Un estratto dall'opera più celebre di Sarris, The American Cinema. Tentativo unico e probabilmente irripetibile di sistematizzare la produzione autoriale in suolo americano fino al 1968 (anno di pubblicazione del libro), componendo un canone di riferimento. Nel “Pantheon” figurano 14 registi, da Ford a Welles, da Chaplin a Flaherty, da Lubitsch a Keaton, ma ne sono esclusi Frank Capra, Nicholas Ray, Douglas Sirk e, soprattutto, Billy Wilder, che finisce nel calderone di quelli che “sembrano più di quello che sono”, insieme a Huston, Kazan, Mankiewicz e Zinneman. Estremamente lucido, acuto e in grado di riassumere in poche righe lo stile di un regista – così come di liquidarlo (si veda il caso di Negulesco) –, Sarris è stato il critico di riferimento per più di una generazione, scavando un solco tra i propri accoliti e i seguaci di Pauline Kael e partecipando di una dicotomia senza pari nella storia della critica cinematografica. Perentori come epitaffi, i giudizi espressi in The American Cinema restano a tutt'oggi la massima espressione della teoria degli autori applicata al cinema americano. (AS)

 

 
HOWARD HAWKS
 
L'eroe di Hawks agisce con eccezionale coerenza in un mondo prevalentemente maschile. Se gli eroi di Ford sono sorretti dalla Tradizione, quelli di Hawks lo sono da un'istintiva professionalità. Persino durante la Grande Depressione, i suoi personaggi sono sempre vantaggiosamente impiegati. L'idea che il valore di un uomo venga misurato dal proprio lavoro, piuttosto che dall'abilità comunicativa con le donne, è la chiave interpretativa della mascolinità hawksiana, così come l'opposto lo è della femminilità nel cinema di Antonioni. […] Nel corso della propria carriera Hawks si è adeguato ai cambiamenti tecnologici senza mai tracciare un sentiero percorribile da altri. È arrivato tardi al film sonoro, dopo che Vidor, Lubitsch, von Sternberg e Mamoulian ne avevano esplorato le potenzialità, estremamente tardi al colore e, nonostante l'onorevole prova di La regina delle piramidi, sembra che il mondo del Cinemascope non l'abbia mai incantato. La sua tecnica è al servizio della personalità e del materiale con il quale ha scelto di lavorare. Le sue sceneggiature enfatizzano invariabilmente l'azione all'interno di in un breve lasso di tempo e non si abbandonano a manierismi decorativi. Quando si è confrontato con soggetti a sfondo epico, come in Fiume rosso e La regina delle piramidi, ha diviso la storia in due brevi segmenti temporali, separati grosso modo da una decade. Non ha mai utilizzato un flashback e, anche negli anni '30, ha fatto ricorso solo raramente al montaggio degenerativo del time lapse. Le sue inquadrature, i suoi movimenti e i suoi stacchi non hanno mai attirato grande attenzione, e ciò non è una virtù come potrebbe sembrare. I critici convinti che la tecnica non debba richiamare attenzione su di sé solitamente sono quelli che prestano poca attenzione alla tecnica. Se Hawks ha scelto di non servirsi della tecnica come commento riflessivo sull'azione è perché la sua personalità esprime un'intelligenza pragmatica piuttosto che una saggezza filosofica.
Hawks possiede l'insolita capacità di stabilire il tono del film dalla prima scena per controllarlo fino alla fine. Le atmosfere nebbiose delle aperture di La costa dei barbari, Le vie della gloria e Avventurieri dell'aria sono impregnate di una magia unicamente hawksiana. Le sequenze iniziali di Un dollaro d'onore, prive di dialoghi, presentano da subito tutte le istanze morali del film. […] È tipico del regista rinunciare alla drammatizzazione e alla verbalizzazione dei sentimenti impliciti nell'azione. 
Consapevolmente, Hawks gira quasi tutte le sue scene ad altezza di sguardo. Di conseguenza, anche i suoi film più spettacolari sono avvolti di un'intimità umana che il regista non disturba con movimenti pretenziosi. Hawks lavora all'interno dell'inquadratura il più a lungo possibile, staccando solo quando una ripresa lunga o un carrello elaborato potrebbero distrarre lo spettatore dalla centralità dell'azione. È un buon cinema pulito, diretto e funzionale, forse il cinema più caratteristicamente americano di tutti.
 
