Il termine “cinefilia”, oggi, può significare una di queste due cose: una risposta alla scarsità o una risposta all’abbondanza. Da una parte, dunque, si tratta dell’amore nei confronti di qualcosa che scompare – la pellicola (in 16, 35 o 70mm) – e assume la forma di una nostalgia per le condizioni che produssero la prima grande ondata cinefila (durata grossomodo un quarto di secolo, dai tardi anni Quaranta ai primi Settanta), il periodo del boom economico, l’auto-riconoscimento del cinema americano come arte, e l’emergere delle nuove cinematografie europee del dopoguerra, dal neorealismo italiano alla New Hollywood. Dall’altra parte, può rappresentare una risposta alla percezione di una nuova utopia digitale emergente o a portata di mano, nella quale tutto è virtualmente disponibile – una forma inclusiva di cinefilia che incorpora tutto e tutti.

Quest’ultima sembra essere la posizione presa da Damon Smith, co-curatore del PNC (Project New Cinephilia), condivisa da molti dei partecipanti. L’introduzione di Smith al progetto termina con la dichiarazione che “la cinefilia, comunque la si voglia definire, appartiene a tutti”. Nessuno avrebbe da obiettare, credo, a parte un cinefilo. L’ecumenismo della Nuova Cinefilia può essere una reazione nei confronti del discorso cinefilo criticato da Jones, che esige una netta definizione dei suoi confini, in modo che il vero amore nei confronti del cinema non venga confuso con le sue forme contraffatte. D’altra parte, l’elitarismo della Vecchia Cinefilia va compreso all’interno di un più generale contesto culturale che tendeva a rigettare il cinema in quanto arte. Alcuni piaceri propri delle precedenti generazioni di cinefili derivavano infatti dal farsi alfieri di una forma culturale cui veniva riconosciuto un dubbio valore artistico o culturale, specialmente da parte dei “padri”.

La cinefilia è figlia del desiderio di sostenere che piaceri potenzialmente archiviabili come fantasie infantili avessero in realtà un valore duraturo. Di conseguenza era necessario definire cosa fosse in opposizione a ciò che non lo era, il ché significava determinarne non solo la sua mummificazione borghese in quanto arte ma anche spingerla verso forme più indiscriminate di consumo di massa. La genealogia del discorso cinefilo può essere rintracciato fin dalle origini del cinema ma non è un caso che il concetto abbia avuto un suo nome proprio e acquisito una nuova rilevanza culturale nel momento in cui la televisione ha cominciato a mettere in discussione il dominio culturale del cinema. La Nuova Cinefilia, d’altro canto, è una cinefilia per l’epoca degli iPhone, dei blog e di YouTube. 

1. Breve storia di una passione impura

La cinefilia, come i film studies e la critica cinematografica, tende da sempre verso due scopi opposti: infrangere le barriere tra le discipline e le concezioni tradizionali dell’arte, e affermare la propria legittimità compiacendo le stesse categorie che intende minare. Tale conflitto veniva allegorizzato negli oggetti privilegiati della cinefilia. Negli anni ’50 e ’60, i gusti cinefili tendevano ad essere sia aristocratici che proletari, affermando sia l’efficacia che l’eccesso, o la trascendenza di un attimo, un gesto estrapolato dal risultato modesto di un lavoro ben fatto. Gli autori archetipici non erano quei cineasti in grado di controllare tutto e produrre opere leggibili in quanto Arte ma piuttosto gli artigiani poco pretenziosi capaci di lavorare rapidamente all’interno di restrizioni commerciali e di far comunque emergere le proprie distinte sensibilità, quasi fosse una sorta di poesia vernacolare. Pensiamo a Nick Ray, Raoul Walsh o Anthony Mann, e in genere all’attrazione nei confronti del cinema hollywoodiano classico, specie in seguito agli sfaldamenti messi in mostra dalla fine del sistema degli Studios.

Così come la cinefilia ha reso possibile la teoria del film negli anni Settanta, la cultura consumistica degli Studios ha reso possibile la teoria degli autori. Ciò che non poteva essere tollerato era il tipo di cinema in grado di compiacere gli istinti della cultura middlebrow – temi risonanti, fotografia patinata, “la tradizione della qualità” nei termini di Truffaut, la “seriosità superficiale” di Sarris, “l’arte da elefanti bianchi” di Farber – ovvero il tipo di film che si sforzava di rendere il cinema rispettabile, trionfava agli Oscar, ed era gradito dalle sensibilità acculturate di tutti coloro che altrimenti erano soliti considerare il cinema un medium volgare. Se i cinefili erano in cerca della bellezza, si trattava della “bellezza funzionale” che Rivette riconosceva a Hawks, o di un’aura seduttiva d’artificio – quella che trovavano nei movimenti di macchina di Ophuls o nei “giochi di luce e ombra” di Sternberg – che meritava di essere celebrata poiché radicata in una forma ostentatamente imbastardita di melodramma e proveniva, per parafrasare Oscar Wilde, dal prendere sul serio le superfici. Al suo cuore, la cinefilia ha meno a che fare con il coltivare gusti esoterici o ricercare il volontariamente oscuro (benché questo sia a volte un suo effetto secondario) quanto affermare un’esperienza resistente alle forme ufficiali di riconoscimento.

