1. Tra le pagine del De humani corporis fabrica di Andreas Vesalius – e precisamente alla tavola 164, dedicata (come recita il nitido titoletto latino) alla raffigurazione laterale delle ossa in sé: «libere dalle altre parti che esse sostengono» – capita di incorrere in immagini che rivelano, di un’epoca e dei suoi umori, più di quanto non facciano trattati interi di ermeneutica storica. Nella fattispecie, la summenzionata tavola 164 presenta uno scheletro umano eretto e completo, visto per l’appunto di lato e nell’atto di contemplare un teschio. Quest’ultimo -che a differenza dello scheletro è chiaramente inanimato- appare riverso su un piedistallo corinzio. La scelta della tavola all’interno dell’opera è forse del tutto casuale. L’opera stessa, ai fini di questo saggio, è pressoché irrilevante. Immaginiamo però che non lo sia. Nella raffigurazione dell’anatomista seicentesco (si potrebbe dire) c’è tutta la contraddittoria energia di un secolo diviso, in bilico costante tra i furori astratti del nuovo spirito scientifico e le più viscerali pulsioni della Controriforma. Di queste antinomie la tavola di Vesalius tratteggia una sintesi nuda e precisa. Il capo reclinato contro il dorso della mano, le gambe incrociate, il braccio destro allungato a toccare il teschio: la figura dello scheletro in piedi possiede, a dispetto della sua apparenza funebre, un’innegabile umanità. Un’umanità scarnificata, sezionata, ma non per questo priva di una quasi paradossale dolcezza: l’immagine dello scheletro che pensosamente riflette sulla morte è al contempo concreta e spirituale: più che a un tetro memento mori, pare che rimandi alla ferma e consapevole dignità dell’uomo posto di fronte alla propria immagine più vera. «Vivitur ingenio, caetera mortis erunt», recita il pentametro dello pseudo-Virgilio riportato alla base della colonna. È qui che nella mente del lettore s’insinua il sospetto che forse, a dispetto della sua parvenza macabra, lo scheletro in piedi voglia dire qualcosa d’altro. Tre linee si dipanano. Le ossa nude sono la struttura portante dell’uomo, «liberata dalle altre cose che essa sostiene». La morte è l’ineludibile finitudine, allo stesso tempo affermata (il teschio) e negata (lo scheletro vivo, che riflette sul proprio destino). Il paradosso si chiude: mostrare ciò di cui non possiamo liberarci, per alludere a ciò che davvero rimane.

2. Voltiamo pagina, conservando negli occhi l’immagine del paradosso. Cosa rimane di Ken Russell, oggi, a meno di un anno dalla sua scomparsa? Istrionico, iconoclasta, viscerale e astratto allo stesso tempo: il cineasta britannico ha iscritto la propria esistenza intellettuale e umana lontano dalle strade maestre. Artista visionario in una cultura tradizionalmente ostile agli eccessi, Russell ha nondimeno speso la gran parte delle proprie energie professionali nell’alveo della BBC, dove si è costruito, negli anni, la fama di autore imprevedibile e controverso. Il suo canone – composto per la maggior parte di film biografici dedicati a grandi personalità dell’arte e della musica – anticipa e sviluppa i tropi di quello che oggi si chiama documentario di creazione, in un approccio spesso violentemente corrosivo verso immaginari culturali consolidati. Il contrasto tra la creazione artistica e le oppressioni della condizione umana, le contraddizioni di un Cattolicesimo sofferto e sensuale, la materialità disperata e irredimibile delle idee: questi temi attraversano il lavoro documentario di Russell per riversarsi poi in quello di finzione (se ancora ha senso reiterare distinzioni che la pratica e la critica del cinema hanno destituito di fondamento). Come è noto, questi tratti – unitamente a un temperamento decisamente poco incline alla pratica dell’understatement – gli sono valsi spesso l’ostilità delle istituzioni e delle élites intellettuali del Regno. Scorrendo le pagine sulle sue infinite polemiche, tuttavia, si ha come l’impressione che l’immagine pubblica di Russell abbia in qualche modo consumato la sostanza del suo lavoro, così come la parvenza macabra del nostro scheletro occulta in un primo tempo il messaggio più intimo della tavola di Vesalius. Gli ultimi anni in particolare restituiscono l’eco di una teatralità pubblica ostinata e perfino fatale: dall’incendio che nel 2006 ha distrutto il suo casolare seicentesco nel New Hampshire, fino all’ingresso nel Big Brother britannico nel 2007. Ora che la morte ha posto fine alla catena scintillante dei fatti, spetta alla critica iniziare a dipanare i fili del discorso. Torna quindi a merito del British Film Istitute l’aver pubblicato in edizione DVD The Devils, probabilmente l’opera più celebre del cineasta, nonché uno dei titoli più controversi della cinematografia britannica contemporanea.