 
ALFRED HITCHCOCK
 
Alfred Hitchcock è il massimo tecnico del cinema americano. Nemmeno i suoi detrattori possono mettere in discussione tale asserzione. Come Ford, Hitchcock monta il film nella propria testa e non in sala di montaggio, con cinque diverse varianti a disposizione. Il suo è l'unico stile contemporaneo in grado di coniugare le opposte tradizioni classiche legate a Murnau (i movimenti di macchina) e Eisenstein (il montaggio) (Welles, ad esempio, deve più a Murnau, mentre Resnais è più vicino a Eisenstein). Nonostante ciò, sulle pagine dei periodici anglofoni apparentemente votati all'arte del cinema, Hitchcock è stato raramente degnato dell'analisi visuale che meriterebbe. Pagine e pagine sono state spese sui carrelli sincroni de L'anno scorso a Marienbad di Resnais, mentre il più sottile diminuendo dei carrelli incrociati nel rifacimento americano de L'uomo che sapeva troppo è passato sotto silenzio. Truffaut, Chabrol e Resnais rendono omaggio a Hitchcock, ma gli ammiratori anglofoni di Truffaut, Chabrol e Resnais continueranno a considerarlo un'aberrazione continentale. Al “maestro della suspense” non si rende onore in casa propria. 
La sua reputazione ha sofferto principalmente per il fatto di aver dato al pubblico più piacere di quanto è permesso fare a un cinema “serio”. Agli occhi degli intellettuali puritani, nessuno può apparire profondo e divertire così tanto allo stesso tempo. Non è stato forse Santayana a osservare che la comprensione totale annienta il piacere? L'arte di Hitchcock continuerà sempre a divertire lo specialista perché è resa in gran parte con aria casuale. Il ferro è rivestito di velluto, l'ironia di semplicità, una semplicità che lavora su così tanti livelli da ottenere un effetto vertiginosamente complesso. 
[…] Le ripetute intrusioni nella vita quotidiana per mezzo degli strumenti melodrammatici più esagerati ha scosso alla base le fondamenta del facile umanesimo secondo il quale la gente è buona e il Sistema cattivo, come se questo non fosse una risultante dell'esperienza umana. Gran parte dello humour malefico, perverso e anti-umanistico che sta furoreggiando nell'America odierna non è che l'inevitabile reazione al nauseante sentimentalismo proprio del totalitarismo mascherato da umanesimo che tutto abbraccia. Hitchcock non è mai stato accettato in quanto parte di tale malattia alla moda, e ciò va a suo merito. Insiste, in maniera quasi intollerabile, a favore di una regolamentazione morale sia per i suoi personaggi che per i suoi spettatori. Possiamo violare i Dieci Comandamenti a nostro rischio e pericolo, ma alla fine dobbiamo pagare il prezzo della colpevolezza. Hitchcock può essere ambiguo, ma non è mai disonesto. 
 
