HADOPI, DMCA, SOPA, SINDE, DEA, IPRED, hanno tutti nomi che sembrano farmaci sperimentali o virus di nuova scoperta, in realtà sono acronimi che indicano i più importanti provvedimenti legislativi in atto in Europa e America per far fronte alla dilagante pirateria che ha messo in crisi i mercati delle industrie culturali.

In Italia, un primo decreto per proteggere il diritto d’autore fu emanato dal governo rivoluzionario piemontese nel 1779, seguito da una legge più completa promulgata nel 1801 nella repubblica Cisalpina. Successivamente, dopo la restaurazione, furono pubblicati nei diversi stati, differenti provvedimenti legislativi, ma, data la grossa frammentazione politica della penisola, queste leggi erano inutili per il loro limitato raggio applicativo. Per limitare questo inconveniente la Toscana, il Regno di Sardegna e l’Austria stipularono, nel 1840, una convenzione per una protezione comune sul diritto d’autore. La prima vera legge risale, però, al 1865, appena dopo l’unità d’Italia, avvalorata con la creazione della SIAE (Società Italiana degli autori e degli Editori) nel 1882 e rimasta in vigore fino al 1925, per poi essere sostituita da un nuovo decreto legge il 22 aprile del 1941.

Ogni singolo stato si trova oggi di fronte ad un’enorme difficoltà coordinativa a livello giuridico. I diversi provvedimenti antipirateria di singole nazioni, mal si adattano alla “non forma” di Internet e hanno reso quasi impossibile un’azione coordinata ed efficace in materia. La stessa vicenda di Wikileaks ha evidenziato la fragilità di un sistema basato sull’informazione digitale, così come la facilità nel reperimento e la diffusione di tali informazioni. Il fatto stesso che il diritto d’autore nei paesi francofoni sia differente dal copyright di origine anglosassone ha da sempre creato complicazioni ed ambiguità. Per gli americani l’alienazione della proprietà di un oggetto materiale o immateriale è identica; sempre di vendita si parla. La Francia, per ragioni radicate nella sua cultura, ha sempre sostenuto che le opere dell’ingegno abbiano un’anima, per dirla alla Walter Benjamin, e che quel diritto morale sia inseparabile e inalienabile dal suo creatore. Quest’ultimo si separa dai così detti diritti commerciali della stessa opera, affrontati diversamente, e che restano, comunque, legati agli eredi dell’artista fino a 70 anni dalla morte di quest’ultimo prima di diventare di dominio pubblico.

La risposta legislativa dei differenti paesi, da trenta anni a questa parte, è stata quella di associare la sottrazione dell’opera intellettuale al furto di un oggetto fisico. Per anni centinaia di trailer hanno proiettato messaggi più o meno metaforici che associavano la pirateria al furto di una copia fisica di un film. La grande questione che si pone con l’avvento di internet e dei sistemi di P2P, direct download e streaming  è la seguente: come si può rubare qualcosa che si guarda senza possederla materialmente? Il mondo delle lobby cinematografiche, in primis la (MPAA), si sta muovendo da anni per cercare di evitare quello che è stato il D-Day per industria musicale, e dal quale quest’ultima non sembra essersi ancora sollevata.

La Francia, sempre una spanna avanti in termini di protezione della propria eccezione culturale, ha adottato nel 2010 il criticato provvedimento HADOPI. “Haute Autorité pour la diffusion des oeuvres et la protection des droits sur l’Internet” è un’istituzione creata dal governo che ha il compito di controllare il download illegale delle industrie creative e promuovere l’attitudine all’utilizzo delle piattaforme legali. Il provvedimento HADOPI comporta tre segnalazioni al titolare del contratto di abbonamento Internet, dalla quale linea risulta un traffico da siti P2P illegali. L’ultimo stadio di applicazione di questa legge anti-pirateria prevede una multa e una chiamata in appello di fronte ad un giudice che potrà decidere per una disconnessione forzata della connessione a banda larga incriminata. Il sistema di controllo HADOPI segue concretamente una lista di circa 200 film che vengono rinnovati regolarmente. Gli indirizzi IP degli utenti che scaricano quei film tracciati vengono segnalati al centro di controllo HADOPI, il quale provvede ad inviare un primo ammonimento all’utente. Paradossalmente, un internauta che scarica un solo film nella sua vita che è presente nella Black List verrà inserito nella lista dei violatori della legge antipirateria. Pascal Rogard, presidente della SACD afferma che il sistema di controllo è stato impostato per seguire le opere, non gli utenti, ammettendo la debolezza di poter concentrare le forze di controllo solamente solo su alcuni titoli classificati come “a rischio”.
I risultati di questo sistema, dopo tre anni di adozioni, sono ambigui. Oltre al costo di gestione spropositato  (si parla di oltre 100 milioni di euro), la correlazione tra la diminuzione dei film piratati e l’aumento degli acquisti in VOD è molto debole, per non dire opposto.