3. Realizzato nel 1971, quando Russell attraversava un periodo di discreta fama commerciale, a seguito del successo ottenuto con The Music Lovers, The Devils ottenne il sostegno economico della Warner Brothers (il fatto, di per sé incredibile, che un film come questo sia stato prodotto col denaro di una major, basta a dimostrare come, anche nei suoi risvolti più spiccioli, la storia del cinema non sia mai del tutto priva di ironia). Il film adatta per il grande schermo un racconto di Huxley, già oggetto peraltro di una trasposizione teatrale di John Whiting (che Russell riconosce come fonte secondaria). Ancor prima dell’uscita in sala, le sequenze sadomasochistiche a sfondo religioso che innervano il film suscitano reazioni di violento rigetto. La pellicola subisce pesanti tagli, prima ad opera dello studio, poi dei censori britannici. In particolare, due intere sequenze – tra cui quella dello stupro della statua di Cristo, indicata dallo stesso Russell come fulcro simbolico dell’opera – cadono sotto i colpi della censura. Nonostante i tagli, il film viene bandito in buona parte del Regno e unanimemente bollato dalla critica come indecente e oltraggioso. Al di là dell’Atlantico, la pellicola subisce ulteriori rimaneggiamenti, fino a perdere quasi dieci minuti di materiale. A Venezia, dove The Devils figura in concorso, la Chiesa ottiene prima la sospensione della proiezione, poi -dopo la reazione infuriata del pubblico che assalta l’ufficio del Direttore Artistico – il film viene mostrato, fa scalpore e finisce col vincere il Leone d’Argento. In Italia, nondimeno, la distribuzione verrà vietata. A quanto mi consta, il divieto permane tuttora.

4. Se la pazienza del lettore mi concede un ulteriore indugio prima di entrare nel vivo dell’analisi, converrà dare almeno un cenno all’avventurosa storia editoriale che ha fatto seguito agli eventi della prima uscita in sala negli anni Settanta. A lungo, il metraggio relativo alle scene tagliate fu dato per perso; poi, nel 2002, il critico britannico Mark Kermode riuscì a recuperare le due sequenze rimosse e reintegrarle nel montaggio finale. La versione di Kermode fu quindi trasmessa il 25 novembre 2002 dal canale televisivo Channel 4, rinnovando ancora una volta le polemiche intorno al film. Solo quattro volte, dal 2002 a oggi, il montaggio integrale di The Devils è stato proiettato in Europa, l’ultima delle quali a Londra, nell’aprile 2011, in occasione dell’East End Side Festival. A seguito del ritrovamento di Kermode, diverse edizioni DVD sono apparse sul mercato, nessuna delle quali ritenuta di qualità soddisfacente. In questo contesto, la recente edizione del British Film Istitute ripropone la versione distribuita in sala nel Regno Unito, priva perciò delle sequenze reintegrate da Kermode. Dietro questa decisione pare ci siano restrizioni imposte dalla stessa Warner Brothers. Il cofanetto include tuttavia interviste e commenti di Russell, dell’epoca e recentissimi, nonché un documentario sulle vicende editoriali del film, realizzato dal 2004 dallo stesso Kermode e da Paul Joyce, il cui titolo – Hell on Earth: The Desecration & Resurrection of The Devils – è nel segno dei discorsi che circondano la travagliata pellicola.