Ecco perché, come suggerisce Paul Willemen, i cinefili spesso si aggrappano a momenti o dettagli in cui hanno “la consapevolezza, o l’illusione della consapevolezza che ciò che si vede sia in eccesso a ciò che viene mostrato”. Nei primi anni ’90, Willemen, influenzato da Daney, ragionò su cosa significava considerare la cinefilia un oggetto di studio autonomo. Esaminare la cinefilia non era che una maniera diversa di affrontare la vecchia questione dell’ontologia del cinema: non in termini di essenza statica che potesse essere dedotta dalle capacità specifiche di una macchina ma per mezzo degli investimenti emotivi nei confronti del cinema, rinvenuti nei discorsi che professano una fede nella concezione platonica del medium che non può essere definita ma solo indicata.

I rituali e il linguaggio della Vecchia Cinefilia, nata prima dell’avvento del video (per non parlare di BitTorrent), erano un tentativo di dare un nome e fissare un medium fatto di immagini effimere e spettrali – sogni collettivi che, nonostante Rose Hobart di Joseph Cornell, erano irripetibili e incitabili, persi nella memoria. Il termini francesi adottati dai critici anglofoni – auteur, mise en scène, montage – venivano utilizzati per evocare verità cinematografiche e, come tali, dovevano possedere una “meravigliosa certezza” e allo stesso tempo una sostanziale vaghezza, così da veicolare il significato implicito di ciò che nessun critico era in grado di dire. Il peccato dei teorici è stato quello di chiedere precisione a queste parole che non erano state concepite per averne. Il tentativo di Eisenstein  di definire il montaggio intellettuale o l’affermazione di Godard che “la mise en scène non esiste” potevano essere perdonate se fossero rimasti solo artisti. Anzi, meglio ancora se le loro teorie o politiche avessero contraddetto la loro arte, perché il critico autoriale avrebbe potuto infine redimerli così come aveva fatto per i registi dell’Hollywood classica, elevandoli dalla presunta identità di abili intrattenitori e capaci artigiani.

Non credo di gettare un ombra sul termine cinefilia se suggerisco che ha sempre teso a implicare un amore per il film che fosse sempre “di culto”, un grado di proiezione, fede e persino perversione che non fosse da sconfessare. “Sì, Virginia, c’è un certo Edgar G. Ulmer” scrisse Sarris suggerendo che l’auteur riempie il vuoto lasciato non da Dio ma da Babbo Natale – restaurando il sogno di un mondo nel quale i giocattoli sono sprovvisti del cartellino con il prezzo. La cinefilia è necessariamente alleata a una qualche idea di specificità del medium, benché tenda a definirne come indefinibile l’essenza. Anche se riconosciamo che il cinema, come ha detto Bazin, è “impuro”, dobbiamo comunque rendere conto della specificità di un’impurità che produce devozione tra i suoi seguaci. L’impurità può essere compresa non solo nell’ottica baziniana – il cinema può includere e mettersi al servizio di altre arti – ma anche in un senso più antropologico: il cinema è un luogo aperto a contaminazioni, una peculiare mescolanza di pubblico e privato, arte e non arte, nella cui oscurità i corpi vengono trasportati in altri mondi.

2. Non più colpevoli: la politique de l’amateur

In un recente convegno in occasione dell’apertura delle nuove sale al Lincoln Center, Frederic Jameson ha avanzato l’ipotesi che il problema principale legato alla cultura cinematografica dei nostri giorni risieda nel fatto che le sale cinematografiche non sono più luoghi dalla cattiva reputazione. L’idea che i film non siano una passione di cui vergognarsi è stata una conquista dei film studies e della critica autoriale, ma può essere che qualcosa sia andato perduto con tale accettazione e conseguente normalizzazione? La celebre rubrica “Guilty Pleasures” di Film Comment comincia spesso con l’autore che rigetta l’idea che ci si debba sentire colpevoli nel apprezzare un dato film. Ma se è vero che è passato molto tempo da quando un intellettuale si poteva sentire in colpa perché apprezzava Hitchcock, è giusto ricordare, come sostiene Laura Mulvey, che i piaceri specifici legati ai film di Hitchcock vanno a braccetto con la maniera in cui flirtano con il carico di colpa e fantasie vouyeristiche e feticistiche procurate dal cinema stesso.

