Un padre obeso, un figlio sordomuto e una madre misteriosa. Questi sono i tre protagonisti di Fat Shaker, vincitore ex aequo dell’hivos al Rotterdam Film Festival 2013 insieme a My Dog Killer e Soldier Jane. Proprio l’anno in cui il festival  dedica un’esaustiva retrospettiva alla cinematografia iraniana, Mohammad Shirvani trionfa con un’opera liquida, che si avvicina molto ad un sogno ad occhi aperti, in cui i personaggi cercano di relazionarsi senza successo gli uni con gli altri.

Lo stesso regista afferma che il film oltre ad avere una matrice biografica, vuole essere una metafora del conflittuale rapporto tra i nuovi registi i padri della cinematografia iraniana. Gli autori come Kiarostami hanno contribuito a creare un tappo creativo nei confronti dei giovani realizzatori, sempre giudicati in un’ottica comparativa e minore rispetto ai propri maestri. Un’ombra che nel film è perfettamente rappresenta dalla massiccia presenza del padre. Grasso e lento, ormai incapace di affrontare le situazioni e gli imprevisti che il contemporaneo impone, si trascina da un luogo all’altro tentando di controllare e castrare le iniziative del figlio. Una madre/fata  assente ma importantissima nell’immaginario del regista incita il figlio a scappare e liberarsi dall’invasività paterna.  La plasticità e del padre è mostrata in maniera potente dai trattamenti di purificazione a cui si sottopone facendosi innestare dei bicchieri sulla schiena per poi farsi succhiare da sanguisughe il grasso in eccesso. Una pratica di purificazione che mostra il personaggio ancora più preistorico e imponente.

Scena madre del film sicuramente quella dell’ assurdo interrogatorio della polizia, che dopo essere irrotta  nella casa paterna inizia un processo senza che gli accusati abbiano alcuna possibilità di difendersi. L’apice della tensione viene raggiunto quando le non risposte del figlio sordomuto vengono giudicate come una volontà esplicita alla non collaborazione e un’opposizione al regime. Nel frattempo il “padre dinosauro” vaga nella stanza non accorgendosi di avere il dorso ricoperto da bicchieri che lentamente di infrangono al suolo uno dopo l’altro perdendo aderenza con il corpo adiposo. In un tempo in cui il cinema può diventare un mezzo per ribellarsi, per esprimere un dissenso politico, non si può non pensare che questo film metaforico e coraggioso non abbia incontrato l'interesse di uno dei giurati del festival di Rotterdam: Hai Weiwei, costretto a seguire via skipe il festival dal suo appartamento vigiliato dalle autorità. 

L’assenza di musica e la mancanza di punti di riferimento geografici  portano il racconto in una dimensione onirica che giustifica alle volte la mancanza di linearità del film. Proprio come nei sogni della Recherche di Proust sono le mancanze fisiche a offrire una pista di analisi psicanalista per capire le paure e i timori dei personaggi; una su tutti la caduta della barba. Un film che fa riflettere sul radicamento delle nostre certezze, sul ruolo dell’educazione e della libertà di espressione. Un magma di immagini e visioni che trovano un’accelerazione estetica nei visi dei due protagonisti, opposti concordi che si ritrovano in un dialogo muto. Shrivani ha inoltre presentato per lo spazio che il festival ha dedicato all’Iran un’istallazione multisensoriale: Elephant in Darkness, un titolo singolare che richiama la condizione del protagonista del suo film in concorso.