5. Diamo in breve i lineamenti della trama. La fabula ruota intorno agli eventi storicamente accaduti nel 1634 nel paese di Loudon, nella regione francese di Poitou, e passati alle cronache come le possessioni di Loudon. Al centro della vicenda la macchinazione politica ordita ai danni del parroco locale, Urbain Grandier (Olivier Reed), libertino e libero pensatore. Ritenuto responsabile di commerci col Maligno e della conseguente possessione diabolica di un gruppo di suore, Grandier viene sottoposto dagli inquisitori a un processo farsa e condotto al rogo dopo atroci torture. Le possessioni, le diavolerie e gli esorcismi costituiscono in realtà la facciata dietro la quale si nascondono ben altri interessi. Principale oppositore di Grandier è il barone Laubardemont (Dudley Sutton), emissario del Richelieu, il cui progetto di centralizzare l’amministrazione del Regno si scontra con le riottose resistenze delle città del sud, tra le quali Loudon – difesa da una possente cinta muraria – spicca per posizione e prestigio. Il piano cardinalizio di privare la comunità delle sue mura e dei suoi privilegi municipali mal si concilia quindi con la strenua difesa del parroco, fautore della convivenza pacifica tra cattolici e ugonotti, appoggiato a sua volta dai magnati della città. Elemento chiave dell’intrigo è suor Jeanne (Vanessa Redgrave), le cui fantasie frustrate su Grandier sono all’origine di un odio perverso, abilmente manipolato da Laubardemont. Dopo le iniziali confessioni della donna al padre confessore del convento, Mignon, è l’intervento dell’inquisitore Barré a spingere la situazione verso il baratro. I metodi inumani del cacciatore di streghe finiscono per convincere Jeanne e l’intero convento a fingersi possedute per meglio sostenere le accuse contro Grandier. Antagonisti minori nel dramma sono Trincant – il magistrato locale, la cui figlia viene sedotta, ingravidata e abbandonata da Grandier in un antefatto iniziale – e due bizzarri lanzichenecchi della scienza, Adam e Mannoury, rispettivamente chimico e cerusico. Da ultimo, personaggio di un certo rilievo nell’economia simbolica della storia è Madeleine (Gemma Jones), amante e poi sposa di Grandier.

6. Su questo materiale narrativo, Russell orchestra tre movimenti. Il tema di fondo, il basso costante che li attraversa, è lo stesso: il contrasto tra materia e spirito, idealità e oppressione della carne. Un’antinomia che non a caso ricalca quella descritta più sopra a proposito di Vesalius: John Baxter, autore di un precoce volume sul cineasta, rileva in una nota la passione di Russell per l’anatomista seicentesco. In The Devils – al di là di alcuni rimandi testuali diretti – non è difficile in effetti ritrovare gli elementi di una sintonia singolare e profonda. In questo film ambientato nel cuore del secolo di ferro l’ispirazione dell’autore sembra puntare alla medesima sostanza culturale, allo stesso groviglio ideale che si agitava dietro la tavola descritta in apertura. Di qui, e fino al termine di questo scritto, proveremo a dipanare tre tracce: tre movimenti, come si è detto. La prima è quella della sarabanda, della diablerie, della danza grottesca. La seconda è quella dei grandi sistemi: religione e politica. La terza – la più disperata – quella dell’eroe esistenziale.

