APE / Joel Potrykus
 
Di disagio Joel Potrykus ne sa qualcosa. Non che Ape voglia in qualche modo descrivere una condizione sociologicamente inquadrabile, ma con questo film sgangherato e lucidissimo, che gli ha valso il Premio per il miglior regista emergente, l’autore riesce perfettamente in quella che sembra l’intenzione del suo protagonista/alter ego: scuotere e mettere a disagio il suo pubblico, piuttosto che strappargli una facile risata. Comico fallito sul nascere e ispirato piromane, Trevor Newandyke sembra guidato soprattutto dalla pulsione a esporsi al rischio del ridicolo, piuttosto che al compiacimento di una battuta riuscita: il palco dello squallido club in cui riesce a svoltare qualche serata diventa così il luogo di una specie di sacrificio, un’umiliazione pubblica che Trevor si somministra con le sue gag perversamente sciocche e idiosincratiche. Nella maschera tagliente, allucinata e vagamente keatoniana del bravissimo Joshua Burge, si scorge una provocazione radicale: fare dell’imbarazzo uno strumento di potere, la reazione incendiaria di un perdente sistematico alla realtà deprimente ed economicamente depressa di Grand Rapids, Michigan. Dal taglio della TV via cavo all’aumento di prezzo della sua granita preferita, i segni beffardi di una vita e di una psiche che vanno a rotoli si moltiplicano, mentre Trevor si abbandona a un vagabondare sempre più vacuo e stordito, fra grottesche apparizioni di scimmie e licantropi, un improbabile patto col diavolo a una bancarella, e poi improvvisi raptus di violenza, estasi di cose che vanno in fiamme ed esplosioni gore. Le zaffate sulfuree che emana Ape sembrano arrivare da uno stanzino rimasto chiuso dagli anni Novanta, immerso nel nichilismo alternativamente apatico e adrenalinico, nel senso di sperpero generazionale che arriva fino all’oggi, ma che il film sembra voler conservare nell’anacronismo, con una colonna sonora a base di hardcore, rap e metal, che Trevor ascolta dal ghetto blaster nel suo loculo o nel walkman che lo accompagna nelle sue derive. Come volesse negarsi anche l’attualità e la comodità del manifesto generazionale, Ape si rivela invece esemplare di un cinema orgogliosamente punk, che sfrutta al meglio la propria povertà e rischia tutto col suo umorismo anarchico. (Tommaso Isabella)
 
 
THE BLACK BALOON /  Josh e Benny Safdie
 
Erano presenti solo con un cortometraggio proiettato in piazza Grande, i fratelli Josh e Benny Safdie, ragazzi spiritosi, anzi buffi, e per nulla montati, speranza di un cinema indipendente Usa davvero indipendente (che in Italia, lo vogliamo ripetere fino alla noia, non arriva) dalla formattazione del Sundance Film Festival più che da quella di Hollywood. Il loro corto, The Black Balloon, senza pretendere a nulla di geniale, è un delicato e gioioso inno all’anarchia umanistica fatta con pochi mezzi in un momento grave di crisi internazionale. Un palloncino nero si stacca dal gruppo e, come avesse un’anima – o forse perché gliela diamo noi, chissà –, si va a posare di volta in volta su un personaggio diverso, alla ricerca di un amico, di un’umanità. Umoristico e poetico, con un grazioso finale, costituisce anche un omaggio a un bel classico del cinema francese: Le ballon rouge di Albert Lamorisse, film di appena 36 minuti del 1956 di cui uno dei maestri del cinema internazionale, il taiwanese Hou Hsiao-hsien, nel 2007, aveva già diretto un ottima rivisitazione con Le voyage du ballon rouge. (Francesco Boille) 
 
