Capo Verde, 1995. È l’ultimo giorno di riprese di Casa de Lava quando Pedro Costa – al suo secondo film – riceve da alcuni capoverdiani una borsa di plastica con lettere, viveri e tabacco. Quanto gli chiedono è piuttosto semplice: deve portarla con sé a Lisbona e recapitarla ai parenti che vivono lì, nel quartiere di Fontainhas. Ghetto malfamato e degradato, posto a nord-ovest della capitale, Fontainhas era, all’epoca, un microcosmo ancora sconosciuto al regista portoghese. Una volta entrato, accolto con i favori che si riservano a chi porta notizie dei propri cari, Costa scopre un ecosistema di miseria e derelizione, un girone umanissimo di poveri e vinti, dove tossici terminali ed emarginati d’ogni sorta convivono insieme alla popolazione capoverdiana, emigrata in cerca di fortuna nei cantieri portoghesi. E da Fontainhas Pedro Costa non se ne andrà più. La suburra diventa il solo mondo di cui vuole raccontare, il dedalo spaziale e umano da abitare e scandagliare giorno dopo giorno. Con Ossos prima e con No quarto da Vanda poi, anche la sua idea di cinema ne esce stravolta. L’atto di filmare diventa nuda auscultazione del reale: progressivamente, Costa rifiuta l’idea di sceneggiatura aprendo l’opera a work in progress, abbandona la costruzione di personaggi coinvolgendo in prima persona gli abitanti del quartiere, diventa l’etnografo partecipe di una società ai margini, scegliendo di vivere, per anni, in osmosi con i luoghi e i soggetti filmati. Prima di Juventude em marcha, a Fontainhas ha già realizzato con una piccola videocamera semi-amatoriale No quarto da Vanda, paragonabile per radicalismo estetico e tensione morale a Melancholia di Lav Diaz e Tie xi Qu di Wang Bing, altri due capolavori d’urgenza digitale che hanno segnato indelebilmente lo scorso decennio di cinema. Ma al terzo film su Fontainhas qualcosa è cambiato: di vicoli e baracche non è rimasto più niente, rasi al suolo allo sbocciare del nuovo secolo e soppiantati da palazzoni, grattacieli e centri commerciali. Mostrata l’opera di smantellamento architettonico e sociale nel precedente No quarto da vanda, a Costa non resta che tornare alle radici di quel mondo e di quel cinema – il suo cinema.

Riparte così da Ventura, uno dei primi capoverdiani approdati a Fontainhas, già notato durante le riprese di Ossos. Iniziatore adamico di una stirpe d’oppressi, il vecchio rappresenta una figura paterna archetipica da cui si dipartono una legione di figli immaginari. Il suo tentativo di riunire questi ultimi sotto lo stesso tetto equivale a voler ricucire un tessuto familiare e sociale a brandelli qual è la comunità  di Fontainhas, irrimediabilmente atomizzata dall’avanzare inesorabile del tardo capitalismo. Ventura, memoria storica del quartiere, diventa così l’eroe resistente di una deriva dai contorni epici, un pioniere di un altro tempo affondato nelle pieghe del presente. Coerentemente alla decisione di romanzare – se non addirittura mitizzare – il ricordo di Fontainhas in elegia insieme colossale e anticata, il ritorno alle origini di Costa recupera un disegno fiction più marcato rispetto ai due film precedenti, vincolati a vario grado da necessità documentarie.

Girato in quindici mesi e montato in più di un anno, frutto di una scrematura di oltre 320 ore di girato, Juventude em marcha ricorre a un vero e proprio script e a una concezione più formalizzata dell’attore non professionista, a cui Costa chiede di ripetere ciascuna scena  anche per venti volte di fila. Appurato il rifiuto di Costa a distinguere tra fiction e documentario – entrambi sono venature di una medesima idea di cinema, costretta in ogni caso a fare i conti con il reale -, così come tra narrazione e descrizione, l’opera del 2006 è il più stilizzato dei tre film girati a Fontainhas. Come un cristallo fiction riflesso da eventi e personaggi veri, Juventude em marcha, illuminato dalla recitazione straniata e rituale di Ventura (sorta di figura oracolare), epicizza la cosmogonia di Fontainhas come mitologia personale. Il ricordo del quartiere è un’altra storia in via d’estinzione, come lo sono i fantasmi che si dibattono – sempre di meno – tra i pochi resti del quartiere sventrato, figure da riconoscere sulle vecchie mura del bairro, così stridenti rispetto ai nuovi appartamenti, bianchi, puliti e isolati. Case dove si può morire per troppa luce, in un biancore sterile e asettico quantomai lontano dal buio rorido e fertile in cui era avvolta Fontainhas.

