Mi hai detto, uscendo dalla proiezione di Dillinger, che era il tuo film che preferivi, anche perché era fatto in totale libertà; una cosa, questa, che forse non avresti potuto dire per i tuoi precedenti film.

Lo posso dire anche per i film precedenti; certo, è stato più difficile e travagliato costruirli… Dillinger è una cosa pensata, decisa e girata… A parte che Dillinger era un'idea che avevo già in testa da abbastanza tempo. Certo, c'è più libertà a farlo direttamente, per conto proprio, non c'è bisogno che te lo dica io.
La contestazione, cosa vuol dire la contestazione? Dillinger è nonostante tutto ancora un film borghese per i borghesi. Non abbiamo col pubblico un dialogo rivoluzionario. Le scelte, il problema delle scelte: dobbiamo essere degli operatori rivoluzionari, cioè degli agitatori culturali, o dobbiamo essere semplicemente dei registi? Queste poi sono riflessioni mie, perché tutti gli altri, anche quelli più sensibili, hanno subito detto che no, in fondo si sentono abbastanza tranquilli, si sentono di fare un'opera valida anche dentro il sistema. Bertolucci stesso, crede di non essere integrato, crede di essere un autore che si batte per le sue idee; dice: “l'autore si deve esprimere con l'opera”, questo è il concetto con cui cerchiamo di salvarci.
 
E tu in questo concetto non ti riconosci?
 
No, non mi riconosco, perché appena esci dal cinema… La contestazione, cioè quello che abbiamo fatto, quello che non abbiamo fatto, quello che abbiamo visto: abbiamo visto la repressione, abbiamo almeno sfiorato o intravisto i problemi che cerchiamo battendo nel nostro tema, oppure nel mio tema particolare, quello dell'alienazione, della solitudine; problemi che ignoriamo, perché piano piano non uscendo, non parlando con la gente ignori. Invece, in fondo, vedi che esistono problemi ancora primari, problemi quasi neorealistici, il problema del mangiare, del vestire, dell'avere i  soldi…
 
Tuttavia il tuo film ha ben poco di neorealistico…
 
Che vuol dire! I film non vogliono dire niente. L'opera di un signore può essere coerente, ma essere coerente non vuol dire essere rivoluzionario; io posso dire di essere coerente, non ci sono gli studenti che mi spernacchiano, ma comunque non posso dire di essere rivoluzionario.
 
Mi colpisce il fatto che parli di tornare fra la gente nel momento in cui fai il tuo film più lontano dalla gente.
 
Queste sono contraddizioni fondamentali in un individuo… Certo, l'ho fatto, ma riconosco i miei limiti… Comunque anche prima lo pensavo, già dai Palloni. Non nei film spagnoli, non nella Donna scimmia, perché erano film diciamo più neorealistici. Quando entri nell'isolamento lo fai per protesta, perché ti dici: “io non voglio essere assorbito, io non voglio entrare nel sistema”, ma non è che isolandoti non entri; vivi, vivi in isolamento ma vivi nel sistema, dai una ragione anche al sistema per dire “ma nel sistema si può criticare, si può parlare”… In fondo un film, che può essere non rivoluzionario ma che attaccava una parte del sistema, per noi attaccava la censura, era L'ape regina, perché dopo L'ape regina, che è stata ferma sei mesi, che ha costituito un precedente, qualcosa è cambiato. La mia opera la individuo anche in questa distruzione, in questo cercare di ottenere la libertà massima. Adesso è diverso. Dillinger è sì un film a basso costo, è un film abbastanza felice, è un film libero, ma poi deve rientrare nei canali, c'è una distribuzione, ci sono le vendite, cioè entra nei canali normali; è sempre una protesta borghese; ripeto, può darsi che noi possiamo fare solo questo, ma io non sono contento; sento gente che dice “ma io non sono integrato, io sono contento di quello che faccio, io faccio tutti gli sforzi per essere al di fuori”, ma non è vero, con le opere non intacchiamo.
 
 
 
E allora perché fai film?
 
È sempre una questione personale.
 
Dunque, che fare?
 
