Per quanto ne so, non esiste una definizione in lingua inglese della teoria degli autori scritta da un critico inglese o americano. Recentemente, Truffaut si è speso molto nel sostenere che la teoria degli autori non fosse altro che un'arma polemica buona solo per quel dato luogo e momento storico, e io intendo prenderlo sulla parola. Ma, a rischio di essere accusato di appropriarmi indebitamente di una teoria che nessuno vuole più, darò pieno credito ai critici dei Cahiers per la formulazione originaria di un'idea che ha dato nuova forma ai miei pensieri sul cinema. 

Innanzitutto, la teoria degli autori non è semplicemente una teoria dei registi. L'articolo di Ian Cameron “Films, Directors and Critics”, pubblicato sul numero di settembre di Movie, contiene un'interessante riflessione sull'argomento: “L'assunto che sta alla base di qualunque scritto pubblicato su Movie è che il regista sia l'autore del film, la persona che gli fornisce la sua intrinseca qualità distintiva. Ci sono ampi margini d'eccezione, dei quali mi occuperò in seguito”. Fin qui niente da dire, almeno per quanto riguarda la teoria degli autori. Ad ogni modo, Cameron prosegue: “Nel complesso, accettiamo l'idea di un cinema di registi, senza raggiungere gli estremi della Politique des auteurs, che rende difficile immaginare che un cattivo regista possa fare un buon film e praticamente impossibile che un buon regista ne faccia uno brutto”. Eccoci tornati nuovamente a Bazin, benché Cameron utilizzi esempi differenti. Che tre critici poco affini come Bazin, Roud e Cameron facciano sostanzialmente la stessa considerazione sulla teoria degli autori fa pensare a una paura condivisa dei suoi abusi. Credo che qui ci sia un'incomprensione riguardo ciò che sostiene realmente la teoria degli autori, specie in un momento come il nostro, in cui la teoria è così debole.
 
Innanzitutto, la teoria degli autori, così come la concepisco e intendo esprimerla, non si arroga il dono della profezia né la possibilità di una percezione extracinematica. I registi, persino gli autori, non sempre si comportano come ci si aspetta e il critico non può presumere che un cattivo regista farà sempre brutti film. Non sempre, ma quasi sempre, e questo è il punto. Cos'è un cattivo regista, se non un regista che ha fatto molti film brutti? Qual è dunque il problema? Semplicemente questo: se Joseph Pevney ha diretto la Garbo, Cherkassov, Olivier, Belmondo e Harriet Andersson ne Il giardino dei ciliegi, lo spettacolo risultante può non essere del tutto privo di merito con così tanti autori a coprire le sue mancanze. Infatti, con un cast tale e la stessa materia letteraria a disposizione, Lumet si troverebbe più a suo agio di Welles. Le circostanze legate al casting si ripercuotono sui registi tanto quanto sugli attori, ma la teoria degli autori prevedrebbe che, se a mettercisi è Welles, è su di lui che bisogna puntare. 
 
Marlon Brando ci ha dimostrato che si possono fare film anche senza il regista. Infatti, I due volti della vendetta è più divertente di tanti film con registi. Un critico consapevole del ruolo di un regista troverebbe difficile dire qualcosa di buono o cattivo su una regia inesistente. Si può parlare di pornografia, montaggio, recitazione, ma non di regia. Il film ha anche personalità ma, come Il giorno più lungo e L'ammutinamento del Bounty, registicamente vale zero. Ovviamente, la teoria degli autori non può rendere conto per ogni personalità incostante all'opera nel cinema. Ciò nonostante, la prima premessa della teoria degli autori è la competenza tecnica di un regista come criterio di valore. Un film diretto male, o non diretto affatto, non ha importanza su una scala di valore critico, ma si possono fare interessanti considerazioni riguardo la sua sceneggiatura, la recitazione, il colore, la fotografia, il montaggio, la musica, i costumi, l'allestimento dei set e così via. È la natura del medium: in cambio dei soldi riceviamo più che pura e semplice arte. Ma secondo la teoria degli autori, se un regista non possiede competenza tecnica viene automaticamente escluso dal pantheon dei registi. Un grande regista deve quantomeno essere un buon regista. Vale per ogni disciplina artistica. Cosa costituisca il talento registico è più difficile da definire in termini astratti. Ma c'è meno disaccordo su questo primo livello della teoria degli autori che su quanto si discuterà più avanti. 
 
