Al tempo in cui i produttori erano divinità hollywoodiane, un giornalista pose una domanda a Sam Goldwyn che cominciava così: “Quando William Wyler ha fatto Cime tempestose…”. Non ebbe modo di completarla. “Io ho fatto Cime tempestose” sentenziò Goldwyn, “Wyler l'ha solo diretto”. Goldwyn non faceva altro che applicare la regola aurea alla questione dell'autorialità nel momento in cui ridimensionava l'apporto artistico del suo impiegato. Oggi, al contrario, ci si lamenta del fatto che troppa attenzione venga data al contributo del regista. Le nuove generazioni di critici dedicano pagine e pagine ai nuovi Wyler e appena qualche nota a piè di pagina ai Goldwyn. Dal momento che i produttori e gli altri satrapi degli Studio hanno sempre fatto la parte del leone, in pochi piangono la loro caduta in disgrazia.

Ma che dire degli altri artisti e artigiani all'opera? Si dovrebbe elogiare Wyler per Cime tempestose dimenticando Emily Brontë che ne ha scritto il testo di partenza, gli sceneggiatori Ben Hecht e Charles MacArthur, il compositore Alfred Newman, il direttore della fotografia Gregg Toland, il montatore Daniel Mandel e gli interpreti Laurence Olivier, Merle Oberon, Flora Robson, Geraldine Fitzgerald, Donald Crisp e David Niven?
 
Ma chi è l'autore del film se non il regista? In realtà la risposta a questa domanda è meno importante del fatto che venga posta. Fino a poco tempo fa era reputato sconveniente creare culti della personalità dedicati a coloro che stanno dietro la macchina da presa. Le fabbriche dei sogni di Hollywood avevano tutto l'interesse a convincere il pubblico della spontaneità delle illusioni viste sullo schermo, e molti recensori stavano al gioco delle compagnie trattando i film come prodotti corporativi piuttosto che affermazioni personali, per quanto marginali. Dopo una sola stagione, i film sparivano dalla circolazione come se non fossero mai esistiti, rendendo molto difficile comprendere i progressi di un regista da un anno all'altro.
Inoltre, alcuni recensori soffrivano di attacchi di amnesia così acuti che gli Studio erano capaci di usare lo stesso plot due volte in quattro anni senza che nessuno se ne accorgesse (il comportamento della Warner in questo senso era talmente noto che il suo dipartimento sceneggiature era chiamato anche “la stanza dell'eco”). Se i recensori erano incapaci di ricordare le trame da un anno all'altro, era ancora più improbabile che fossero in grado di cogliere tracce di stile visivo tra i film e dare loro rilevanza.
 
 
A rendere le cose ancora più difficili, gran parte degli studi accademici sul cinema venivano scritti da un punto di vista sociologico predominante, e nessun regista con un conto in banca sfuggiva le accuse di compromesso, commercialità e corruzione. Le eccezioni occasionali a tale decadenza erano lontane nel tempo e nello spazio, parte di un repertorio che andava “da Caligari a Potëmkin” buono per tutti coloro che non guardavano più di una dozzina di film a decennio. Un altro tipo di intellettuale preferiva considerare i film come materiale troppo grezzo per la sua raffinata sensibilità. E oggi, le pose modaiole a favore del pop e del camp hanno preso il posto del kitsch come interpretazioni buone per tutti gli intellettuali che si sentono in colpa per aver dedicato troppo tempo a film inutili anziché passarlo a leggere.
 
