto, che Woodrow vorrebbe sopravvissuta alla saga di Mad Max, è l’ultimo che può compiere in totale spensieratezza, in compagnia dei propri sogni e di una vita solo vagheggiata. Poi sarà la fine: le ruote stridono sull’asfalto, l’immagine si sfoca, forse per il calore che sale dalla strada. Pare di sentirlo, il calore, di vedere l’inquadratura sciogliersi, fondere per l’eccessiva temperatura.

Non c’è cinismo, né nichilismo in Bellflower, solo malinconia: la malinconia di chi è convinto che il futuro non sarà mai bello come il passato e sa che non vale la pena voltarsi indietro, perché il passato si accartoccia alle nostre spalle, come pellicola.

Bellflower, regia di Evan Glodell, USA, 2011, 103′.