Carole Roussopoulos ha girato più di cento video, per la maggior parte di una durata compresa tra i venti e i quaranta minuti – “piccoli” film, come le piaceva definirli, con umiltà ma senza affettazione: un’opera immensa, fra le più necessarie e coerenti del nostro tempo, che si estende su quarant’anni di lavoro incessante. Un’opera esemplare, in un’epoca in cui vige l’imperativo di “esprimersi”, di essere “creativi”: Carole invece eredita dal cinema militante e di controinformazione degli anni Sessanta, spesso girato in 16mm, la necessità di mettersi al servizio di una causa, e in particolare di “dare la parola” a chi non ha accesso allo spazio pubblico: “per me, quel che conta è la parola degli altri, quella che non si sente mai”. Non si tratta tuttavia semplicemente di dare la parola a chiunque (per lo più sottoponendolo a un canovaccio e a un controllo), come fanno la televisione e Internet: Carole sceglie e dà valore, facendo opera di controinformazione con intelligenza, sensibilità e umorismo. Dà la parola a chi ha davvero qualcosa da dire, qualcosa da rivendicare e per cui lottare; soprattutto alle donne, di cui scopre al contempo la realtà di un doppio sfruttamento – sul lavoro e a casa – e la capacità di riflettere a partire da un orizzonte più vasto, non solo ideologico ma anche esistenziale.

Carole de Kalbermatten si trasferisce a Parigi dalla Svizzera natale nel 1967, lavora per Jeune Afrique e Vogue, conosce il suo compagno, Paul Roussopoulos, che era arrivato in Francia poco più che ventenne, nel 1947, per una borsa di studio. Grazie alla sua formazione scientifica, Paul aiuterà Carole (ed altri fra i primi videasti) a risolvere questioni di ordine tecnico, oltre ad accompagnarla come fonico in molti dei suoi primi film (in particolare la serie dedicata agli operai della fabbrica Lip). Licenziata da Vogue nel 1969 per aver preso le difese di una sua collega, Carole spende la sua liquidazione per comprarsi il mitico Portapak, il primo modello di videocamera portatile da mezzo pollice prodotto da Sony, arrivato da poco in Francia (Jean-Luc Godard, poi Carole saranno i primi a comprarlo). Carole segue il consiglio di Jean Genet, amico di Paul, che ne aveva sentito parlare negli Stati Uniti e vi vedeva il mezzo ideale per liberarsi dai padroni, per “agire” senza dover render conto a nessuno. Fu così che, figlia di un’epoca e di due movimenti, il Sessantotto e il femminismo, nel corso degli anni Settanta Carole Roussopoulos parteciperà con la sua videocamera, fra l’altro, alle lotte del popolo palestinese e delle Black Panthers, per la liberazione delle donne, per il riconoscimento dei diritti degli omosessuali, delle prostitute, delle operaie e degli operai della fabbrica Lip, degli immigrati, oltre a lavorare come operatrice e montatrice per una serie di happening di Gina Pane e per Sois belle et tais-toi! di Delphine Seyrig, 1975-76, film straordinario di interviste tra la Seyrig e una serie di attrici a proposito del loro lavoro e dei ruoli che si trovano ad interpretare. Sono di questi anni capolavori come Le F.H.A.R. (Front Homosexuel d’Action Révolutionnaire), “y’a qu’à pas baiser!” (per la liberalizzazione dell’aborto: la traduzione letterale sarebbe “basta non scopare!”, commento rivelatore di una vecchia beghina all’indirizzo delle manifestanti femministe), la serie dei Lip (ad esempio il primo dedicato a Monique), o il salace Maso et Miso vont en bateau, critica feroce e divertita del maschilismo strisciante o senza pudore della televisione pubblica. In seguito, negli anni Ottanta, il tono militante si stempera, ma rimane intatta la curiosità di uno sguardo partecipe, schierato ma non propagandistico. Nell’opera di Carole Roussopoulos si ritrova sempre una delle più importanti eredità del cinema diretto, ovvero quella di uno sguardo partecipe che filma un frammento di realtà condivisa, indissolubilmente legando l’immagine e il suono.