 
La seconda premessa della teoria degli autori riguarda la distinguibilità della personalità del regista come criterio di valore. All'interno di un gruppo di opere, un regista deve esprimere alcune caratteristiche stilistiche ricorrenti che valgano come firma. La maniera in cui un film si mostra e procede deve avere una qualche relazione con il modo in cui un regista pensa e percepisce la realtà. Questa è un'area in cui generalmente i registi americani sono superiori a quelli stranieri, perché gran parte del cinema americano è su commissione e il regista è costretto a esprimere la propria personalità per mezzo del trattamento visivo del materiale piuttosto che del suo contenuto letterario. Cukor, che ha lavorato su progetti di ogni sorta, ha uno stile astratto più sviluppato di quello di Bergman, che è libero di lavorare sui propri testi. Non che a Bergman manchi la personalità, ma il suo lavoro è peggiorato con l'impoverirsi delle idee, proprio perché la sua tecnica non ha mai uguagliato la sua sensibilità. Joseph L. Mankiewicz e Billy Wilder sono altri esempi di scrittori-registi sprovvisti di una padronanza tecnica adeguata. Al contrario, Douglas Sirk e Otto Preminger hanno progredito lungo la scala perché l'eterogeneità dei progetti su cui hanno lavorato rivela una forte consistenza stilistica. 
 
La terza e ultima premessa della teoria degli autori riguarda il significato interiore, la gloria ultima del cinema inteso come arte. Il significato interiore viene estrapolato dalla tensione tra la personalità di un regista e il proprio materiale. Questa concezione del significato interiore si avvicina abbastanza alla definizione di mise en scène data da Astruc. Non riguarda né la visione del mondo proiettata in un film dal regista né il suo atteggiamento nei confronti della vita. È un concetto ambiguo, in ogni senso, perché parte di esso è incorporato nella natura stessa del cinema e non può essere reso in termini extra-cinematici. Truffaut l'ha definito la “temperatura di un regista sul set”, e si tratta di una buona approssimazione del suo aspetto professionale. Dovrei forse uscire allo scoperto e affermare che ciò di cui parlo è l'élan dell'anima?
 
A rischio di sembrare impropriamente mistico, lasciatemi aggiungere che ciò che io considero “anima” è la differenza non tangibile tra una personalità e un'altra, dove tutto il resto è comune. A volte, tale differenza si esprime per mezzo di nient'altro che un'esitazione minima nel ritmo di un film. In una sequenza di La regola del gioco, Renoir sale di corsa le scale, si volta a destra in una sorta di movimento barcollante, si ferma in esitante incertezza quando una cameriera civettuola lo chiama per nome e, a quel punto, con una meravigliosa continuità post-reflex, riprende la propria corsa sgraziata verso la stanza dell'eroina. Se potessi descrivere la nota di musicale eleganza presente in questa momentanea sospensione – e non posso – potrei dare una definizione più accurata della teoria degli autori. Dunque, non posso fare altro che indicare la bellezza specifica del significato interiore di un film e catalogarne i momenti di riconoscimento. 
 
Le tre premesse della teoria degli autori possono essere visualizzate come cerchi concentrici: quello esterno è la tecnica; quello di mezzo, lo stile personale; quello più interno, il significato interiore. I ruoli corrispondenti ai registi potrebbero essere così designati come quelli di tecnico, stilista e autore. Non esiste un percorso prescritto che permetta al regista di attraversarli. Godard ha detto una volta che Visconti aveva avuto un'evoluzione da metteur en scène a auteur, mentre Rossellini aveva compiuto il percorso contrario. Provenendo da direzioni opposte, hanno entrambi raggiunto uno status comparabile. Minnelli ha cominciato come stilista nel secondo anello e vi è rimasto; Bunuel era un autore ancora prima di aver fatto propria la tecnica. La tecnica non è altro che la capacità di mettere insieme un film con chiarezza e coerenza. Oggi è possibile divenire registi senza sapere granché della componente tecnica, persino delle funzioni cruciali di fotografia e montaggio. Una troupe esperta probabilmente può fare le veci di uno scimpanzé seduto sulla poltrona del regista. E come si distingue un regista genuino da un simil-scimpanzé? Dopo una serie di film, il percorso è segnato. 
 