7. Dalla sua esperienza documentaria, Russell eredita una sorta di urgenza mostrativa: scettico di fronte ai fatti della Storia, il cineasta – che sceglie di guardare alla sostanza intima della sua materia – si ritrova comunque spinto a tradurla in immagini, a usare il cinema come un mezzo di coercizione morale. Non si tratta – non solamente, in ogni caso – di gusto per la provocazione. Épater le bourgeois, senz’altro: ma per destarla da un’apatia, un’armatura di indifferenza, come la definisce Russell, nei confronti della quale ogni reazione è positiva, ogni rivolta è giusta. In questo senso, probabilmente, vanno lette le continue polemiche intorno all’opera del cineasta. «My films are not always what they appear to be. Perhaps this is why they upset people, who also don’t quite know why they’re upset» (1). In The Devils, l’urgenza mostrativa di Russell segue due modalità ben definite. Messa di fronte al tema di fondo di questa storia, quel contrasto tra materia e spirito di cui si accenna appena più sopra, la regia oscilla continuamente tra due chiavi figurative. Da un lato, gran parte della pellicola si fonda sul registro stilistico della diablerie, della sciarada, della fantasia grottesca. La carnalità disperata di cui Russell investe la sua pellicola si risolve appena può in soluzioni di dirompente densità allegorica. «All my films – dichiara ancora l’autore – are choreography» (2). Di fronte a The Devils, l’impressione in effetti è quella di assistere a una danza macabra. Il film – dopo il prologo parigino – si apre sulla messinscena di un funerale cittadino, e si chiude si quella dell’autodafé di Grandier. Nel mezzo, a connettere i due momenti, il grande spettacolo della peste, l’orgia sacrilega delle suore, e, infine, la farsa del tribunale. Una logica ferrea di contrappunti e aperture liriche regge l’impianto coreografico nel suo insieme – se pure si può parlare di lirismo nello scenario da tregenda. In questa coreografia, in questa danza, come l’abbiamo chiamata, sarebbe sbagliato trovare i soli echi di un’ossessione distruttiva, di una cupio dissolvi eretto a principio d’ordine. No, nelle allegorie di Russell affiorano costantemente echi carnescialeschi, riflessi di un istinto vitalistico che in ogni campo si oppone all’avanzare della morte. Mentre Grandier guida la processione funebre nelle sequenze iniziali, le suore che lo spiano dalle segrete del convento commentano sulla sua avvenenza; più tardi, lo stesso Grandier si immerge nella città devastata dalla peste subito dopo essersi unito alla bella Philippe; l’orgia delle religiose è interrotta dall’arrivo di un gentiluomo di corte, che, con un trucco da due soldi, smaschera e si fa beffe della messinscena dell’inquisitore. Anche di fronte al rogo finale i cittadini di Loudon rumoreggiano, tifano, strillano e sguazzano in una cornice di schietto sapore rabelesiano. A raccogliere e incanalare il respiro allegorico del film pensano anche le scenografie, disegnate da Derek Jarman e abilmente disposte ad assecondare lo sviluppo della partitura. Si va dalla turrita architettura razionalista del primo rito funebre, nella quale risulta evidente l’ispirazione langhiana, allo squallore del convento in cui le suore sono sottoposte agli esorcismi, per il quale Russell dichiara di essere ricorso al mattone bianco standard degli studi Pinewood allo scopo di ricostruire l’anonima immagine di un bagno pubblico, così come è stata descritta da Huxley nel suo racconto. Il secondo registro stilistico a cui bisogna fare cenno è quello della fantasia onirica. Questa modalità figurativa emerge in un paio di istanze, soprattutto in relazione al personaggio di Jeanne. Le fantasie – spesso violentemente blasfeme, come quando la suora vagheggia un’unione carnale con un Grandier trasfigurato in figuram Christi – assolvono al compito di sovrapporre gli immaginari privati dei personaggi alla superficie storica del racconto. Si tratta, in altri termini, di allegorie soggettive, che momentaneamente prendono il posto di quella grande allegoria corale che per Russel ha valore di realtà.

8. Il secondo movimento riguarda lo scontro ideale tra i due grandi sistemi collettivi: la politica e la religione, quest’ultima intesa tanto come potere positivo quanto come ordinamento morale della civiltà. Meglio ancora: è lo scontro tra due opposte concezioni in ciascuno di questi sistemi che si tratteggia nello scenario del film. È a questo livello che la pellicola si intreccia da un lato con il vissuto di Russell, cattolico convertito e in costante travaglio spirituale, e dall’altro con quel groviglio di tensioni controriformiste e guerre di religione che attraversa il contesto storico della trama, e a cui già più volte abbiamo accennato. In questo quadro, The Devils traccia chiaramente una duplice opposizione.