In Gran Bretagna, il Digital Economy Act votato nel 2010 sullo scaricamento digitale, impone la sospensione o riduzione della connessione internet agli utenti recidivi dopo un anno di avvertimenti. Legge votata con forte rimostranza da parte dei giganti delle telecomunicazioni, che vedevano di cattivo occhio il fatto di dover bruscamente tagliare la connessione ai propri clienti.
Mentre gli Stati Uniti si sono dotati di una legge contro la pirateria nel 1996 con la DMCA (Digital Millenium Piracy Act), la cui evoluzione molto più severa (SOPA) è stata recentemente bocciata al Congresso americano dopo un sciopero durato oltre 48 ore di Wikipedia, l’Italia è ancora ferma al decreto Urbani del 2005, i cui risultati non sono mai stati resi noti, né fatti oggetto di ricerche o studi. La legge, oltre che una sanzione pecuniaria per fini non personali o di lucro, prevede una pena di reclusione da 6 mesi a 3 anni.
Il provvedimento ha poi sollevato gli internet provider dal ruolo di poliziotti della rete e ha volto la dicitura “fini di lucro” in “per trarne profitto”: chi si serve dunque di programmi di file sharing per scaricare film ad uso personale, evitando in questo modo di acquistare cd o dvd, trarrebbe a suo modo un profitto indiretto che potrebbe essere sanzionato con una pena detentiva da sei mesi a tre anni. In altre parole, grazie alle modifiche apportate dalla Camera al già contestato decreto, chiunque metterà in condivisione dei file protetti da copyright attraverso le reti «peer to peer» non incorrerà più in una salata sanzione, ma potrebbe finire diritto in galera alla stregua di un criminale che trae illecito profitto dalla pirateria organizzata.

I recenti sviluppi dei provvedimenti antipirateria arrivano da AgCom, il cui presidente Corrado Calabrò, nella commissione riunita a fine marzo 2012, con mandato in scadenza, ha dichiarato che non interverrà in materia di Copyright, lasciando un vuoto legislativo che proietta l’Italia nella Watch List dei Paesi con maggior traffico illegale al mondo.
Non ha potuto invece tentennare la Spagna: su pressioni americane e in seguito a una ricerca secondo la quale oltre l’80% dei download dei film in terra spagnola sarebbero illegali (con la susseguente minaccia di finire nella Priority Watch List insieme a Russia e Cina), nel 2008 ha adottato il nuovo provvedimento legislativo antipirateria: SINDE. Tale legge segmenta gli internauti e permette a un’agenzia del governo di forzare l’oscuramento di determinati siti o l’accesso Internet all’utente da parte dei fornitori di servizi. Altro elemento che rafforza l’intervento della major americane sono i rumors attorno al fatto che Netflix, il gigante della dell’entertainment online americano avrebbe individuato la Spagna come mercato in cui sbarcare nel corso del 2012.

Il vero problema non è tanto decidere quale legge o provvedimento giuridico potrà impedire o scoraggiare lo scaricamento illegale, quanto iniziare a promuovere la cultura e l’utilizzo del mezzo digitale, potente strumento al di fuori di ogni controllo educativo e morale.

La cultura della gratuità, fatta propria dalla maggior parte degli utenti che scaricano illegalmente, è legata a una diffusa percezione del progetto della rete, fondato sulla gratuità e sulla condivisione liberale dei contenuti. È sufficiente parlare con un adolescente qualunque per capire come ritenga inconcepibile pagare un’informazione o un contenuto in rete. Tra gli assiomi del ragionamento pirata poggia la concezione della gratuità relativa di Internet. Nella percezione degli utenti, infatti, ci sono i costi legati ai provider per l’allacciamento alla rete, alle case informatiche per l’acquisto di hardware e software. Si accetta silenziosamente il fatto che i dati privati delle nostre transazioni o preferenze vengano utilizzate e vendute alle grandi aziende per fini commerciali. Si crede dunque legittimo l’utilizzo deregolamentato dei contenuti trovati sula rete. 
Tra le opportunità offerte da economisti e sociologi troviamo modelli di business alternativi come quello fondato da Lawrence Lessing e dei suoi Creative Commons, organizzazione non profit che cerca di lavorare attorno al concetto di utilizzo collettivo e condiviso delle opere e progetti messi in rete dietro una forma di liberalità corrisposta da parte degli utenti. In ambito musicale, pioniere in tale senso è stato già nel 2006 Jeff Rosenstock, fondandatore di QuoteUnquote Records, etichetta indipendente con un modello di messa a disposizione delle proprie canzoni in cambio di una donazione volontaria, modello di riferimento per la realizzazione di moltissimi progetti culturali attraverso l’attivazione delle così dette piattaforme di crowdfunding; Indie go go e Kickstarter. In Francia Juan Branco, convinto oppositore di HADOPI nel saggio pubblicato da Capricci nel 2011 “Réponse à Hadopi”, illustra il progetto sposato dalla sinistra del neopresidente Hollande. Un “bouquin” che afferma con coraggio l’urgenza di una politica culturale capace di superare il concetto di eccezione culturale inaugurato dal ministro Lang e di trovare un’evoluzione ulteriore con la creazione di una cosiddetta “licenza globale”. Concretamente, una sorta di abbonamento flat (si parla di 5 o 10 euro al mese) per tutti gli utenti del web che possano liberamente usufruire dei contenuti delle industrie culturali presenti online senza doversi scontrare con un “Grande Fratello” che ne controlli le attività o il tracciato. Il modello di riferimento per il cinema sarebbe ancora una volta quello americano di Netflix. Le somme raccolte verrebbero ridistribuite agli eventi diritto in relazione al numero di download effettuati delle loro opere.

Ma fino a quando industrie creative, Internet provider e governi non si troveranno intorno ad un tavolo e cominceranno a cooperare non sarà neppure possibile fornire un servizio all’internauta, che ad oggi percepisce solamente un mercato di nicchie e code lunghe difficilmente accessibili. Un singolare caso in cui questi tre poteri si sono uniti è rappresentato dai Piratpartiet, partito politico svedese che ha conquistato alcuni seggi al Parlamento e Svedese e un seggio al parlamento Europeo alle ultime elezioni nel 2009. Tra i loro obiettivi principali c’è quello di lavorare sulla sensibilizzazione pubblica della cultura digitale e quello di trovare soluzioni legislative e modelli di sostenibilità economica che abbraccino sia gli interessi delle industrie culturali e degli internet provider che le esigenze degli utenti, fruitori sempre più esigenti e affamati di cultura all you can eat