1.
Il cofanetto pubblicato dalla francese Potemkine offre l'occasione per riaprie  il dibattito critico intorno all'opera del cineasta argentino. Un dibattito che finora si è concentrato sulle marche stilistiche del giovane autore: il suo minimalismo estetico, il decoupage non narrativo, la costruzione geometrica dei quadri. Questa enfasi sulle caratteristiche formali è di per sé illuminante. Da un lato, essa rende con efficacia lo spaesamento che il cinema di Alonso suscita nello spettatore occasionale. Dall'altro – ed è bene dirlo senza troppe remore – essa testimonia il respiro corto della critica contemporanea. Sorprende e un poco sconforta che il discorso sul cinema, almeno di area anglosassone, sia apparentemente incapace di andare oltre la descrizione ammirata del monstrum. Suonerà pure elitista, ma che il cinema possa essere molto diverso da quello che comunemente si vede e pensa lo diceva già Orson Welles, ed è solo la pigrizia del nostro sguardo che porta a stupire di fronte a strade meno battute. Il senso di questo contributo, perciò, è di indirizzare il discorso in una direzione radicalmente nuova: è la dimensione etica dello sguardo di Alonso che deve emergere, la sua ab-normità necessaria.

2.
Da circa un secolo gli studenti di filosofia si imbattono, nel corso della loro carriera, in un quesito simile a questo: se un albero cade nel mezzo della foresta, e nessuno lo sente, fa rumore? In termini strettamente logici la domanda è capziosa, e la sua risposta dipende in larga parte dalle posizioni epistemiche di chi la affronta. Eppure è innegabile, e la sua longevità lo testimonia, che nello scenario proposto dal quesito vi sia qualcosa d’irresistibile. Come tutte le provocazioni intellettuali di successo, il paradosso va oltre lo scopo della sua provocazione. Nello specifico, essa evoca in modo folgorante l'idea di un imprescindibile empirismo della conoscenza: come a dire che le convinzioni di ciascuno sul presente del mondo, sui suoi abitanti e sul suo funzionamento, per quanto elaborate e astratte, sono prima di tutto il frutto di una rete di mediazioni interpersonali. Ciò che non apprendiamo attraverso i nostri propri sensi, possiamo ragionevolmente assumere che sia giunto alla nostra coscienza per interposta persona: una voce, un racconto, un'immagine. Se l'albero cade nel mezzo di una foresta in cui noi non siamo, ma qualcun altro è presente a registrare l'evento, il rumore della caduta, nella sua banalità di dato empirico, perde ogni rilevanza cognitiva. Piuttosto, è l'assenza completa di ogni possibile mediazione a costituire il tratto eversivo, perfino inquietante del paradosso. La domanda articola una sorta di riproposizione su scala minore del dubbio metodologico: ammettendo che l'esperienza umana diretta sia un sufficiente criterio di verità, cosa accade quando un evento ha luogo oltre la portata collettiva dei sensi miei e di chiunque altro? Più che un'ipotesi astratta, la scena dell'albero che cade nella perfetta solitudine di una foresta suggerisce una possibilità spiazzante, ma viva e concretissima: e se – ora, in qualche remoto angolo del globo – qualcuno o qualcosa esistesse di un'esistenza totalmente irrelata, al di là della nostra portata, al di là di ogni possibile mediazione? È la possibilità di una zona vuota nella nostra mappa del mondo a mettere in crisi l'ordine delle nostre certezze: è lo hic sunt leones delle mappe latine, la mitica Thule dei viaggiatori antichi. È la crisi dell'apertura come paradigma scopico e cognitivo: è il tratto illeggibile che offusca di colpo la trasparenza dei segni (1).