9. Intorno alla politica, troviamo da una parte (la parte in cui agiscono Richelieu, Barré e Laubardemont) un potere ridotto a espressione strumentale della propria stessa volontà di dominio. Un potere di burattinai e burattini (il Re, Richelieu, Lauberdemont), interscambiabili nei ruoli e vittime della propria stessa razionalità: il desiderio di centralizzare l’amministrazione francese finisce con l’assumere i caratteri di una coazione cieca, di una macchina che non tollera le differenze (come quelle tra ugonotti e cattolici) e – da ultimo – sa affermare la propria potenza soprattutto come dispositivo di morte. Siamo insomma di fronte a un ordito ideologico in cui sarebbe facile rintracciare i portati della cultura europea del decennio, da Foucault alle critiche marcusiane sulla razionalità positiva. In questa sede italiana e cinefila mi sembra tuttavia più interessante suggerire una linea diversa, che unisca l’autonomia del politico proposta dal Machiavelli alle riflessioni di Kracauer sull’ornamento di massa. In altri termini, mi pare che al cuore della questione qui non sia tanto la costruzione sociale del dominio, quanto l’ambivalenza di una ragione politica sottratta alle sfere della filosofia morale e alle leggi naturali che governano la vita dell’uomo. È su questo terreno, per così dire, che la modalità estetica della coreografia si sostanzia in termini critici. In Kracauer l’ornamento di massa si mostra (e si mostra soprattutto al cinema) nella sua natura ancipite: superamento di un medioevo organicista e feudale, ma non ancora trionfo della nuova ragione illuminista, e anzi in procinto di ricadere verso nuove barbarie. Così, in Russell, la messinscena del potere appare divisa tra un consapevole disdegno per le superstizioni di cui pure si serve e l’incapacità di distaccarsene. Il nuovo potere si serve dell’inquisizione e delle finte possessioni per portare a termine i suoi disegni, ma nel farlo rinuncia alla propria emancipazione, e finisce col ricadere anch’esso in una farsa. Il sacrificio di Grandier – la cui lucidità politica persiste fino all’ultimo, tanto che lo vediamo spronare la folla irridente quando già le fiamme gli consumano la pelle, trascinando con sé anche Lauberdemont, che pure sembra vincitore. Entrambi in realtà soccombono all’ornamento, alla messinscena della massa e alla sua barbarie. Non a caso, il film si era aperto, nel prologo, sull’indecente spettacolo del Re nudo: una grottesca messinscena della nascita di Venere, al termine della quale Richelieu auspica la nascita di un nuovo Stato, in cui potere laico ed ecclesiastico siano una cosa sola. Il Cardinale -è fin troppo evidente- spera di volgere l’equazione a suo vantaggio, manipolando il lezioso sovrano: alla fine del film resta il dubbio che l’ornamento di massa, la sciarada, abbia preso il sopravvento, spogliando la razionalità moderna di questi Machiavelli e riducendola a un mero dispositivo di repressione.