JOHN HUSTON
 
Il compianto James Agee ha canonizzato prematuramente Huston sulle pagine di Life in occasione de Il tesoro della Sierra Madre. Agee si sbagliava su Huston così come Bazin si sbagliava su Wyler, ma Huston sta ancora cavalcando l'onda della reputazione di un individualista in torto con un alibi pronto per ogni brutto film. Se non è Jack Warner e L. B. Mayer, se non è Mayer è David O. Selznick, e se non è nessuno di loro allora è il Sistema, marcio e corrotto, dell'Industria Cinematografica. Ma chi se non Huston è da criticare per la banalità middle-brow di Freud, un progetto personale pieno di compromessi ad hoc per il pubblico di massa? Huston ha confuso l'indifferenza con l'integrità per così tanto tempo da non esser più nemmeno l'artigiano competente di Giungla d'asfalto, Il mistero del falco e La regina d'Africa, film che devono più ad azzeccate scelte di cast che all'acume registico. […] Anche nei suoi giorni migliori, Huston ha messo in scena il suo materiale senza proiettarvi la propria personalità. La sua tecnica è sempre stata evasiva, la sua macchina da presa piazzata ad altezzosa distanza dal centro dell'azione. Ma nonostante lo sconfortante declino, il tema al centro del suo cinema è stato sempre evidente, da Il mistero del falco a Riflessi in un occhio d'oro. I suoi protagonisti falliscono quasi invariabilmente nel compito che si sono prefissi, in genere per colpe o mancanze non imputabili a loro stessi. Sfortunatamente, Huston non è tanto un pessimista quanto un disfattista, e i suoi personaggi si sforzano di essere sfortunati senza che il mondo intorno sia particolarmente insolente nei loro confronti. Il suo miglior film, Giungla d'asfalto, concerne la sconfitta collettiva e il suo cast rappresenta una galleria interessante di interpreti di talento che non hanno mai ottenuto l'adeguato riconoscimento: Sterling Hayden, il gigante sensibile che non ha mai raggiunto la fascia dei Wayne, Heston, Mitchum; James Whitmore, che non è mai diventato il secondo Spencer Tracy; Jean Hagen, cui non sono mai stati offerti i ruoli drammatici che il suo talento avrebbe meritato; Sam Jaffe, che non ha mai vinto un Oscar; Louis Calhern, che non ha mai avuto l'occasione di interpretare Lear benché fosse più che adatto per la tragedia; e Marc Lawrence, che non ha mai trovato il proprio posto in mezzo ai cattivi buoni per tutte le occasioni. Solo Marilyn Monroe è stata baciata dalla fortuna dopo Giungla d'asfalto, e Huston l'ha quasi distrutta con la cattiveria gratuita de Gli spostati.
 
 
BUSTER KEATON
 
Il fatto che Buster Keaton abbia raggiunto una certa rilevanza critica prima della sua morte è dovuta in gran parte agli instancabili sforzi di cultori che scrivevano su piccole riviste. Quella che il compianto James Agee ha definito “L'epoca d'oro della Commedia” (e del Silenzio) è stata distillata nelle essenze preziose di Chaplin e Keaton, anzi Keaton e Chaplin (al contrario, l'ispirazione intermittente di Lloyd, Langdon, Arbuckle, Sennett, Laurel & Hardy sembra alquanto monodimensionale). La differenza tra Keaton e Chaplin è la differenza tra la poesia e la prosa, tra l'aristocratico e il vagabondo, tra l'adattabilità e la dislocazione, tra la funzione delle cose e il loro significato, tra l'eccentricità e il misticismo, tra l'uomo come macchina e l'uomo come angelo, tra la donna come convenzione e la donna come ideale, tra la tendenza centripeta e quella centrifuga dello slapstick. Keaton è ormai riconosciuto come il regista supremo e l'inventore di forme. C'è chi si spinge perfino a considerare quello di Keaton cinema puro in opposizione a quello di Chaplin, essenzialmente teatrale. La tradizione cerebrale della commedia keatoniana è stata portata avanti da Clair e Tati, ma Keaton attore, così come Chaplin attore, ha dimostrato di essere inimitabile. In definitiva, Keaton e Chaplin hanno trovato reciproco complemento in quel momento indimenticabilmente fantasmatico di Luci della ribalta, allorché condividono lo stesso misero camerino e si apprestano a fronteggiare il loro pubblico perduto. 
 
JEAN NEGULESCO
 
La carriera di Negulesco può essere suddivisa in due periodi, etichettati P.C. (Prima del Cinemascope) e D.C. (Dopo il Cinemascope). La maschera di Dimitrios, Perdutamente, L'idolo cinese, Disperato d'amore, I quattro rivali e Johnny Belinda vengono tutti Prima del Cinemascope e sono realizzati in maniera competente, in alcuni casi persino memorabile. Tutto ciò che viene Dopo il Cinemascope è completamente privo di valore. Negulesco rappresenta il caso più drammatico di incapacità d'adattamento ai cambiamenti degli anni '50.
 