Oggi lo stereotipo negativo del cinefilo non è più quello di qualcuno che si sforza di rifuggire l’età adulta, ma piuttosto quello dello snob elitario. Ne dà ragione un pezzo scritto di recente da Dan Kois per il New York Times Magazine in cui l’autore sconfessa la cosiddetta “visione aspirazionale”, ovvero lo sforzo di farsi piacere un film che ci si sente in obbligo di apprezzare, ovvero quelle opere tanto care ai cinefili da lui percepite come noiosi film artistici. Ciò a cui Jois rinuncia è in realtà la normale condizione di visione dei cinefili: il desiderio di ricevere dal cinema qualcosa che vada oltre ciò che viene promesso dal trailer, la messa in discussione dei propri sensi nell’esperienza spettatoriale. Comparendo 15 anni dopo sulla medesima rivista, l’articolo può apparire come un’implicita conferma dell’annuncio della scomparsa della cinefilia fatto da Susan Sontag. Il pezzo di Kois irrita i cinefili non solo perché lascia intendere una cattiva fede in coloro che (dichiarano di) amare Tarkovsky o Hou Hsiao-hsien ma perché manca di centrare il proprio bersaglio. La cinefilia non ha mai avuto a che fare con il restringere il proprio gradimento a opere di riconoscibile valore artistico quanto piuttosto – per rubare un termine ad Agnès Varda – con lo spigolare, il recuperare oscuri oggetti del desiderio che altrimenti passerebbero inosservati o archiviati in quel contenitore che la gente perbene chiama “spazzatura”. 

Poiché i cinefili sono diventati parte integrante dell’élite culturale, una creatura ancora più sconveniente, il “fanboy” (o, meno di frequente, la “fangirl”) – che non ha mai cercato il paravento dell’arte per giustificare le sue particolari ossessioni – è stato recuperato come modello per la produzione di conoscenza contemporanea, come è noto, grazie allo studioso dei media Henry Jenkins. Jenkins si considera un “aca/fan” (academic/fan) una doppia identità priva della natura conflittuale propria del teorico di Metz, un cinefilo decaduto. Nel mentre, la teoria (spesso considerata “Grand”, nel senso di Mills) è viva e vegeta nelle Accademie, ma il trend – che si tratti di forme redivive di fenomenologia, cognitivismo, psicologia evolutiva o neuroscienza – è rivolto verso i corpi, le sensazioni, i geni e i neuroni, non verso le più ampie forze sociali. In questo clima, la distanza critica sostenuta come necessaria da parte dei teorici degli anni Settanta, così come altre forme di interpretazione politica, vengono viste sempre più spesso come sospette.

La distanza critica suona falsa quando a tutti si insegna ad essere ipercritici e “connessi”. Non esiste più il modello del cinefilo, o in genere del consumatore culturale, “passivo”. Sarris assaporava con piacere un senso di passività, Sontag desiderava venire “rapita”, Pauline Kael l’aveva “persa al cinema”. Kois, nuovamente, è un utile rappresentante dell’attuale momento quando dice che il suo “modo base di interazione con le immagini in movimento è una “decodificazione rapida e intensa di immagini, testi, sottotesti, metatesti e ipertesti”. Nella sua mente, il problema di quelli che chiama “lenti film meditativi” non è che richiedono troppo lavoro ma che si sente privato di qualcosa da fare mentre li guarda.

La nuova cinefilia si vanta di sostenere la causa di quei film che Kois non riesce ad assimilare, ma si tratta comunque della cinefilia di – per utilizzare il gergo corrente – uno spettatore (o “user”) attivo in una cultura partecipatoria. Si tratta, di conseguenza, di una metacinefilia. Qualunque cosa si possa pensare dello stato attuale della cinefilia, i discorsi al riguardo si sono fatti ubiqui. La cinefilia è stata sempre strettamente connessa con la produzione di discorsi legati al cinema, come sottolinea il blogger Girish Shambu su PNC, ma solo adesso è in grado di produrre un discorso su se stessa. Se il medium è il messaggio, il medium in questione può non essere più il cinema ma Internet. La questione diventa allora se il Web consenta non tanto una nuova cultura filmica centrata sull’affermazione della cinema quanto una nuova cultura web incentrata sull’affermazione della cinefilia.

