Nicola Ciraulo (Toni Servillo) rovista fra i rottami. Li trafuga dalle navi in disarmo nel porto di Palermo per poi rivenderli, e con questa occupazione alquanto sui generis  mantiene una moglie, due figli e i propri genitori. Ma la tragedia incombe: travolti dalle disgrazie familiari e dalle manie di grandezza del capofamiglia, i Ciraulo, novelli Malavoglia, finiranno per dissolversi.
 
Purtroppo, i pregi di È stato il figlio si fermano qui, o quasi. Il primo assolo cinematografico di Daniele Ciprì soffre infatti di una sorta di indecisione: da un lato il regista sembra volersi portare dietro, a mo' di antologia personale, le tracce di un percorso artistico lungo ormai un quarto di secolo; dall'altro, marcarne una rottura, una presa di distanza. In questo modo, tuttavia, il film perde mordente, si affloscia nel dejà vu e, cosa ben più grave, inciampa malamente nei vizi e nei vezzi del famigerato cinema medio d'autore (distribuisce Fandango). La sceneggiatura tradizionale (scritta con Massimo Gaudioso) non sembra adatta al temperamento del cineasta palermitano, che infatti arranca nella prima mezz'ora fra note d'ambiente  tirate assai per le lunghe (il porto, il cortile, la spiaggia), pallidi tentativi di dare una nuova forma, più borghese e digeribile, alla propria poetica cinica. Quanto alla trovata di creare una cornice attorno alla vicenda principale, con la narrazione del personaggio di Busu (Alfredo Castro), si esaurisce ben presto nella più banale e abusata delle convenzioni narrative del cinema di casa nostra: la voice over che ribadisce e spiega quello che le immagini dicono (o dovrebbero dire) da sole. Un espediente che proprio Ciprì in coppia con Maresco aveva parodiato ferocemente e in modo assai efficace ne Il ritorno di Cagliostro (2003).  
 
Dell'esperienza con Franco Maresco rimangono tracce qua e là: i volti di Mauro Spitaleri (l'avvocato), Giacomo Civiletti (Giacalone) e Gino Carista (il prete); il vecchio  nel cortile, che richiama alla memoria il leggendario Marcello Miranda; le ciminiere e gli angoscianti quartieri-alveare della periferia palermitana. Si tratta tuttavia, nel migliore dei casi, di strizzate d'occhio; altrove, invece, denotano piuttosto una mancanza d'idee (Spitaleri che si gratta la forfora come Romolo Valli nel monicelliano Un borghese piccolo piccolo, il numero danzante sulla nave, ripreso dai film di Roberta Torre). Per la verità, ciò che colpisce di più (e fa dispiacere), a livello estetico, è l'assoluta omologazione di Ciprì al cosiddetto Procacci Style: svolazzi virtuosistici e inutili della macchina da presa, fotografia accuratamente seppiata con brutti effetti digitali (che fine ha fatto il cinematographer di Vincere?), istrionismi attoriali a tutto vapore. Questo bric-à-brac finisce per mettere in ombra i pochi momenti realmente efficaci del film, soprattutto nella parte centrale del racconto. I guasti della burocrazia, la rapacità degli strozzini, le ambizioni meschine dei personaggi: per quanto non nuove, le situazioni sono descritte con la giusta sagacia comica, memore della lezione dei Monicelli, dei Risi e – perché no? – dei Petri. Ma si tratta di scintille, appunto, che finiscono per essere ingoiate dal grigiore di tutto il resto.
 
Sia ben chiaro: è inutile, oltreché ingiusto, attaccare un regista perché ha deciso di cambiare radicalmente il proprio modo di fare cinema, chiedendogli magari, in nome di una malintesa idea di coerenza, di proseguire lungo una strada che evidentemente non sente più sua. Il problema è un altro, e cioè, al di là delle autocitazioni e delle banalità stilistiche, che cosa voglia dire Ciprì con È stato il figlio: un apologo amarissimo sui figli regolarmente costretti a pagare le colpe dei padri? La descrizione di un'Italia preda della miseria morale prima ancora che materiale? Il risultato finale finisce per essere un miscuglio irrisolto di bozzetti meridionalisti e cattivo melodramma. Ancora rottami, insomma. Rottami di buoni propositi. 
 
È stato il figlio, regia di Daniele Ciprì, Italia/Francia, 2012, 91'.