Femminista e militante: due etichette che fungono da scorciatoia per entrare in contatto col cinema di Carole Roussopoulos, ma che devono servire soprattutto a dischiudere un universo diversificato e coerente, sempre animato dalla necessità, dall’urgenza, dalla curiosità di ascoltare e difendere le ragioni degli altri, in particolare i più oppressi, i dimenticati. Quasi che Carole, figlia dell’alta borghesia svizzera, volesse riscrivere la sua storia personale dopo lo choc politico del Maggio parigino, e dopo l’incontro con Paul, uomo dalla consapevolezza politica ammirevole. Anche per questo, Carole ricorda Chris Marker, figlio della ricca Neuilly-sur-Seine del quale è perfino difficile scovare un’immagine, eppure maestro del film-saggio, un cinema alla prima persona, soggettivo anche se mai autobiografico. Negli anni Settanta, quelli dei suoi video più “militanti”, Carole conobbe e aiutò Marker a servirsi del video; inoltre, Carole e Paul appaiono nel magnifico L’Ambassade di Marker. Come quest’ultimo infine, scelse la via della realizzazione collettiva, come fecero molti altri (fra cui lo stesso Godard) in quegli stessi anni in cui Barthes e Foucault proclamavano la “morte dell’autore”. Nacque così Vidéo Out, con Paul; in seguito Les Muses s’amusent, con le sue compagne e amiche femministe Delphine Seyrig e Ioana Wieder – lungo tutta la sua vita, i film che nascono da una collaborazione con una o due donne saranno numerosi; Les insoumuses, che si potrebbe tradurre “le muse non sottomesse”, ancora con Delphine Seyrig, star rifiutata dal cinema industriale per il suo impegno femminista; si ricorderà infine il collettivo di videodiffusione Mon œil.

Rispetto ai cineasti e videasti uomini, la scelta dell’opera collettiva acquisiva un più forte accento comunitario, ma segnava anche la non-appartenenza ad una tradizione maschile, di grandi “eroi”, grandi cineasti, grandi opere…
“Continuo a nascondermi dietro la videocamera”, rispondeva ancora pochi anni fa Carole a Jean-Luc Godard che le scriveva la sua ammirazione, vent’anni prima (nel n°300 dei Cahiers du cinéma), amichevolmente punzecchiandola ed invitandola a farsi avanti, a inscrivere con più forza la sua soggettività nei suoi film, Godard prendeva forse alla lettera il motto femminista “il personale è politico”, che aveva lui stesso esplorato dalla metà degli anni Settanta, soprattutto con Anne-Marie Miéville. Ma Carole aveva capito che si può essere personali pur restando in un regime di apparente assoluta oggettività: prendere posizione, tenere la videocamera, talvolta interloquire con la persona intervistata. Ed in ogni caso, la interessavano piuttosto le storie, la rabbia, le aspirazioni degli altri, e il desiderio di condividere la loro vita, dar spazio ai loro sogni, partecipare alla loro creatività: il cinema non è la vita, e nemmeno più intenso che la vita (Godard: “chi ama la vita, va al cinema”), l’importante è cambiare la realtà, vivere il cambiamento giorno per giorno, documentare e trasmettere l’entusiasmo di un’aspirazione. Per questo la sua curiosità per gli altri è rimasta intatta, anche quando, una quindicina di anni fa, tornò a vivere in Svizzera e s’interessò piuttosto alla realtà locale del suo cantone, dall’incesto alle cure palliative e la vecchiaia, dalla vita delle immigrate alla convivenza con il cancro; anche negli ultimi tempi, in cui la malattia la riconduceva a confrontarsi con i limiti della propria vita, all’imperativo di prendersi cura di sé.