Il fatto che la maggior parte dei registi non si scriva da sé le sceneggiature è sufficiente a screditare il ruolo del regista agli occhi dell'establishment letterario. Tale discredito è ingiustificato persino su basi letterarie, dal momento che molti registi rifiutano di farsi accreditare come collaboratori alle sceneggiature dei propri film. Ford, Hitchcock e Hawks non vinceranno mai il Nobel per la letteratura, ma ciascuno di essi ha creato un mondo autonomo e personale con le proprie opere, non meno unico per il fatto di essere stato filtrato attraverso le svariate verbalizzazioni fornite da schiere di sceneggiatori.
Per di più, il lavoro di sceneggiatura comprende più che semplici trame e dialoghi. La scelta tra uno stacco e un movimento di macchina o tra un primo piano e un campo lungo, ad esempio, può trascendere la trama. Se la storia di Cappuccetto rosso viene raccontata con il Lupo in primo piano e Cappuccetto rosso nello sfondo, il regista è interessato principalmente ai problemi emotivi di un lupo alle prese con l'irresistibile pulsione di divorare bambine. Se Cappuccetto rosso è in primo piano e il Lupo nello sfondo, l'enfasi è posta sulla verginità come vestigia in un mondo corrotto (e se si passa da un personaggio all'altro è per enfatizzarne il conflitto; se li si racchiude nella stessa inquadratura con un movimento circolare è per sottolinearne la complicità).
Due storie diverse, dunque, vengono raccontate a partire dal medesimo materiale aneddotico. Ciò che risalta nelle due versioni di Cappuccetto rosso è l'approccio contrastante nei confronti della vita da parte dei registi. Il primo regista si identifica con il Lupo, il maschio, il compulsivo, il corrotto, il Male stesso (Hitchcock, Lang, Bunuel, Chaplin, Welles); il secondo con la bambina, l'innocenza, l'illusione, l'ideale e la speranza della razza (Ophüls, Mizoguchi, Griffith, Fellini, Cukor). […]
 
La differenza tra una cattiva e una buona regia è evidente quanto quella tra buona e cattiva scrittura, ma quanti recensori oggi sono in grado di cogliere tale distinzione? Atrocità visive come The Tiger Makes Out e A piedi nudi nel parco vengono recensite positivamente da alcuni in virtù del prestigio teatrale di Murray Schisgal e Neil Simon [autori dei testi originali adattati nei due film, NdT], mentre opere visivamente eleganti ma letterariamente impacciate come Falstaff di Welles e Per favore, non mordermi sul collo! di Polanski vengono considerate disastri totali. È solo l'ultima prova del fatto che gran parte dei recensori non guardi veramente i film. Piuttosto ascoltano sceneggiature lette ad alta voce sullo schermo. Allo stesso modo, l'ingegno visivo di Peter Gunn (Blake Edwards) e Senza un attimo di tregua (John Boorman) non può essere apprezzato da recensori afflitti da pregiudizi sui generi e incapaci di adeguarsi all'epoca del film a colori.
 
 
Se i registi sono stati incoronati in quanto autori del film è solo perché ci si aspetta che lo siano nel momento in cui il film viene considerato arte. I registi, come i re, regnano ma non dettano legge. Non c'è dubbio che l'autore e motore primo di Tempo di guerra, tempo d'amore sia Paddy Chayefsky più che il regista Arthur Hiller, ma la debolezza del film risiede per l'appunto nell'assenza di un punto di vista forte che solo la regia può offrire. Non che anche i più influenti tra gli sceneggiatori siano originali quanto sembra. Nel caso di Ombre rosse, la sceneggiatura di Dudley Nichols ha ricevuto tanto riconoscimento quanto la regia di John Ford, ma il fantasma che aleggia sull'intero progetto è quello di Maupassant.
 
La questione dell'autorialità, dunque, non ha meramente a che fare con l'origine di un film, e le innumerevoli eccezioni al dominio del regista non alterano la sua posizione strategica. Solo il regista è in grado di conservare un ordine formale all'interno del caos della creazione filmica. Solo il regista è in grado di fornire un'unità di stile a partire dai vari ingredienti a sua disposizione. Lo sceneggiatore troverà le sue parole fatte a pezzi in inquadrature, gli attori vedranno la propria interpretazione privata di continuità e montata fuori sequenza in tante piccole parti. In tali condizioni, l'Amleto del palcoscenico è ridotto sullo schermo all'impotenza di Rosencrantz e Guilderstern.
 
Per oltre mezzo secolo, i registi hollywodiani hanno ideato i metodi più economici di espressione. Per riconoscere quanto ci sia di genuinamente nuovo nel cinema, bisogna comprendere prima la tradizione classica che hanno rappresentato, e avere una conoscenza complessiva della loro opera. Solo nel contesto complessivo di un'intera carriera registica è possibile comprendere la raggelata professionalità di Howard Hawks in Scarface, la precisione pirandelliana di Ernest Lubitsch in Angelo, la rinascita politica di Jean Renoir ne Il diario di una cameriera, la dolente nostalgia di Orson Welles in L'orgoglio degli Amberson, la sensibilità tragica di Max Ophüls in Lettere da una sconosciuta, l'evocazione della famiglia perduta in Sentieri selvaggi di Ford, i tremori deliranti de La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock e la vertiginosa discesa nell'infanzia in Bunny Lake è scomparsa di Otto Preminger. Contro tutte queste evidenze di personalità espressive, le regie piuttosto impersonali di Fred Zinneman in Un uomo per tutte le stagioni, di David Lean per Il ponte sul fiume Kwai e di William Wyler per I migliori anni della nostra vita risultano alquanto noiose.
 
