Potremmo iniziare dall’analisi di un’istantanea, di per sé esplicativa. Serata di premiazione dei David di Donatello, ultima edizione. È il momento del miglior esordio del cinema italiano. Tullio Solenghi, il presentatore, manifesta un’incompetenza appena più consapevole rispetto a quando annuncia il miglior documentario e il miglior cortometraggio (quest’anno andato meritatamente a un grande regista d’animazione marchigiano, Simone Massi, che ha fatto un discorso di ringraziamento da far tremare i polsi, parlando una lingua altra a una platea di stupiti testimoni di un paesaggio marziano). Parliamo di categorie aliene, appunto, minori, per certi versi. Eppure la tentazione, anzi l’azione omologante del maggior premio italiano in campo cinematografico dà le sue onorificenze e produce i suoi effetti. Sul palco sale Francesco Bruni, sceneggiatore di professione, ben introdotto nel salotto romano, ora regista esordiente con la commedia Scialla. Gli consegna il premio il vincitore dell’anno precedente, Rocco Papaleo, attore stralunato, cantautore improvvisato (eppure efficace), anch’egli regista all’improvviso con il fortunato Basilicata coast to coast. Cosa hanno in comune questi due uomini? Entrambi portano la barba, che s’è fatta bianca. Entrambi hanno esordito molto tardi e da punti di partenza consolidati. Entrambi non sono registi, sceneggiatore il primo, attore il secondo. Entrambi hanno girato una commedia. Questi sono dati di fatto. Il David di Donatello, il premio che il cinema italiano dà a se stesso, ha indicato i suddetti esordienti negli ultimi due anni. Questa è la descrizione di una fotografia, non fraintendeteci, non è un giudizio sui film, anche gradevoli e ben scritti, prodotti di una commedia intelligente e a tratti persino acuta.

Se questa è ciò che resta del cinema italiano degli esordi, allora il nostro è un cinema di vecchi, e per vecchi. Per fortuna non è così, non del tutto. Ma quello che è stato appena descritto, è ancora più stridente se si pensa che proprio quest’anno tra gli esordienti c’era una forte componente innovativa, in grado di mettere in risalto il 2011, nonostante il morso della crisi si sia fatto sempre più serrato. Vogliamo citare, tra gli altri e tra quelli che erano candidati al David, sicuramente il film di Alice Rohrwacher, Corpo celeste, e quello di Andrea Segre, Io sono Lì, (presentati in sezioni laterali di festival importanti come Cannes e Venezia), per non parlare del sorprendente e molto sottovalutato La-bas di Guido Lombardi, un regista promettente al suo primo passo.

Ora, anche se volessimo lasciarci alle spalle la triste immagine di via della Conciliazione, quella che accerta l’età media del cinema esordiente, non meno deprimente è la situazione dei festival internazionali che certificano una volta di più la difficoltà per i nostri under 40 di varcare la fatidica frontiera.

Il festival di Berlino, da sempre severo per non dire ostile verso il cinema italiano, ha incoronato i fratelli Taviani con un film che è stato definito innovativo, originale e mosso da uno spirito giovanile. I due celebri registi, che sembravano avviati verso la fine della loro carriera, sono riusciti certo a sorprendere tutti con questa vittoria, ma non si può dire che Cesare deve morire sia un film sperimentale e innovativo, se non nella scelta di entrare in un carcere, quello romano di Rebibbia, per riprendere la messa in scena del Giulio Cesare. Nel paese incolto del cinema italo-romano, quest’idea di far recitare i carcerati, e qui di riprenderli, deve essere sembrata davvero innovativa, se non fosse che il cinema documentario (bello e brutto) e soprattutto il teatro di ricerca di Armando Punzo ha un’esperienza decennale in materia, soprattutto quella teatrale, avendo messo in scena decine di spettacoli di altissima qualità e sorprendente ricerca formale. Allora, nessuno ha avuto il coraggio di dire che il Giulio Cesare messo in scena dentro Rebibbia (e raccontato cinematograficamente dai Taviani), è uno spettacolo assai brutto, che scompare, dissolvendosi all’orizzonte della più ardua ed estrema rappresentazione del Teatro di Volterra.

A Cannes quest’anno il cinema italiano era rappresentato da Bernardo Bertolucci e Dario Argento, nei fuori concorso e, unico di un’altra generazione, Matteo Garrone che arriva a Cannes dopo un cursus honorum lunghissimo (e la spinta di Gomorra). Non c’era altro. E pensare che quest’anno le opere prime pronte erano diverse, a partire dall’esordio nel lungometraggio di Leonardo di Costanzo, uno dei più importanti tra i nostri documentaristi, che è stato rifiutato dalla Quinzaine, e che speriamo di rivedere in qualche sezione di Venezia.

Questa nostra riflessione, sia chiaro, non va da nessuna parte. Eppure ci preme constatare come a fronte di un cinema dei festival ancorato ai soliti nomi e i premi italiani rivolti ai propri salotti, c’è una forte varietà di opere prime (di registi più o meno giovani) che spinge, lotta per esistere e prova a farsi sentire. Presto vedremo: Acciaio di Stefano Mordini, Tutto parla di te di Alina Marazzi, Cosimo e Nicole di Francesco Amato, Terza Categoria di Paolo Zucca… per non citare gli esordi “eccellenti”: Alessandro Gassman, Valeria Golino, Luigi Lo Cascio, Emma Dante! Facciamoci attenzione.