3.
Spogliato dei suoi originari attributi modernisti, il cinema d'avanguardia pare oggi impegnato in una difficile ricerca al di fuori della cultura popolare. L'opera di Alonso è parte di una più ampia articolazione del linguaggio: una fronda che trova i propri spazi nel circuito internazionale dei festival e che ha – più o meno volontariamente – rinunciato all'accessibilità di massa. Perché l'accessibilità richiederebbe una fiducia, una credenza nei codici acquisiti che questa avanguardia cerca invece di cortocircuitare in partenza. Da questa premessa scaturiscono due tendenze generali. La prima si caratterizza come aumento di densità, come saturazione allegorica del quadro: penso a cineasti come Tarr, Sokurov e anche ai nostri De Serio (Costa?). La seconda tendenza procede al contrario verso un progressivo diradamento di senso, in una sorta di regressione ai valori fotogenici dell'immagine. Liverpool si colloca a pieno titolo in questo filone (2).

4.
Il lungometraggio segue un frammento minimo (tre giorni) nella vita di un personaggio, Farrel, i cui tratti sono condensati in poche attribuzioni elementari: la mobilità e la solitudine. L'uomo è un marinaio, imbarcato su uno squallido naviglio mercantile. In più, è un uomo solo: non parla, interagisce poco e quando lo fa è per lo più per ragioni pratiche. Farrel è una figura indeterminata, un fantasma che sfugge alle logiche narrative con cui cerchiamo di leggere la sua storia. Anche il suo movente narrativo è vago. Quando la nave su cui è imbarcato fa scalo presso la sua terra d'origine, da qualche parte nella desolata Tierra del Fuego, egli domanda il permesso di sbarcare. Vuole – dice – andare a trovare sua madre, della quale non ha notizie da anni e che – per quanto ne sa – potrebbe essere morta. Il discorso con cui Farrel spiega tutto questo al capitano (il dialogo più lungo di tutto il film) costituisce la summa delle nostre informazioni di partenza. Ricapitolando: un marinaio che torna alla propria terra natale dopo anni di assenza, mosso dal desiderio di ritrovare affetti domestici della cui sorte è all'oscuro. Il sapore omerico di questa architettura non è casuale: esso riflette il nostro fallimento. Di fronte all'impossibilità di leggere Farrel e quello che avviene intorno a lui in termini più precisi, non possiamo far altro che ricorrere alle formule più generali della nostra enciclopedia testuale. Nella percezione dello spettatore, Liverpool prende le mosse dal paradigma mitico. È il primo passo.

5. 
Le prime sequenze si svolgono all'interno della nave. Il naviglio mercantile rappresenta un microcosmo macchinico, astratto, in cui tutto e tutti sono subordinati all'economia del viaggio. Economia, nella sua doppia accezione: l'insieme delle operazioni atte a far funzionare la nave, ma anche, insieme, la logica economica del capitale globale: trasportare le merci (invisibili e irrilevanti) da un indefinito punto A a un indefinito punto B. Lo schema – nella sua pura dimensione logistica – si contrappone al tempo materiale della noia, all'alienazione umana dei marinai rinchiusi per mesi nel ventre metallico del naviglio. La logica del cargo è – di nuovo – la logica dello scambio. Trasportare le merci da un punto A a un punto B, tradurne la sostanza in valore. È anche la logica della leggibilità e della trasparenza: portare la storia dall'incipit alla conclusione, scambiare segni riconoscibili, valori convenzionali. Schemi dalla cui violenza simbolica Liverpool, fin da subito, si sottrae. Farrel è tanto poco perspicuo come protagonista quanto appare dis-integrato al funzionamento della nave. In una delle primissime scene lo sorprendiamo inspiegabilmente a dormire in sala macchine: una bizzarria per cui viene prontamente redarguito dal macchinista che se lo ritrova tra i piedi. C'è, nell'incompatibilità tra il personaggio e il sistema, un'eco quasi chapliniana: e in questo senso vanno forse interpretate le venature 'comiche' che Violeta Kovacsis riscontra nel film (3). Ma Farrel sembra ugualmente fuori luogo nella saletta in cui i suoi compagni di viaggio ammazzano il tempo con un videogioco calcistico. L'uomo li osserva per un po', con un'espressione neutra sul volto, e poi se ne va, senza una parola. La nave e la console: la mediazione delle merci e la mediazione del gioco. Un codice, una stilizzazione di senso al quale – come si è detto – il film e il suo personaggio-perno si sottraggono. Si sottraggono: ma senza articolare una critica o un giudizio qualsiasi. Perché una critica altro non sarebbe che un codice di segno opposto: e invece Farrel resta un enigma senza chiave di lettura, lontano dall'umanesimo à la Chaplin quanto apparentemente estraneo all'alienazione di cui pure partecipa.

