Per Variety il nuovo film di Matteo Garrone è dull (insipido, spento, fiacco…). Liberation tira in ballo invece Monicelli e Risi (e ci si chiede dove li avranno mai visti ma vabbé…). Nell’editoriale del numero post-Cannes i Cahiers, a firma di Delorme, liquidano in una parentesi e con un aggettivo ("insignificante") Reality. Questo per dire che le posizioni su Reality di Matteo Garrone non sono né unanimi né lineari. Eppure, al di là degli inevitabili sciovinismi che non temono nemmeno il confronto con quelli dei cugini d’oltralpe – ma ormai quando un film italiano si presenta a un festival è come se scendesse in campo la nazionale e tutti quanti a fare il tifo compatti e allineati come neanche ai tempi del PCUS – non si può celare un forte disappunto nei confronti del regista tornato in concorso a Cannes dopo i fasti di Gomorra.  

 
Il film, che si apre con un piano sequenza aereo che dal generale stringe sul particolare di una carrozza stile Versailles, dichiara da subito la propria natura di macchina cinematografica calata dall’alto su un mondo che evidentemente spera di abbracciare ma dal quale resta, invece (e anticipiamo una conclusione), distante. Certo, da qualche parte, è evidente che il ricordo cinefilo de L’infernale Quinlan cova sotto la cenere; si vorrebbe mettere in scena le leve del mondo, ma si tratta appunto di un’evidenza, di un concetto, e non di una necessità etica che diventa strategia formale e quindi necessità politica. Ed è proprio questo piano, sequenza unanimemente lodato (cosa inevitabile d’altronde in un Paese che di fatto ha smesso di fare cinema), che contiene tutti i limiti di Reality in quanto operazione filmica e culturale. 
 
Al contrario di un regista che programmaticamente disprezza i propri personaggi come Ulrich Seidl o di un regista che al contrario li ama follemente come Xavier Dolan, Matteo Garrone sembra come esiliato dal mondo che vuole raccontare. Anche se non vorrebbe esserlo. Ed è questa la tragedia al cuore di Reality. Garrone i suoi personaggi li ama con una passione viscerale ma, stando alle immagini del suo film, ci pare che li ami soprattutto in quanto immagini, elementi, di un meccanismo cinematografico e non in quanto tali: ossia necessità stessa del suo fare cinema. Esiliato attraverso la sua idea di cinema, che se da un lato produce una serie di notevoli pezzi di bravura virtuosistici (il modello Sorrentino non è lontano), lo aliena, invece, da un mondo carnale e potente che esiste come lingua resistenziale, primigenia, cerimonia dei corpi. 
 
Per intenderci: Garrone ha compreso, intellettualmente, Pasolini. Sa che i corpi che ha scelto incarnano un’idea di trincea ultima. Limite estetico, politico, linguistico. Ed è degna di rispetto questa sua scelta, ma all’atto del raccontarli, inevitabilmente, e questa è la tragedia di Reality, li tradisce usando il cinema inteso come insieme degli artifici di un linguaggio industriale, visibile attraverso i suoi effetti formali, creando così una distanza non necessario fra corpi, macchina cinema e linguaggio adottato. Il cinema, nella mani di Garrone, crea (ancora) separazioni di classe. Pasolini, al contrario, tematizzava questa distanza e separazione, costringendo il cinema a piegarsi a utilizzare un linguaggio dichiaratamente inautentico, un linguaggio dove l’inquadratura e l’immagine rappresentava il luogo stesso di un conflitto che non trovava mai formalmente una composizione (e non a caso per anni Pasolini si è tirato dietro l’accusa di girare “male”…). 
 
In questo senso, L’intervallo di Leonardo Di Costanzo è invece un film assolutamente esemplare, in quanto il cineasta posiziona la macchina da presa saldamente a terra e lavora insieme ai corpi dei suoi protagonisti per aiutarli a formulare, attraverso le possibilità della macchina da presa, un’altra possibilità di mondo. Di Costanzo si guarda bene dall’offrire idee ed elementi già maturati dalle sue convinzioni: l’intervallo è lo spazio di tempo che la macchina da presa impiega per conoscere i due ragazzi sequestrati per un giorno in uno spazio tutto da esplorare. L’intervallo è il tempo necessario a creare un altro mondo. L’intervallo è, per dirla con Baudrillard, un miracolo, la sospensione del reale. Tutto il contrario della Reality di Garrone che si afferma in forma assolutizzante. Sia come riferimento al cinema del cinema (le citazioni continue) che come discorso formale. Dal cinema non si fugge. 
 