10. Intorno alla religione, The Devils articola quella che a dispetto delle apparenze è una appassionata dichiarazione di fede. Beninteso: un conto è la fede, un conto è l’ortodossia; ma del resto, per Russell il rigore – storico o teologico che sia – non corrisponde necessariamente alla verità. Anche in questo caso, come per la politica, due campi si fronteggiano. Da un lato, il fanatismo persecutorio dell’Inquisizione, la cui sorgente, prima che dogmatica, coincide con la separazione dell’uomo dalla sua esistenza naturale. Dall’altro, Grandier e Madeleine, che faticosamente percorrono la strada a ritroso verso una ritrovata purezza. Il paradigma, a ben vedere, è lo stesso che abbiamo analizzato al punto precedente. Nel tentativo di liberarsi da una supposta barbarie, la pratica positiva della religione finisce con il costruire un sistema di repressione, la cui artificialità coatta sfocia in una rinnovata deformità: morale e fisica, come nel caso di Jeanne. Le fantasie erotiche e sacrileghe di quest’ultima non fanno che indicare con esasperata violenza la sorgente del male: l’innaturale rifiuto dei sensi come via per la trascendenza. Un rifiuto che – non a caso – finisce per liberare il campo alle più perverse compensazioni, allucinatorie e non. L’impietosa disamina corporale a cui è sottoposta la povera suora fa perciò il paio con gli eccessi orgiastici delle religiose finalmente liberate (e liberate, si badi, dal potere) dalle pastoie della clausura. Grandier, dal canto suo, compie un percorso inverso. Il suo rifiuto di aiutare Philippe all’inizio della storia va letto come un’iniziale ammissione di sconfitta, più che come un gesto canagliesco. Nella perfetta armonia dei corpi il libertino cerca una via alla trascendenza: una possibilità che la gravidanza della ragazza gli nega, ponendolo di fronte all’impossibilità sociale, lui prete, di riconoscere il nascituro. Il percorso intellettuale del personaggio però prosegue, prima attraverso la contestazione intellettuale del celibato ecclesiastico, poi nel legame d’amore che egli stringe con Madeleine, e, infine, nel matrimonio auto-celebrato, con il quale Grandier offre la propria passione di uomo a Dio, in un gesto finale di riconciliazione finale tra quelli che un poeta genovese avrebbe definito amore sacro ed amor profano. Anche in questo sviluppo, si noti, The Devils si attiene a un rigido contrappunto. Lo sposalizio auto-celebrato della coppia coincide con l’auto-flagellazione e il conseguente orgasmo di Jeanne, in un’evidente contrapposizione tra i due campi che qui si descrivono. In seguito, una stessa sequenza ospita il compimento del percorso di Grandier, che, in ritorno da Parigi, celebra i sacri misteri nella solitudine naturale di un rivo, in una scena di delicato raccoglimento, e il nadir dell’orgia al convento, con quelle cruciali immagini dello stupro della statua di Cristo rimosse da tutte le successive versioni del film. Come a dire che il percorso di Grandier, la sua sofferta riconciliazione, è e rimane una strada interrotta e non percorsa dalla Chiesa. Il Cattolicesimo sensuale, intellettuale e contraddittorio del personaggio cede a un dogmatismo vano e in nuce già sterile. All’inquisitore che lo istiga a confessare le sue colpe, Grandier risponde: «I have been a man. I have loved women. I have enjoyed power».

11. Consideriamo infine quello che ho chiamato il movimento dell’eroe esistenziale. Da quanto detto finora, non sarà difficile scorgere nel protagonista i tratti di un’umanità tragica, dolorosamente presente alla propria condizione esistenziale quanto interprete lucida e isolata della realtà. Gesuita e libertino, religioso e civile, Grandier è immagine di un paradigma che non esiteremmo a definire umanista, nonché unico interprete dell’istanza razionale di cui si discorreva più sopra. Il tema, consueto in Russell, della tensione tra gli slanci ideali e la materialità disperata dell’uomo intravede qui una risposta: ed è un evento raro. Non a caso, prima di lasciarsi radere il capo e presentarsi di fronte agli inquisitori per l’estrema sentenza, Grandier domanda uno specchio. E Lauberdemont – in un gesto che si vorrebbe forse di scherno, ma che finisce per essere quasi un tacito riconoscimento – glielo concede. E Grandier scruta l’immagine e il senso della propria esistenza, ciò che rimane di un uomo prima che le torture e le fiamme lo cancellino. Ma la macchina da presa ci nega il riflesso, e a noi non resta che assistere, impotenti e disgustati, all’ordalia. Vivitur ingenio, caetera mortis erunt.


I diavoli (The Devils), regia di Ken Russell, Gran Bretagna 1971, 107’ (BFI).
NOTE

(1) John Baxter, An Appalling Talent: Ken Russell (London: Michael Joseph Ltd, 1973), p. 192.
(2) Baxter, p. 190.