 
COMPLIANCE / Craig Zobel
 
Un poliziotto telefona alla dirigente di un fast-food per accusare una delle sue dipendenti di furto. Obbliga la responsabile a rinchiudere la ragazza nella dispensa e a eseguire su di lei una perquisizione corporale in attesa che arrivi la pattuglia. La pattuglia non arriverà mai e prima che faccia buio – e si scopra che dall'altra parte del telefono non c'è un agente ma un sadico burlone – la giovane avrà subito ogni tipo di sevizia fisica e psicologica. Lasciando da parte tutte le obiezioni legate alla paradossalità dell'assunto – il fatto è accaduto realmente, e non una volta sola –, e appurata la sostanziale competenza della messa in scena – un'ora e mezza che vola via senza un intoppo – l'unica, possibile critica al film riguarda il suo presunto compiacimento voyeuristico. È vero: sostanzialmente non si fa altro che assistere all'abuso da parte di più persone ai danni di una giovane e graziosa fanciulla costretta a trascorrere ore nuda in uno sgabuzzino mentre, a turno, estranei e non eseguono gli ordini del finto poliziotto. Ma è anche vero che tutto è fuoricampo, e in questo si compie il gioco voyeuristico ribaltato sullo spettatore, che non vede ma immagina e alla fine viene obbligato a domandarsi da che parte starebbe in una situazione simile: dalla parte di coloro che assecondano il potere e godono nell'opprimere gli indifesi o di quelli disposti a metterlo in discussione perché non ne riconoscono le proprietà transitive. Un dilemma più grande del film – che in fondo non è che un semplice e ben congegnato ingranaggio – ma anche la riuscita radiografia di un microcosmo in grado di rivelare l'universalità dei meccanismi coercitivi. (Alessandro Stellino) 
 
 
SOMEBODY UP THERE LIKES ME / Bob Byington
 
Forse il più riuscito dei quattro film americani leggeri in Concorso, questa commedia stralunata e melanconica è un girotondo di vite, simbolico e astratto. Max è un ragazzo che non sa bene come affrontare la vita, perso tra un matrimonio finito male e una nuova famiglia da gestire, sempre preda di nuovi e rocamboleschi rovesci finanziari. Ma nella sua esistenza nulla cambia veramente e Max dai venti ai sessant'anni ha sempre il corpo giovane e l'aria distratta di un trentenne. Proprio la curiosa scelta di non far invecchiare il protagonista è sintomatico della comicità surreale ricercata dal regista Bob Byington, capace di sfruttare al meglio la povertà di mezzi produttivi per inscenare gag semplici ma riuscite. I brevi momenti animati, che puntellano il film, offrono respiro a un'opera da camera dove anche i rari esterni sono inquadrati come fossero interni: il cielo è solo sogno, disegno leggero di un altrove che resta imperscrutabile. La tipizzazione forte dei personaggi principali (dove lo stesso abito racconta la persona come una maschera del Teatro dell'Arte), la loro stravaganza nelle movenze e nelle espressioni, la frontalità marcata che li isola e li allontana dal resto del mondo sono la cifra di una regia puntuale (talvolta perfino raffinata) che prende le mosse dal cinismo raggelato di Todd Solondz e si inserisce in una nuova corrente della commedia statunitense, di cui ricordiamo il capofila Alex Ross Perry. In questo contesto, che allarga e forse un po' ingigantisce il film, va visto il Pardo d'Argento conferito a Locarno. (Daniela Persico)
 
 
STARLET/Sean Baker
 
Come un’appendice alle avventure morali di Reinette e Mirabelle. Una danza minimale ai margini della periferia della San Fernando Valley, la Hollywood del porno USA, dove la scoperta di un gruzzolo inatteso provoca spostamenti impercettibili nelle esistenze di una aspirante starlet hard e un’anziana donna amareggiata dalla vita. Il regista osserva e mette in scena i progressivi avvicinamenti tra le due protagoniste seguendo le microscosse di assestamento che l’amicizia fra le due donne provoca nell’ambiente di lavoro della più giovane. Baker possiede il buon gusto di disattendere tutti gli snodi prevedibili della sceneggiatura: nessuno ruba i soldi, il cane del titolo non muore, evitando persino il lieto fine. Starlet è un miracolo di equilibrio. Un film non ricattatorio, incentrato su uno spazio urbano lunare che sembra provenire dalle pagine di un racconto di Bret Easton Ellis. Ed è proprio Los Angeles il terzo protagonista del film. I suoi spazi sterminati dove le case sembrano essere appendici del nulla. Spazi nei quali i corpi delle due protagoniste sembrano galleggiare. Con una grazia low-fi, vagamente slacker, che osa intercettare Rohmer per interfacciarlo con Hal Ashby, e un'indolenza jarmushiana dotata di una precisione settantesca nel tratteggio dei personaggi, Baker firma probabilmente il miglior film off-Hollywood dell’anno, forse persino superiore a Beasts of the Southern Wild. (Giona A. Nazzaro)