Didascalia iniziale: “Une petite ville, ici ou ailleurs…”. Una panoramica su un paesino della campagna francese, accompagnata dalla musica bucolica di Tony Aubin, che termina sul cimitero del paese; infine, un morbido carrello laterale ci porta sotto i chiostri del cimitero, le lapidi in pieno sole, fino a un cancello che si schiude con un cigolio, rivelando il campanile, ovvero il centro della vita della piccola comunità (1).
Comincia con queste immagini, delicate e insieme inquietanti, il secondo film (1942) di Henri-George Clouzot. Immagini di morte: come quelle a cui assistiamo subito dopo quando il protagonista, il dottor Germain (Pierre Fresnay), esce da una una modesta casa di contadini per andare a lavarsi le mani insanguinate dopo un parto finito male.

Il corvo è il film “maledetto” di un cineasta anomalo. Le circostanze in cui nacque sono note, con la Francia collaborazionista che ricorre ai capitali tedeschi per finanziare “autarchicamente” le proprie produzioni cinematografiche, e il trentaquattrenne Clouzot – all’attivo già un lungometraggio – che ne approfitta per dipingere un affresco caustico e pessimista del proprio Paese, piagato dalla delazione. Tutto ciò gli venne a costare, nell’immediato dopoguerra, accuse da destra  (l’impietoso ritratto della Francia) e da sinistra (la connivenza con il regime di Vichy) e un biennio d’interdizione.

Quanto all’anomalia di Clouzot, si potrebbe dire che consista nel suo essere “a parte” (2) nel cinema francese  dell’epoca , il ventennio (1941-60) del cinéma de papa contro cui si scaglieranno ripetutamente i futuri padri della Nouvelle Vague. Un essere “a parte” che non esclude il successo di pubblico, come dimostra la sua carriera (3), ma che presso la critica ha costituito sempre un problema di collocazione: maestro della suspense? un francese “hollywoodiano” (4)? O semplicemente un meticoloso fabbricatore di congegni narrativi ad alta orologeria? Truffaut, osservando Clouzot al lavoro, definì il suo set un “regno del terrore” (5): il regista era un perfezionista sadico, teso a spremere attori e maestranze fino a che il risultato non lo soddisfaceva. Il giudizio del futuro cineasta era forse ingeneroso, e tuttavia non può non sorgere il sospetto di una sadica misantropia, di fronte al Il corvo.

Chi è colui che si firma “il corvo”? Forse un compaesano un po’ più pettegolo e maligno degli altri che si diverte a svelare, per mezzo di lettere anonime, gli altarini dei notabili e meno notabili della cittadina. Ben presto diventa chiaro che non si tratta di uno scherzo: le accuse contenute nelle lettere si fanno sempre più circostanziate e precise; una di queste finisce nelle mani un uomo, ricoverato in ospedale per quello che ritiene essere un malanno di poco conto: “il corvo” gli rivela di essere condannato da un male incurabile, spingendolo nel baratro della disperazione – e al suicidio. Il dottor Germain, per quanto anch’egli vittima dell’anonimo mitomane (è accusato di praticare aborti clandestinamente), si comporta come è giusto che faccia un medico: si adopera per fermare l’epidemia.

Che di pestilenza si tratti, del resto, Clouzot lo dice esplicitamente, per bocca del  personaggio più serenamente ambiguo e caustico del film, il dottor Vorzet (Pierre Larquey), primario dell’ospedale: “La nostra città ha la febbre”. Ma lo suggerisce anche in modi più sottili, come nella sequenza centrale del film, quella del funerale: una lettera “scivola” a terra da sotto una delle corone floreali appese al carro funebre. La macchina da presa inquadra il corteo dal basso, dal punto di vista della lettera – e quindi del misterioso “corvo”: qualcuno fa per raccoglierla ma viene trattenuto, oppure si ritrae da sé, spaventato.  Davanti a quel pezzo di carta anonimo, il corteo si apre in due. Nessuno vuole infettarsi con il terribile morbo della delazione.

Per usare le parole di Truffaut, quello che Clouzot disegna,  la penna intinta nel veleno e un geometrico rigore stilistico (6), è  quindi davvero un “regno del terrore”: la sua provincia francese (che vale sineddoticamente per tutta la Francia, o forse per il mondo intero, come sembra indicare la premeditata vaghezza della didascalia dell’incipit) è una sorta di anticipazione, perversa e nerissima, di quella raccontata a colori dal coetaneo Jacques Tati pochi anni più tardi con Jour de Fête (1949). Del resto, non si può fare a meno di pensare al film di Tati durante la già citata sequenza del funerale, dove per le vie della città pavesata a festa e inondata di luce estiva, si snoda il nero corteo funebre di un suicida – ancora una volta, come nella panoramica iniziale, tutto è posto sotto il segno della morte.