Ci sono due strade. Bisogna decidere: o fare delle opere quantitativamente numerose, tirare fuori le opere, cercare di distruggere il metodo attuale del cinema, fare cinquanta film in un anno se si possono fare, fare i film come li fa il signor Godard, in una certa direzione, con un certo capitale; oppure smettere per un momento di fare il cinema e cercare di fare la rivoluzione; questi sono i due sistemi. E la rivoluzione si fa facendo la rivoluzione, non facendo i film.
 
Ma tu fai i film, non fai la rivoluzione.
 
Ma io non lo so, può darsi che faccia i film perché mi serve per prepararmi a fare qualche altra cosa.
 
I film non possono contribuire a creare una sensibilità diversa?
 
Impossibile in questo momento. Esistono certe strutture, ma non servono neanche i canali laterali. Un film come Dillinger in fondo è come se lo avesse fatto lo stato: lo distribuisce l'Ital Noleggio, l'Ente di Stato, che non funziona. È costato poco, ma non basta ancora, perché non arriverà, perché sarà sommerso; non parliamo poi solo di cinema: quello che martella la gente quotidianamente è la televisione, è la radio, i giornali, tutti i canali di diffusione, di informazione, di persuasione; un film non ha la verità di un fatto, di una notizia; in fondo è vecchio il sistema del cinema così com'è. Insomma, c'è un termine abbastanza bello, anche se molto borghese, quello di “ghetti culturali”. Il cinema sta diventando forse ancora più del teatro un prodotto per ghetti culturali. Certo cinema, s'intende.
 
Un discorso, il tuo, abbastanza deprimente, che non sembra spiegare la carica d'entusiasmo che c'è, ne sono sicuro, dietro Dillinger.
 
È sempre una carica di entusiasmo personale, ripeto. Non è nemmeno più di ribellione. O è una ribellione solo personale. Però oggi come oggi le ribellioni personali o le rivoluzioni personali non servono. La rivoluzione con il film che uno si produce non serve a niente.
Che cosa cambia, quali strutture cambia? Vedi i giovani: c'è un festival, vanno a un festival; credono ancora che i festival servano. Tutti quanti, anche quelli picchiati dalla polizia, poi credono alla funzione di una giuria, ai venti signori che possono comprare un film; tutti premiati, anche quelli che fanno i documentari…
 
E un modo di fare il cinema tipo quello del nostro comune amico Mario Schifano?
 
Mario Schifano fa bene a fare il suo cinema, ma addirittura quello è un cinema, come per Leonardi, da cavaliere teutonico, non serve a niente. Può darsi che fra un anno Mario Schifano faccia i film che costano 300 milioni. Io lo apprezzo, stimo quello che fa; Mario Schifano fa un film, lo vorrà far vedere, ha bisogno di distribuirlo, ha bisogno di premi, passa la censura, sta nei canali; che lo faccia poi più economicamente non cambia molto le cose: sta nelle formule, gioca con le formule.
 
Ma a questo punto non si può fare altrimenti. Bisogna pensare che l'opera alla lunga serva.
 
Il cinema alla lunga non serve a niente.
 
Allora non vedi soluzione?
 
Non ne vedo. E bisogna tanto essere onesti da dire che non si vede soluzione. Forse è sempre meglio fare invece di una cattiva opera rivoluzionaria, un'opera negativa al massimo, un'opera che voglia distruggere. Dillinger non è certo un film positivo, è un film negativo, perché è un film abbastanza tragico. Ecco, al massimo possiamo arrivare a fare gli sciacalli di un mondo che va distruggendosi, e basta. Ma ormai la gente ha bisogno di soluzioni, ha bisogno di contare su qualche cosa. Film positivi, però, come sono adesso le cose, ancora non si possono fare. Il pianto sul personaggio, l'alienazione del singolo, il mondo distrutto vanno bene, sì, ma non ci sono mai soluzioni. Il suicidio cinematografico non è proibito.
 
Ma il sole rosso con cui finisce Dillinger?
 