 
Zinneman, Lean e Wyler sono dotati di indubbio talento, e i loro film migliori sono efficacemente allestiti, ma una certa scuola critica li ha sminuiti per la mancanza di uno stile emotivamente espressivo. François Truffaut è diventato il portavoce di questa scuola nel 1954 sulle pagine dei Cahiers du Cinéma quando ha citato l'aforisma di Giraudoux: “Non ci sono opere, soltanto autori”. Il seduttore della Sagan chiede “Le piace Brahms?” senza specificare quale sinfonia, e normalmente parliamo di Tolstoj, Shakespeare e Nabokov in rappresentanza di un corpus letterario piuttosto che di una singola opera. Truffaut sostiene che lo stesso principio vada applicato a certi registi, e per enfatizzare la sua idea ha dichiarato che il peggior film di Jean Renoir sarà sempre più interessante del migliore di Jean Delannoy, un regista ricordato principalmente per Sinfonia pastorale e, più recentemente, per Le amicizie particolari.
 
Perché Renoir è così esageratamente superiore a Delannoy? Perché, secondo Truffaut, Renoir trascende le sceneggiature e gli sceneggiatori dei propri film con uno stile personale che riflette la sua visione del mondo più di qualunque formula letteraria. Essere a favore di Renoir e contro Delannoy costituisce uno degli assiomi della Politique des auteurs di Truffaut, importata in America con l'espressione “teoria degli autori” per esprimere un certo approccio secondo il quale ogni critico assume il fardello storico della biografia artistica. Per recensire Missione in Manciuria di John Ford nel 1966 è importante che il critico autoriale citi un'inquadratura del suo Centro! del 1917.
 
Un corollario della teoria degli autori riguarda la preferenza per i piccoli argomenti su quelli di grande rilevanza, gli adattamenti di romanzi pulp su quelli di classici letterari, i western sulle allegorie della classe operaia. Secondo questo standard, Mike Nichols ha guadagnato il suo diploma d'autore più grazie a Il laureato, con le sue umili origini letterarie, che grazie a Chi ha paura di Virginia Woolf?, testo circondato di allori. Se Nichols non ha fatto che trasferire Virginia Woolf, ha trasceso Il laureato con la sua personalissima direzione degli attori.
 
In conclusione, la ricerca di un'autorialità significativa sullo schermo non denigra il ruolo svolto da scrittori, attori, compositori, direttori della fotografia e montatori. Idealmente, il regista dovrebbe scrivere il proprio film e se questo non è possibile dovrebbe quanto meno rapportarsi alle sceneggiature di cui si serve con empatia emotiva e intellettuale. Se i romanzieri e i drammaturghi sognano di impossessarsi del cinema – e un giorno forse ci riusciranno – devono accettare i problemi legati alla regia. Frederic Raphael ha osservato che gli scrittori tendono a cambiare il mondo mentre i registi devono fronteggiarlo in tutta la sua intransigenza. Lo scrittore può ideare un'eroina gloriosa, il regista deve fare i conti con un'attrice gigiona. Lo scrittore è una creatura di ispirazioni, il regista di limitazioni. La ricerca dell'autorialità di un film è in ogni caso benefica, anche solo perché spinge il ricercatore a occuparsi di questioni riguardanti la responsabilità artistica e personale in un tempo in cui l'arte è minacciata dalla tendenza imperante all'impersonalità. La ricerca ha a che vedere anche con l'assunto che l'arte, e qualunque forma di intrattenimento riuscito, non possano mai essere totalmente accidentali.
 
(pubblicato originariamente su The New York Times, 12 maggio 1968, e ripubblicato in Confessions of a Cultist, 1970. Traduzione di Alessandro Stellino)