Misantropia, si è detto. O forse è solo una profonda conoscenza dell’animo umano? “Dov’è l’ombra, e dov’è la luce? Dov’è la frontiera del male?”, chiede il dottor Vorzet mentre fa dondolare insistentemente una lampada accesa. Se Germain liquida senza troppi problemi le parole del collega (“Questa è letteratura”), Clouzot sembra invece fraternizzare con il primario; e diversamente da quello che ci si aspetterebbe da un noir, riprende la vicenda in pieno sole. Nella luce accecante, che sagoma le case e affila le ombre, la “febbre” si propaga e fa esplodere la folla nella frenesia del linciaggio: l’infermiera Marie (Héléna Manson), ingiustamente accusata di essere l’autrice delle lettere, sfugge ai concittadini inferociti correndo sola per le vie del paese e strisciando lungo i muri scalcinati, fra inquadrature oblique (7) di marca espressionista e il minaccioso, costante sottofondo delle grida della folla.

Non sarà forse (per rispondere alla domanda iniziale) che il vero “corvo” è proprio Clouzot? Davanti alla sua macchina da presa, i personaggi sono costretti a confessare i propri misfatti economici (si veda, ad esempio, il dialogo fra il dottor Delorme/Antoine Balpêtré e il contabile Bonnevie/Jean Brochard), i propri peccati veniali (la relazione sentimentale fra Germain e Denise/Ginette Leclerc, sua paziente), finanche i propri difetti fisici (l’impietoso particolare che rivela agli spettatori la zoppia di Denise): nessun personaggio è realmente positivo, e nemmeno l’infanzia è al riparo dalla corruzione morale.

Chi è Clouzot? La domanda rimane senza risposta. Ma se è vero che, come dice il dottor Vorzet, in ogni uomo convivono un demone e un angelo, forse in un grande cineasta possono convivere un sadico torturatore e un saggio moralista.

NOTE

(1) La sceneggiatura di Louis Chavance e dello stesso Clouzot prende spunto da un fatto realmente accaduto fra il 1917 e il 1922, a Tulle, nel sudovest della Francia.
(2) Così disse Jean Cocteau, riferendosi ad un’altra grande “voce solista” di quel periodo, Robert Bresson.
(3) Oltre ai successi di pubblico di Legittima difesa (Quai des Orfèvres, 1947) e, soprattutto, de I diabolici (Les Diaboliques, 1954), la fortuna internazionale di Clouzot negli anni cinquanta è testimoniata dai numerosi premi: Leone d’Oro nel 1949 per Manon (1948); Palma d’Oro nel 1953 per Vite vendute (Le salaire de la peur, 1953); Premio Speciale della Giuria al nono Festival di Cannes per Il mistero Picasso (Le mystère Picasso, 1956).
(4) A Hollywood, del resto, si sono cimentati con un remake delle sue opere William Friedkin e Jeremiah Chechick, entrambi con esiti fallimentari. Andò meglio a Otto Preminger con il remake de Il corvo, intitolato La penna rossa (The 13th Letter, 1951).
(5) Da: François Truffaut, Il piacere degli occhi, Venezia, Marsilio, 1984, pp. 213-19.
(6) “Bisogna pensare direttamente per lo schermo e non fare del teatro filmato. Io vedo tecnicamente il ritmo del film contemporaneamente alla trama del racconto, proprio come uno scrittore trova il proprio stile scrivendo il suo romanzo” (dichiarazione di Clouzot, cit. in P. Mérigeau, A. Tassone (a cura di), France Cinéma 1998, Milano, il Castoro, 1998, p. 104.
(7) Non va dimenticato il soggiorno del regista negli studi dell’Ufa a Babelsberg , nel 1932-33, come ricorda Alberto Scandola nel suo bel saggio su Vite vendute, incluso in G. Tinazzi (a cura di), Il cinema francese attraverso i film, Roma, Carocci, 2011, pp. 115-33.

IL CORVO (Le Corbeau), regia di Henri-Georges Clouzot, Francia, 1943, 87′ (Teodora – Flamingo Video)