NICHOLAS RAY
 
Nicholas Ray è stato la cause célebre della teoria degli autori per così tanto tempo che i critici, contro e a favore, hanno perso ogni senso delle proporzioni riguardo la sua carriera. Ray non è il più grande regista di tutti i tempi né un mero esecutore hollywoodiano. La verità sta da qualche parte nel mezzo. Bisogna ricordare che Disperazione, Gioventù bruciata, Il temerario e Dietro lo specchio sono film socialmente consapevoli e che la consapevolezza di I bassifondi di San Francisco è particolarmente scadente, al livello di un Kramer o un Cayatte. La sua forma non è sempre impeccabile e il contenuto ha riguardato spesso importanti temi sociali. Ma Ray ha sempre messo in mostra un eccitante stile visivo. Se si paragonano Disperazione e Giungla d'asfalto di Huston – due film molto simili quanto a tema, trama e atmosfera – ci si renderà canto che laddove Ray tende a staccare tra movimenti fisici, Huston tende a farlo tra composizioni statiche. Lo stile di Ray è più cinetico, quello di Huston più plastico: è la differenza tra la danza e la scultura. Se la regia nervosa di Ray non avesse una rilevanza tematica sarebbe davvero un regista minore. Ma, fortunatamente, Ray un tema ce l'ha, e pure importante: ovvero che ogni relazione stabilisce il proprio codice morale e che non esiste alcuna morale astratta. Una concezione espressa chiaramente in Gioventù bruciata, quando James Dean e i suoi compagni adolescenti si abbandonano sulle sedie del Planetario e accettano passivamente l'idea che l'intero universo sia in moto senza alcuna struttura di riferimento. Anche se la carriera di Ray è costellata di frustrazioni, nessuno dei suoi film è totalmente privo di sprazzi di ispirazione.
 
 
GEORGE STEVENS
 
Prima di Un posto al sole, George Stevens era un regista minore dotato di virtù maggiori, dopo è diventato un regista maggiore dotato di virtù minori. Il suo sentimentalismo istintivo è sempre stato intelligentemente contenuto e sfumato con cura. Ha fatto gavetta con i due rulli di Laurel & Hardy, imparando la tecnica del crescendo lento. E davvero la sua regia comica è oziosa, la più lenta del settore. I finali farseschi di Una donna vivace, La donna del giorno, Un evaso ha bussato alla porta e Molta brigata, vita beata oggi sembrano interminabili, nonostante lo charme degli attori impiegati. All'opposto, l'interpretazione incandescente di Katherine Hepburn in Primo amore è tuttora il miglior tributo alla regia a fuoco lento di Stevens. Inoltre: Follie d'inverno è il miglior musical di Ginger Rogers e Fred Astaire, Gunga Din il più divertente tra i film per ragazzi tratti da Kipling, Ho sognato un angelo il più onesto tra i drammi strappalacrime sui bambini adottati, e Mamma ti ricordo! la più trattenuta delle saghe familiari sull'immigrazione.
Alla lunga, i suoi film più piccoli sono invecchiati meglio di quelli grandi. La tecnica impiegata nella “Trilogia del Sogno Americano” di Stevens (Un posto al sole, Il cavaliere della valle solitaria e Il gigante) un tempo sembrava valida, ma oggi pare solo affettata. Il particolare Il cavaliere della valle solitaria risulta essere eccessivamente carico in termini di materiale e lavoro sul genere, specie in relazione alla spontaneità di Hawks e Ford. Stevens si è servito delle potenzialità emotive insite nell'uso drammatico della dissolvenza lenta più di qualunque altro regista americano, ma si tratta di qualcosa che associamo più al cinema degli anni '30 che a quello degli anni '50. Se il classicismo concentrico dell'inquadratura di Stevens un tempo sembrava rappresentare lo stile ufficiale delle epiche nazionali, con Il diario di Anna Frank e La più grande storia mai raccontata ha finito per diventare bolso e vecchia maniera. Il problema di Stevens, e di molti altri suoi colleghi, è che il suo talento è stato condotto al limite dai progetti grandiosi degli anni '50, fino a rimanerne schiacciato. I suoi giorni migliori sono stati quelli degli anni '30 e '40, quando un film era solo un film e ogni cura ulteriore nella messa in scena era visibilmente personale.
 