Eppure, sulla carta, gli elementi per fare funzionare Reality c’erano tutti. Garrone, infatti, come Sorrentino, conosce perfettamente gli ingranaggi della sua macchina. Da un lato sembra avere in mente un cinema assolutamente bigger than life (la condanna del cinema italiano di oggi che deve essere tutto per tutti…), ma dall’altro non riesce a rinunciare a un discorso, programmatico e strettamente contenutistico, in linea con una precisa idea di cinema politico tutta italiana (non c’è niente da fare: il PCI è esistito…), dove l’autore cala il proprio discorso… dall’alto (in questo senso il piano sequenza iniziale è davvero esemplare).
Se il film inizia come un omaggio evidente de Lo sceicco bianco per poi passare a citazioni puntuali de I vitelloni con il procedere del racconto è al Ferreri de L’udienza e di Break Up che Garrone sembra rivolgersi per documentare il progressivo perdere contatto con il mondo del suo protagonista (l’eccezionale Aniello Arena supportato da un cast magnifico nel quale spiccano Loredana Simioli, Nando Paone e Rosaria D’Urso). 
Il problema di fondo di Reality, quindi, non è se i singoli movimenti di macchina siano più o meno riusciti o se l’attualizzazione della polemica pasoliniana sulla nuova tipologia antropologica prodotta dal tardo-capitalismo trascolori o meno in affondo nei confronti dell’immagine post-televisiva. No. Il problema è che tutti questi elementi restano tali. Enunciati. Inerti. Non producono mai un discorso filmico, limitandosi a manifestare una mera intenzionalità che fa leva esclusivamente sulla visibilità degli effetti retorici per esistere in quanto progetto. Se il film attrae immediatamente offrendo anche piaceri non banali, ciò è dovuto essenzialmente alla carnalità del dialetto partenopeo e di interpreti potentissimi che attraverso la loro mera presenza esprimono l’alterità che, purtroppo, lo sguardo di Garrone non riesce a mettere in scena filmicamente.
 
Ed è un limite forte questo, a nostro avviso, un limite schiettamente politico. Non si può stare al di sopra o al di là dei corpi con i quali si lavora. Ci si sta dentro. In questo modo, paradossalmente, Garrone, si trova tra le mani un film “autoritario”. Attraverso il cinema Garrone non opera una scelta, di campo, ma s’illude di potere fare tutte le scelte proprio in virtù del cinema. Cosa che rappresenta esattamente la distanza che separa un regista come Luc Besson da un cineasta come Steven Spielberg. Il che non significa che è vietato moltiplicare i punti di vista o giocare ma che almeno questo processo risulti, se non altro, organico al lavoro sui corpi e al cinema stesso. Per intenderci, basti pensare a Bella addormentata di Bellocchio, film di un virtuosismo magistrale che appare invece, ironicamente, come un esempio di rigore quasi giansenista laddove raramente nel cinema italiano degli ultimi si è visto un approccio filmico più giubilante e potente. Il rischio, dunque, è che lo sguardo di Garrone scivoli nell’esotismo involontario (perché è ovvio che l’amore del regista per i suoi corpi non è in nessun modo in discussione). Quindi o si abbraccia, sino alle estreme conseguenze, il loro “cattivo gusto” (in tal senso e la lezione di Roberta Torre avrebbe potuto offrire delle utili indicazioni) o si abbraccia la loro mostruosità (bisogna tornare a Franco Maresco). Non si può lamentare la perdita di un’innocenza edenica (ancora il fantasma di Pasolini), evocare quasi un teatrino vivianesco, se poi il giudizio sui personaggi e il loro sistema di valori è formulato a priori (cosa che Pasolini non ha mai osato se non alla fine quando si è messo a morte con esso). Ed è dunque per questo motivo che Reality non convince. Matteo Garrone ha firmato un film chiaramente ossessionato dall’idea di una “definitività”, il “grande cinema”, di cui il risultato finale denuncia tutti i limiti. L’enorme macchina cinema che stritola le vite di Luciano e della sua famiglia è soprattutto la macchina che serve a Garrone per dare corpo al suo discorso, ironicamente, umanista, politico. Discorso formulato non con i suoi corpi ma, purtroppo, paradossalmente “contro” di essi. Il discorso si afferma a scapito dei corpi affinché trionfi l’esibizione della macchina cinema che veicola il discorso stesso dell’autore. Punto, questo, in cui autore e discorso inevitabilmente coincidono come in un unico movimento (inevitabile non pensare al piano sequenza iniziale). Ed è questa la deriva autoritaria cui si accennava sopra. Garrone non tenta di dare corpo a nessun intervallo: il suo è un programma filmico più che un progetto e in quanto tale lo porta a termine con una determinazione assoluta. 
Curiosamente tutto questo dispiego di energia, spreca pure il credito acquisito da un film imperfetto ma affascinante come Gomorra ascrivendo Garrone a quella categoria di registi i cui campioni sono personalità come Thomas Vinterberg, Paolo Sorrentino, Walter Salles, Tom Tykwer. L’autore diventa così la griffe dei festival del “grande cinema” (cosa che Cannes sta perseguendo con grande e discutibilissima determinazione). 
 
Infine, quasi a margine. E se Reality fornisse anche una promozione/nobilitazione/alibi non richiesta/o a una delle trasmissioni simbolo degli anni-Berlusconi? Involontariamente, va da sé. Per effetto della sua stessa debolezza filmica e non per altro? E qui si pone un problema: come essere contemporaneamente “contro” e “neutrali” ma “presenti” (come inevitabilmente la società dello spettacolo richiede) con un discorso ben preciso mentre l’oggetto della critica, per il semplice fatto di lasciarsi “criticare” (permettendo anche di utilizzare logo e concept), emerge alla fin fine quasi meglio della critica stessa? 
 
Ecco: una volta queste questioni sarebbero state oggetto di riflessioni sulla centralità della posizione etica e politica della messinscena. Oggi non ne parla o scrive più nessuno, ma ciò non significa che non bisogna continuare a porsi problemi simili. Altrimenti un piano sequenza non servirà mai a niente se non a essere, appunto, solo un altro piano sequenza.
 
Reality, regia di Matteo Garrone, Italia/Francia 2012, 115'.