 
 
In realtà, la stessa teoria è un percorso in flusso costante. Non potrei mai racchiudere una costellazione tolemaica di registi in un'orbita fissata. Al momento, la mia lista di autori elenca questi nei primi venti: Ophüls, Renoir, Mizoguchi, Hitchcock, Chaplin, Ford, Welles, Dreyer, Rossellini, Murnau, Griffith, Sternberg, Eisenstein, von Stroheim, Bunuel, Bresson, Hawks, Lang, Flaherty, Vigo. Nell'elenco pesano una certa anzianità, così come le reputazioni affermate. Ma con il tempo, alcuni di questi registi cresceranno, altri cadranno, altri ancora lasceranno il proprio posto a favore di nuovi registi o vecchie riscoperte. Ancora una volta: l'ordine esatto è meno importante delle specifiche definizioni di ciascuno tra questi e di altri duecento potenziali autori. Non mi aspetto che qualche altro critico appoggi pienamente la mia lista, specie sulla fiducia. Solo dopo che migliaia di film saranno stati rivalutati ogni pantheon personale potrà possedere un valore oggettivo. Il compito di convalidare la teoria degli autori è enorme e non se ne vedrà mai la fine. Nel mentre, l'abitudine autoriale di collezionare film casuali sotto l'insegna registica servirà alla posterità come un tentativo di classificazione.
 
Benché la teoria degli autori tenda a enfatizzare l'opera complessiva di un regista piuttosto che isolati capolavori, dai grandi registi ci si aspetta che girino spesso grandi film. L'unica eccezione possibile a questa regola penso riguardi Abel Gance, la cui grandezza è in gran parte funzione della sua aspirazione. E il suo La Roue è prossimo a essere un gran film quanto ogni singolo film di Flaherty. Non che i singoli lavori contino così tanto. Come ha detto Renoir, un regista passa la vita a elaborare variazioni dello stesso tema. 
 
Due film recenti, Boccaccio '70 e I sette peccati capitali, hanno involontariamente rafforzato la teoria degli autori confermando la statura dei numerosi registi coinvolti. Se non avessi visto i film, avrei previsto l'ordine di merito di Boccaccio '70 (Visconti, Fellini e De Sica) e I sette peccati capitali (Godard, Chabrol, Demy, Vadim, De Broca, Molinaro – Dhomme, regista teatrale di Ionesco e a me sconosciuto in partenza, si è rivelato essere il peggiore del gruppo). Si potrebbe discutere della relativa debolezza di De Broca e Molinaro ma, sotto ogni punto di vista, i registi si sono confermati fedeli alla propria forma secondo ogni obbiettivo criterio di valore. Il punto, infatti, è che anche in questo tipo di frivolo intrattenimento commerciale, il contributo stilistico di ciascun regista aveva in comune più con il proprio lavoro precedente che con quello degli altri registi coinvolti nel progetto. 
 
A volte va scartato molto grano per scovare un piccolo nocciolo di significato interno. Ho visto di recente Ogni sera alle otto, uno dei tanti film di routine girati da Raoul Walsh nel corso della sua lunga carriera. Realizzato nel 1935, è una di quelle tipiche storie del periodo incentrate sul mondo degli spettacoli radiofonici con George Raft, Alice Faye, Frances Langford e Patsy Kelly. Il film procede nella maniera piacevolmente poco pretenziosa che ci si aspetterebbe da Walsh fino a quando ha luogo un'intensa scena con George Raft che si agita nel sonno e rivela il proprio tormento interiore. La ragazza che ama entra nella stanza proprio nel mezzo di questa involontaria rivelazione emotiva e ascolta empaticamente. Questa scena inusuale è stata poi ampliata in Una pallottola per Roy con Humphrey Bogart e Ida Lupino. Il punto è che uno dei registi più virili dello schermo si è servito di uno strumento tipicamente femminile per drammatizzare la vulnerabilità emotiva dei suoi eroi. Se non fossi stato consapevole della presenza di Walsh dietro Ogni sera alle otto, il collegamento cruciale con Una pallottola per Roy sarebbe passato inosservato. Queste sono le gioie della politica degli autori.
 
(Testo pubblicato originariamente su Film Culture n. 27, inverno 1962-63. Traduzione di Alessandro Stellino)