JOHN STURGES
 
Parecchio tempo prima de I magnifici sette, John Sturges sembrava sforzarsi, per quanto inconsciamente, di diventare il Kurosawa americano, tormentato, privo di humour e socialmente consapevole. Pensateci: c'è molta differenza tra la crociata a colpi di karate di Spencer Tracy in Giorno maledetto e i duelli alla spada di Toshiro Mifune in La sfida del samurai? Il vantaggio di Kurosawa riguarda il fatto che la sua personalità è più in sintonia con la violenza e la misantropia. Sfortunatamente, è difficile ricordare perché mai, a un certo punto, Sturges sia stato considerato un regista significativo. Quanto era ingenuo, ad esempio, pensare che Sturges avesse risolto i problemi legati all'uso del Cinemascope per mezzo dei raggruppamenti allegorici di Giorno maledetto? Persino all'epoca di La strada del mistero, Omertà e L'assedio delle sette frecce la reputazione acquisita di tecnico esperto pareva incomprensibile. Laddove Daves attira l'attenzione per mezzo di dolly degradanti, Kubrick con i suoi carrelli privi di significato e Wise con il suo montaggio da perforatrici IBM, il marchio di fabbrica di Sturges, buono per un'analisi visuale superficiale, è la panoramica sprecata. Il fatto che La grande fuga abbia riscosso molto più successo di La carovana dell'Hallelujah indica non solo che Steve McQueen è una personalità molto più persuasiva di Burt Lancaster, ma anche che Sturges dovrebbe lavorare esclusivamente nel campo del film d'azione serio, se non addirittura solenne. 
 
 
RAOUL WALSH
 
Se gli eroi di Ford sono sorretti dalla Tradizione e quelli di Hawks dalla professionalità, gli eroi di Walsh sono spinti solo dal desiderio di avventura. L'eroe di Ford sa perché sta facendo qualcosa anche se non sa come farlo. L'eroe di Hawks sa come fare quello che sta facendo anche se non sa perché lo fa. All'eroe di Walsh non interessano tanto il “come” e il “perché” quanto il “cosa”. Si lancia sempre verso ciò che non conosce e non ha idea di cosa troverà. Nei suoi personaggi c'è un pathos e una vulnerabilità che manca nelle controparti più autosufficienti di Ford e Hawks. Laddove Ford passa dall'immediatezza del punto di vista di un eroe vagamente depresso al più vasto orizzonte della Storia e Hawks si mantiene sempre ad altezza di sguardo, Walsh innalza sovente il proprio angolo di visuale per dare l'idea del “bambino sperduto nel vasto mondo”. In questo senso, una delle inquadrature più stupefacenti è presente in Le avventure del capitano Hornblower, quando la macchina da presa indietreggia e si solleva lentamente per presentarci l'immagine solitaria di Gregory Peck, ridicolmente galante nel suo costume d'epoca e tuttavia ridotto a figlio perduto di sua madre. Il recensore di Time ha giustamente notato, a proposito di La furia umana, che Walsh era l'unico regista di Hollywood in grado di farla franca mostrando James Cagney seduto in grembo alla madre. Qui è all'opera il principio del contrappunto: solo i registi più virili sono in grado di proiettare efficacemente tratti di vulnerabilità femminile nei loro personaggi. Solo un attore come Bogart poteva tenere il corpo senza vita di Ava Gardner tra le braccia e chiedersi perché non fosse in grado di ricordare il nome spagnolo di Cenerentola. 
 
WILLIAM WELLMAN
 
Nel caso di Wellman, la rudezza viene troppo spesso scambiata per sincerità. Ciò che va discusso non è tanto l'ampio numero di brutti film che ha realizzato quanto la sostanziale carenza registica in quelli buoni. […] Come Wyler, Huston e Zinneman, Wellman è un regista “recessivo”: in assenza di un forte punto di vista, le sue immagini tendono a recedere dal fronte dell'inquadratura verso lo sfondo. […] Un regista hollywoodiano non può essere accusato di lavorare con set fasulli, ma si può mettere in discussione la sua tecnica qualora ne enfatizzi l'artificiosità. Nel caso di Wellman, e di tanti altri registi, l'oggettività è l'ultimo rifugio della mediocrità.  
 
(estratti da The American Cinema, 1968. Traduzione di Alessandro Stellino)