6.
L'uscita del personaggio dal microcosmo chiuso della nave e l'arrivo alla sua terra natale trasfigurano il paradigma mitico del nostos abbozzato in apertura. Il film sembra alludere qui a una sorta di rinascita simbolica. Farrel emerge dal ventre del sistema e si ritrova a guardare il mondo con occhi nuovi. Intorno, gli spazi bianchi e 'selvaggi' della Terra del Fuoco. Ma di nuovo, ci muoviamo su un terreno di interpretazione fin troppo aperto. Basti pensare alla quantità di metadiscorsi teorici che potremmo egualmente invocare a supporto: da un impossibile ritorno lacaniano al Reale a una messa in scena del deleuziano «divenire animale». L'impressione è che il film non si curi tanto di articolare una formula specifica, quanto di interrompere i nessi a monte. La carica polemica di Liverpool sta qui, nell'indeterminatezza. È la storia di un uomo che torna a casa, certo, ma Farrel non è Odisseo e la sua Itaca pare essergli tanto estranea quanto gli spazi del cargo. Appena sbarcato, il marinaio nasconde il bagaglio nei pressi del porto. Dopodiché va a mangiare, finisce in un locale osé, e si risveglia all'alba in una specie di baracca abbandonata, con tutti i segni di un glorioso dopo-sbornia. A questo punto – dopo aver indugiato nel soddisfacimento delle sue pulsioni primarie? – Farrel si avvicina alla finestra e si guarda intorno, come a cercare di riconoscere il paesaggio. C'è per la prima volta – in questa scena – la sensazione che il personaggio partecipi delle nostre aspettative nei suoi confronti. Farrel ha consumato una notte di bagordi: e ora, con l'alba, sembra quasi che egli stesso si aspetti qualcosa. Mentre scruta fuori dalla finestra, la macchina da presa indaga il suo volto. Invano cerchiamo nel suo sguardo tracce di quello che ci aspetteremmo: commozione, apprensione per la madre, nostalgia, rimpianto. Niente. Piuttosto, e di nuovo, quel senso di impenetrabilità, di non-leggibilità. Come dire: ho mangiato, ho bevuto, mi sono divertito. E ora? Ora Farrel si rimette in moto. E di nuovo – per muoversi – non sa o non può fare altro che sfruttare il movimento delle merci. Con qualche soldo compra un passaggio da un furgone che trasporta un carico verso l'interno del Paese. Lo vediamo quindi viaggiare sul retro, su per le montagne innevate, per poi scendere e inerpicarsi a piedi fino a un villaggio completamente isolato: il suo villaggio. Qui il film cambia tono. Il racconto di un uomo solo diventa – quasi impercettibilmente – il racconto di una comunità. È la prima volta nel cinema di Alonso.