Anche per questo, uno dei suoi ultimi film è uno dei più ammirevoli, ovvero Ainsi va la vie. Cancer: de la peur à l’espoir, commissionato da un’associazione di assistenza sociale e di lotta contro il cancro del Vallese, il suo cantone natale. I commendatari non sapevano che lei stessa era colpita dalla malattia: ne risulta un film apparentemente anodino ma coraggioso, filmato da una regista che non abbandona la speranza, la passione, la voglia di mettersi al servizio degli altri. Di un’intensità quasi serena ed esemplare, la cui sua forza militante risiede proprio nel fatto di normalizzare, insegnare ad addomesticare il dèmone della malattia più comune del nostro tempo, e lottare per la necessità di conviverci lucidamente e senza disperazione. Con sensibilità profonda, sempre rimanendo dietro la videocamera, Carole filma anche se stessa negli altri, lasciando loro la parola, in un gesto supremo di condivisione che riflette la grandezza etica, politica ed estetica del suo lavoro. Un film su commissione, come tanti altri girati da Carole, soprattutto a partire dagli anni Ottanta (in particolare, per sostenere il Centro Audiovisivo “Simone de Beauvoir” fondato dalle Insoumuses nel 1982, e la sala cinematografica parigina de L’Entrepôt, da lei diretta fra il 1987 e il 1994); come gli altri, Cancer non è un film meno indipendente, proprio laddove si mette al servizio di un progetto collettivo, accettando di “dipendere” dagli altri, e soprattutto dalla loro fiducia. Cinema diretto alla prima persona femminile e plurale, anzi corale.

Tuttavia, se prende le mosse dalla sensibilità del cinema diretto, il lavoro formale di Carole Roussopoulos non persegue soltanto una poetica dell’immediatezza, ma intraprende talvolta una disamina critica della rappresentazione mediatica. Per questo, accanto alla presa diretta del suono e dell’immagine, troviamo anche la rielaborazione di materiali preesistenti (soprattutto stampa e televisione) e la sovrapposizione dialettica di strati temporali. Ad esempio, all’inizio del quinto e sesto film della serie dedicata alla fabbrica di orologi Lip, Carole Roussopoulos ci mostra tre monitor in una stessa inquadratura, uno più grande e due più piccoli: forse memore di Numéro deux di Godard, li usa per confrontare immagini fisse e in movimento, parole di uomini e di donne. All’inizio di Lip 5, un’inquadratura di Monique in Lip 1 (girato tre anni prima) è ripresa in un monitor più piccolo, mentre negli altri si vedono immagini per lo più fisse di sindacalisti uomini: la donna ci parla dalla situazione minoritaria in cui viene relegata nelle lotte operaie; eppure, grazie al ritmo col quale è montata la sequenza iniziale, la presenza femminile diventa sempre più importante, finché un’altra militante occupa tutti e tre gli schermi facendo esplodere la parola al femminile. Anche in questo caso, la semplicità dei procedimenti e l’eterogeneità degli elementi del dispositivo filmico si integrano, sotto il segno della spontaneità giocosa e dell’intuizione libertaria. Il culmine di questa investigazione riflessiva si trova probabilmente nei due film quasi contemporanei S.C.U.M. Manifesto, lettura di brani del manifesto antimaschile di Valerie Solanas messo in parallelo -in diretta- con gli avvenimenti del telegiornale; oltre a Maso et Miso vont en bateau e Le viol (sullo stupro), entrambi incentrati sulla rappresentazione mediatica e su una sana decostruzione della televisione.

Filmare al presente senza rinunciare allo spessore riflessivo: anche per questo, l’opera al contempo umile e magistrale di Carole Roussopoulos s’impone come un modello da scoprire e una sintesi unica di istanze spesso contrapposte, a livello formale, etico e politico. Grazie alla sua curiosità per gli esseri umani, per le questioni particolari e quotidiane come per le grandi questioni internazionali. Il femminismo come sguardo critico sul mondo, e come pratica mediatica in bilico tra cinema, video, televisione, controinformazione che porta sempre a reinventare i metodi di trasmissione, comunicazione e diffusione. Agli antipodi della cosiddetta “informazione”, Carole ci ha donato un insieme di opere fragili e compiute, che sono al contempo strumenti di intervento sul nostro presente.

Carole Roussopoulos. Caméra militante. Luttes de libération des années 1970 (MétisPresses)

Genet parle d’Angela Davis (1970, 7 min)
Le F.H.A.R. (Front Homosexuel d’Action Révolutionnaire) (1971, 26 min)
Monique (Lip I) (1973, 25 min)
Christiane et Monique (Lip V) (1976, 30 min)
S.C.U.M. Manifesto (1976, 27 min)
Maso et Miso vont en bateau (1976, 55 min)

Con testi di Nicole Brenez e Jean-Paul Fargier.