D’altra parte, il vantaggio di lasciare che l’oggetto dell’amore cinefilo resti indefinito consente di ripensarne il passato in una maniera più aperta alle mutazioni future (per servirsi di un termine utilizzato come titolo di una raccolta di saggi edita da Jonathan Rosenbaum e Adrian Martin, di grande influenza per la Nuova Cinefilia). Oggi, quello che una volta Raymond Bellour ha chiamato il “testo inaccessibile” dell’immagine in movimento è nuovamente accessibile, ma così come il lungometraggio proiettato in sala non è più la forma dominante di esperienza dell’immagine in movimento, è meno chiaro quale sia il “testo” cui desideriamo “accedere”. Va sottolineato come PNC coniughi la Nuova Cinefilia al film saggio, un concetto con una lunga storia alle spalle, tesa verso un tipo di film marginale, sperimentale, in grado di fondere critica e regia, teso a esplorare le potenzialità dei nuovi mezzi espressivi del cinema. Un tempo considerato una bestia rara, il film o video saggio, sia come oggetto che come mezzo di studio, diventa sempre più integrante nella riflessione riguardo il futuro dell’immagine in movimento, mentre le nuove tecnologie fanno sì che la rideterminazione delle immagini in movimento sia un’opzione aperta a tutti coloro che abbiano acceso a Internet e a iMovie.

Se posso rifarmi a un filosofo francese contemporaneo (niente meno che uno studente di Althusser, per quanto eretico) la Nuova Cinefilia può prendere a motto quella che Jacques Rancière, nel suo ultimo libro, chiama la “politique de l’amateur”. La politique de l’amateur mette in discussione le gerarchie del gusto, o ciò che ha rilevanza nell’assegnazione del valore. Rompe le serrate divisioni che separano cineasti, critici, teorici e cinefili. Intraprende ciò che Internet offre al meglio: la possibilità offerta a chiunque di dire la sua conduce all’incontro creativo di immagini e parole sganciate da qualunque associazione con l’autorità riconosciuta. Ciò non implica l’indifferenza nei confronti della storia o della conoscenza teorica, quanto il riconoscere che la teoria e la critica sono qualcosa di ordinario e, facendo parte del processo attraverso il quale il cinema viene compreso, sono anche parte di ciò che è il cinema. Willeman ha sottolineato come la cinefilia sia, a suo modo, necessariamente critica e teorica: “Il momento rivelatorio esperito nell’incontro tra noi e il cinema può essere diverso da quello della persona che ci siede accanto, nel qual caso devi dargli di gomito per fargli capire che hai appena avuto un “momento cinefilo”. Si tratta di una modalità ordinaria di consumo che include una dimensione critica valida di per sé e sostanzialmente trasmessa nei discorsi critici più razionalizzati. Nel dare di gomito c’è altrettanta teoria implicita che nel lavoro di Metz”.

Il cinema non è solo l’informazione contenuta nelle strisce di pellicola (o nei DVD, o in un file AVI), o il lavoro specifico di un regista che raggiunge determinati risultati, è anche ciò che Alexander Kluge chiama “il film nella mente dello spettatore”, così come le storie e le teorie riguardo ciò che il cinema è o potrebbe essere. Come hanno sottolineato molti dei migliori critici, la funzione della critica cinematografica è quella di resistere a diventare parte della macchina promozionale tanto per il mercato di massa che per quello indipendente/artistico, limitandosi a ripetere le note dei comunicati stampa. Il rovescio della medaglia – il generarsi a catena di pareri opposti a quelli popolari, per quanto abilmente esposti – è altrettanto reazionario se espresso in termini morali che rassicurino i lettori sul fatto che un certo tipo di film è solo per un certo tipo di persone. Per ricordarci ancora una volta che determinati film non sono che spazzatura commerciale destinata al minimo comune denominatore, mentre altri rientrano all’interno di un genere di film da festival designati a a procurare un senso di distinzione culturale, significa sostanzialmente rafforzare e avallare tutte le divisioni istituzionali di classe che presumibilmente andrebbero messe in discussione.

La promessa della cinefilia risiede nel potenziale delle immagini di ottenere un effetto che non si conformi alle nostre aspettative o idee preconcette. Dunque sarà ugualmente spiacevole per la cultura cinematografica se, da parte dell’accademia, ciò che viene considerato accettabile viene ristretto a una serie di cause probabili e effetti misurabili, tagliando fuori il film dal pensiero speculativo e dalle realtà politiche. Stando a Rancière, la conoscenza del mondo che chiamiamo cinema è in continuo cambiamento e perennemente sottoposta a contestazione, e appartiene a chiunque la scelga come terreno su cui tracciare il proprio cammino.

(Testo pubblicato originariamente su Film Comment; traduzione di Alessandro Stellino)