7.
Il villaggio di Farrel è raccolto intorno a una segheria, ma la prosperità economica sembra aver abbandonato il posto da anni. Il furgone con cui Farrel è arrivato rappresenta l'unico sparuto contatto con il mondo esterno. Un contatto messo costantemente a rischio dalle condizioni della strada e del tempo. L'isolamento è tangibile. Arrivato sul posto, Farrel appare nuovamente spaesato. Ci aspetteremmo di vederlo correre a casa, cercare la madre, gli amici. Ma gli stilemi dell'amarcord sono – come quelli del nostos e quelli della rinascita – disattesi. Il personaggio divaga, temporeggia: va nuovamente a mangiare, esce, riprende a bere. La macchina da presa gli sta dietro, con pazienza, e a poco a poco le relazioni di Farrel all'interno della comunità si rivelano al nostro sguardo. Lo vediamo osservare un interno domestico fuori da quella che indoviniamo essere casa sua, prima di allontanarsi e addormentarsi ubriaco nella neve. Durante la notte, rischia quasi di morire congelato. Viene salvato al mattino dal padre, che gli rimprovera di essere tornato in un luogo dove – dice – nessuno si ricorda di lui. Come a conferma, assistiamo poco dopo al fatidico incontro con la madre malata: una vecchia e amabile signora costretta a letto, che pare tuttavia del tutto ignara dell'identità del suo visitatore. Scopriamo anche che Farrel ha una figlia: Analia. La ragazza, affetta da qualche forma di ritardo mentale, sembra accorgersi della presenza del padre, ma il dialogo che il film concede ai due personaggi non va al di là di una richiesta di denaro da parte di lei. Richiesta a cui Farrel risponde donandole tutto il denaro che gli rimane, e precludendosi così la possibilità di pagarsi un passaggio di ritorno verso il porto e la nave in partenza.

Man mano che questa rete di relazioni si dipana, tuttavia, il protagonista si fa via via più irrequieto. Di nuovo chiaramente fuori posto, i suoi tentativi di trovare senso nei paesaggi umani che lo circondano appaiono vani tanto quelli rivolti al paesaggio materiale delle scene iniziali. La sequenza del colloquio con la madre ha la parvenza di un pro-forma, di un atto dovuto che il personaggio affronta di malavoglia e che – una volta constatata l'impossibilità di cavarvi un qualche significato – si affretta a concludere, per rimettersi ancora una volta in moto. Impervio a se stesso almeno quanto lo è per noi, Farrel sembra essersi infine liberato da un'esigenza molesta: quella di dare un senso alle sue stesse azioni. Ha fatto quello che doveva (che noi ci aspettavamo): è tornato a casa a salutare la madre, ha lasciato tutto il suo denaro alla figlia che non aveva mai visto. Ora può finalmente lasciarsi andare. A cosa? Il film non risponde. Si limita a mostrarci l'uomo che si allontana a piedi nella neve. Nemmeno Alonso, intervistato più volte a riguardo, sembra in grado di fornire risposte: forse Farrel cammina semplicemente verso la morte, o forse, in qualche modo, riuscirà a tornare in tempo alla sua nave. In ogni caso non importa. Nel segmento finale, il film abbandona il viaggiatore al suo destino e sceglie di restare con Analia: di nuovo, una svolta inaspettata per il cinema di Alonso. La giornata si chiude con le incombenze di ogni giorno: la ragazza e suo nonno si prendono cura degli animali, escono a controllare le trappole per le volpi. Ascoltiamo il vecchio contadino confidare alla moglie il suo sollievo per il fatto che Farrel se ne sia andato. Cogliamo un abbozzo di sviluppo romantico per Analia, quando un giovane del villaggio la apostrofa in cortile. Come dire: quale che sia il senso della breve apparizione del nostro marinaio, le cose in questo villaggio proseguono come hanno sempre fatto. Lo sguardo della macchina da presa si sofferma, indugia, lascia passare il tempo, come a voler cogliere fino in fondo la misura della propria radicale estraneità. Abbiamo seguito il viaggiatore e siamo entrati negli spazi della comunità: ma questa specifica esperienza umana, nonostante tutto, resta al di là della nostra portata. Quella a cui assistiamo resta una dimensione impenetrabile, inattingibile: nell'indugio con cui Liverpool rimanda la propria conclusione si configura un paradigma etico fondato sull'illeggibilità.