“Qualcosa si era perso, qualcosa era morto”, dice Costa. L’urbanesimo cannibale e globalizzato ha finito per ingoiare il quartiere. Ma se le nuove case, invivibili per i vecchi abitanti, smettono di essere canali di storie e umanità varia, è il cinema di Pedro Costa a farsi abitabile, patria di emarginati che sopravvivono e resistono alle ruspe inarrestabili del presunto progresso. Con sguardo ostinato e irriducibile, Pedro Costa dà, da sempre, voce a umiliati e offesi, raccontandone l’umanità persistente in situazioni ai limiti dell’inumano, ridando un passato a chi è sopravvissuto all’esclusione sociale, a chi è stato oscurato, negletto, dimenticato. È cinema a più voci, opera di un umanista radicale che mira a immortalare la resistenza dell’umano all’epoca dei sommovimenti post-storici, cinema dolente e lucidissimo sulla dignità dell’uomo al tempo della sua rottamazione.

La resistenza di queste figure, mentre tutto cambia per rimanere identico a se stesso, rappresenta il fulcro del cinema del portoghese, fatto di margini e silenzi, tempi morti e interstizi drammatici. L’immobilità di personaggi bloccati nella loro miseria quotidiana e prigionieri, qui come non mai, nelle linee geometriche del quadro (con cui rimano le griglie asfittiche delle nuove costruzioni di Fontainhas) denuncia un immobilismo che è innanzitutto sociale e morale, dove la tensione prodotta tra soggetto e inquadratura non è che il primo sintomo di un cinema fondato innanzitutto sull’idea del conflitto -estetico, morale, economico, psicologico, tecnologico-, un’opera politicamente schierata già a partire dalla scelta di girare in digitale, in grado di dare nome e voce a chi non li ha mai avuti, facendosi così denuncia appassionata e incompromissoria dell’ingiustizia del mondo (in Juventude em marcha si ha, in tal senso, una sfacciata dichiarazione d’intenti nella scena del museo, luogo arido e silente che esclude la vita, la luce e i suoni del mondo: Ventura, che ai tempi contribuì a costruirne le mura, è ora visto come un intruso, impossibilitato a fruire del prodotto del suo lavoro).

Oggi, l’opera di Pedro Costa rappresenta uno dei più radicali tentativi di ridefinire il cinema e di riallinearlo ai bisogni e alle vibrazioni del reale. Mentre il piano sequenza, prima cifra stilistica del suo cinema, gli permette un’autenticità assoluta e non mediata nel raccogliere scampoli di realtà, la composizione del quadro rimane di nitore preciso e persino classico, probabile retaggio dell’amore per autori-artigiani hollywoodiani come Walsh e Tourneur. A spoglie formali limpide corrisponde poi una scelta dell’inquadratura sempre oculatissima e un rigore spaziale di ieratico materialismo, che riporta di fatto a Straub (anche nella forma c’è, per Costa, il bisogno di ritornare alle origini, di recuperare una sensibilità all’immagine propria delle prime vedute dei Lumiére, riacquistando il dialogo con il presente grazie a un sentire proprio del passato). Rispetto a No quarto da Vanda, Juventude em marcha, girato con una MiniDv e solo poi riversato in 35 mm (magnificando e formalizzando quel che è altrimenti impossibile in video), ostenta una composizione digitale di bellezza ed esattezza sconcertante, dove l’immagine di sintesi, originata dal puro calcolo, arriva a cogliere sottili digradazioni cromatiche e luministiche (mentre la presa diretta testimonia di altre minuzie) e la durata, l’ossessione del tempo reale -che è poi la chiave di volta del suo stile- permette a chi guarda di respirare insieme ai soggetti filmati, rendendo così la visione un’esperienza immersiva inaudita, psicofisica e pulsante di vita.

Come Lav Diaz, Costa osa realizzare, con videocamere spartane e semi-amatoriali, opere fuori standard e fuori formato, in grado di infettare di vita quel che sta fuori e oltre la sala cinematografica. Senza mai estetizzare il mondo, ma limitandosi a disvelare la dolorosa fotogenia già insita nel mondo. E l’approccio totalizzante di Costa, dove esistenza e opera collassano l’una sull’altra in una prospettiva eminentemente politica, prevede che, citando Straub (a cui ha dedicato il documentario Où git voire sourire enfoui?, sul montaggio di Sicilia!) i suoi film siano più degli incontri che delle creazioni, idea di un lavoro portato avanti insieme grazie agli abitanti di Fontainhas. Anche questa è solidarietà e condivisione, come quella che anima Ventura, che tenta con fatica di ricucire una comunità frantumata vagabondando da un “figlio” all’altro, tra le macerie delle vecchie vite e le sbarre delle nuove prigioni.

COLOSSAL YOUTH (Juventude em marcha), regia di Pedro Costa, Portogallo 2006, 150′ (Eureka).