8.
A questo punto conviene precisare che Farrel non è un attore. E' un uomo del porto, un trasportatore, che Alonso ha ingaggiato dopo averlo incontrato per caso. Un uomo che ha del cinema un'idea tanto astratta e lontana quanto noi della vita in un villaggio nella Tierra del Fuego. Il senso delle sue azioni è – in effetti – determinato in misura sostanziale dal rapporto con gli spazi. Non c'è recitazione, non c'è – in senso stretto – interpretazione. Alonso lavora con gli attori in una maniera che ricorda quella di Mike Leigh: la consuetudine (in questo caso: la consuetudine con i luoghi) sedimenta negli interpreti un senso, un’immediatezza di reazione che la camera si incarica di raccogliere. Senza forzature, senza imposizioni: il cineasta sceglie le sue location con cura, vi passa dei mesi, si fa conoscere e accettare, indaga la vita dei suoi attori occasionali prima di ingaggiarli. Alla fine, però, si fa indietro, e si limita a creare le condizioni perché l'esperienza diretta dei personaggi possa 'riempire' le campiture del racconto. L'incontro di Farrel con sua madre non è sceneggiato: l'anziana donna non ha davvero idea di chi sia il suo visitatore. Allo stesso modo, il primo incontro tra l'uomo e Analia, nella locanda del villaggio, avviene senza che l'interprete sappia alcunché della relazione tra il suo personaggio e la ragazza.

Sono le dinamiche tra i luoghi e i personaggi a determinare la forza e allo stesso tempo l'oscurità di Liverpool e – più in generale – del cinema di Alonso. Tutti questi interpreti hanno di quello che stanno facendo un'idea meno che vaga: sanno che si sta girando un film, ma la loro idea di film è tanto lontana da quello che si ritrovano a vivere da non fornire alcun appiglio di senso. Ciò che gli viene chiesto è di reagire a una situazione nuova senza che nulla, nel contesto in cui agiscono, sia fondamentalmente mutato. La loro reazione, perciò, è rivolta tutta verso di noi. Il cinema si limita a portare all'interno di quegli spazi un'esigenza di senso: la nostra. Attraverso il labile schema narrativo del film, quei luoghi e quei gesti si fanno segni: ma solo per noi, e per Alonso, che lì, sul set, incarna davanti ai suoi interpreti il nostro sguardo e il nostro stupore. Questi ultimi, gli interpreti, restano in silenzio. Non hanno bisogno di segni, né di storie: è la loro realtà. Di fronte ai nostri tentativi di trasformare le immagini in racconto, i piani lunghi di Liverpool restituiscono gli sguardi, i movimenti, i tempi di chi si sente osservato da uno straniero. Dice Alonso che in quel villaggio, dopo il declino economico della segheria, la gente spende la maggior parte del proprio tempo a guardare fuori dalla finestra. A guardare cosa? La risposta – come il tonfo degli alberi nella foresta deserta – sfugge alla mediazione. Resta solo l'eco della domanda.

9.
In sottotraccia Alonso non rinuncia ad articolare le sue isotopie. In Liverpool la tensione formale è palpabile: il freddo polare degli esterni costringe la macchina da presa e gli attori a un continuo gioco di interni. I personaggi appaiono costantemente incastrati dentro quadri geometrici: composizioni naturali in cui interiorità ed esteriorità si fronteggiano, come a riflettere lo sforzo ermeneutico in cui tutti, spettatori, attori e regista, sono contemporaneamente impegnati. Ma soprattutto, resta quella sottile dialettica che abbiamo visto all'opera nel primo segmento del film. La nave e il villaggio configurano due opposti sistemi di valore. Il primo polo è quello della trasparenza e della leggibilità: la logica astratta del capitale, della circolazione delle merci e dei segni, a cui fa riscontro il paradigma dell'equivalenza, della permeabilità tra esperienza e mediazione. A questa apertura si contrappone lo spazio-tempo del relitto. Stretto intorno alla sua segheria, essa stessa rovina di un’economia artigianale, il villaggio sulla montagna resiste a ogni forma di mediazione: esso si configura come una traccia illeggibile, intraducibile, inamovibile. E' l'ombra viva delle cose che si riflette sullo schermo. Viene in mente il primissimo Olmi, quello de Il tempo si è fermato. Di fronte a questa chiusura, il cinema scopre tutta l'ab-normità del suo apparato di convenzioni. Prodotto e interprete di un'industria della trasparenza, il medium è costretto, qui, a fare un passo indietro. O meglio, è costretto a rinunciare a determinare il senso delle proprie immagini. Da ultimo, il portachiavi con la scritta 'Liverpool' che Farrel lascia ad Analia prima di andarsene (per sempre?) riassume entrambi i poli del discorso. Una scritta e un oggetto che, per la ragazza e probabilmente anche per l'uomo, non significano niente al di là della loro immanenza. Il portachiavi, al contrario del denaro che pure Farrel ha lasciato alla figlia, non ha valore. L'oggetto – per i due personaggi – è al di fuori della logica delle merci e della mediazione. È un feticcio, un oggetto magico, partecipe della sostanza impenetrabile della loro relazione: siamo noi a leggere nel nome della città portuale inglese il segno di quel sistema globale che, qui, non è mai arrivato. La dissimetria delle posizioni scopiche tra noi e i personaggi, in questo punto del film, è abissale. La leggibilità del mondo – di quel mondo – ci è preclusa. Dobbiamo arrenderci di fronte a quella che Delluc avrebbe chiamato la photogénie: qualcosa della realtà (qualcosa di intrinsecamente morale, avrebbe aggiunto Epstein) che la macchina da presa rivela ed amplifica, ma che – nonostante tutto – non sa spiegare.

NOTE

(1) Una distinzione si potrebbe tracciare tra ciò che del mondo costituisce un sapere registrato, libresco, e ciò che ne configura invece la conoscenza corrente, la proiezione della contemporaneità nella mente di ciascuno di noi. Per gli scopi di questo studio ci limiteremo a considerare la seconda opzione, quella che considera la mappa in quanto proiezione diacronica, storicamente determinata di uno specifica collettività culturale.
(2) Entrambe le linee rientrano in quello che comunemente si definisce cinema lento. Poco più che un'etichetta vuota, quest'ultima categoria tiene insieme un'ampia vasta di nomi – da Weerasethakul a Kore-eda passando per i summenzionati Tarr, Sokurov, Costa, etc – accomunati da superficiali consonanze formali e da una generica patina 'autoriale'. L'utilità critica di questa categoria risulta tanto meno perspicua quanto più la si contrappone ai prodotti 'veloci' delle industrie cinematografiche. Il senso di un confronto/contrasto tra due forme di cinema talmente diverse per scopi e strutture linguistiche risulta francamente oscuro, e testimonia di quella miopia critica di cui si diceva in apertura. La proposta di demarcazione che avanzo qui è un primo tentativo di articolare una prospettiva diversa e più produttiva. Si potrebbe (volendolo) rintracciare in questo mio suggerimento un'eco della vecchia distinzione baziniana tra cineasti che credono all'immagine e cineasti che credono al reale. Il mio resta comunque solo uno spunto, che merita di assere approfondito (ed eventualmente smentito) con più attenzione. Per un'introduzione al dibattito critico sullo Slow Cinema, rimando all'editoriale di Nick James, "Passive Aggressive", apparso su Sight & Sound nell'aprile 2010. Idicazioni bibliografiche aggiuntive sono a disposizione su http://unspokencinema.blogspot.com.
(3) Kovacsics V., Nayman A. "Shore Leave: Lisandro Alonso's Liverpool". Cinemascope, 36, non datato, <http://cinema-scope.com/wordpress/web-archive-2/issue-36/interviews-shore-leave-lisandro-alonso%E2%80%99s-liverpool>.

LISANDRO ALONSO (Potemkine)

LA LIBERTAD, Argentina 2001, 70'

LOS MUERTOS, Argentina/Francia/Olanda/Svizzera 2004, 78'

FAMTASMA, Argentina/Francia/Olanda 2006, 61'

LIVERPOOL, Argentina/Francia/ Olanda/Germania/Spagna 2008, 84'