Va bene, il sole rosso di Dillinger può essere la speranza, ma sempre letteraria. Dillinger è un'opera cinematografica, ripeto; la nostra funzione è sempre più limitata, più chiusa. Poi, veramente, parlare del film… È inutile. Parlandone con voi o parlandone con altri è sempre ricadere nello stesso sistema. Non sarete più Sadoul, non sarete altri cinquanta morti che stanno morendo, però stiamo sempre a parlare fra di noi dei film che facciamo, ci facciamo delle belle riviste, ci facciamo una cultura cinematografica, ci facciamo dei bei film…
 
Un tentativo di sopravvivere, forse…
 
Sì, perciò un tentativo veramente egoistico, provinciale, chiuso. Noi siamo i vitelloni, i vitelloni della cultura, ci facciamo vedere fra di noi i film. “Moravia l'ha visto il film?”, “No, lo deve vedere”; “E Pasolini, l'ha visto?”, “No, bisogna che lo veda”; il tutto poi si riduce a venti persone; poi sei eroico, dici “No,  Bevilacqua non lo invito, però posso invitare Dacia Maraini”. Poi hai altre sette persone, tre in Francia, un'altra in America, Susan Sontag… Piccoli gruppetti, sempre.
 
 
Nonostante questo, visto che il film lo hai fatto, non vedo perché non se ne debba parlare. Per esempio, nei confronti dell'Harem, un film in cui fra sceneggiatura e regia…
 
Ma la fase di sceneggiatura in Dillinger è molto ridotta; è un rapporto col personaggio, la scena, la casa; questo termine che avevi trovato tu, processo di accumulazione, sarebbe il miglior titolo per il film. Ma è disonesto parlare dei film. Dato che già facciamo una cosa che non serve, che si distrugga per contro proprio! Nel silenzio. Il film l'ho fatto per tanti motivi: perché mi piaceva fare questo film, perché con questo film ci ricavo un po' di lire; ma comunque faccio una cosa che non serve a niente, perciò è inutile parlarne.
 
Parliamo allora del tuo atteggiamento nei confronti del “fare cinema”. Mi colpisce in te, che credevo un istintivo, come Rossellini, la capacità di costruire un'opera, come in Dillinger
 
Ma sì, perché poi l'istinto diventa razionale: l'istinto dei moribondi diventa razionale a un certo punto… E difatti diventa sterile. Quando uno è istintivo, dopo si sterilizza e diventa istintivo razionalmente. Non è che serva a molto. Certo, Dillinger è più razionale come costruzione perché tu ti rinchiudi e parli con te stesso, fai la tua piccola guerra personale con le idee riflesse dentro di te, ma che non serve a niente. I film non servono a niente. Quello che facciamo non serve a niente.
 
Forse il problema è che i film non vanno al pubblico adatto. Per esempio, è necessario un rapporto diverso con la classe operaia…
 
Sì, ma non ce l'abbiamo non solo con la classe operaia, ma con tutto un insieme di cose, con tutto il mondo, non abbiamo approcci, non abbiamo possibilità di arrivare… Le immagini, poi, che cosa vuoi che lascino nella gente? Insomma, il cinema è razzista, e basta. Il cinema nostro è un cinema di bianchi per i bianchi, che poi non lo capiscono: è il più grande razzismo possibile. Non serve ai gialli, non serve ai neri, non serve a nessuno.
 
Ma tu poni il problema in termini cosmici, quasi di eternità.
 
Non lo so. Ti ripeto solo che non mi interessa parlare di Dillinger. Dillinger è finito, penso che sia un bel film, sono contento di come è venuto, sono contento così, per me; credo che anche chi fa una seggiola è contento della seggiola che fa, e se l'ha fatta bene, t'immagini, ci si siedono per 50 anni, sono molte persone, più di quante recepiscano un film. Il film è stato girato con 9800 metri di pellicola in quattro settimane e tre giorni, quattro giorni in Spagna, due nella barca finale e basta. Il trucco del sole l'ha fatto il signor Natanson, piuttosto male.
 
Mi pare che Dillinger, per il suo aspetto astratto, sia il proseguimento dell'Harem; ma si riallaccia anche, per la carica di sensualità che lo caratterizza, ai film precedenti.
 
Nessun film è il proseguimento dell'altro. Nell'Harem ho fatto un certo bagaglio di esperienze; ci sono delle sensazioni avute, proprio delle misure, degli studi di tempi, di colore, di reazioni di un personaggio… Certo, le esperienze che ho avuto mi servono per quello che devo fare: non credo di essere ancora a una fase per cui quello che fai non ti serve, non ti aiuta. In Dillinger ci sono le esperienze dei film precedenti, dei momenti passati, di altre cose… E poi, oltre ai film ci sono dei giorni, dei momenti, delle impressioni, delle sensazioni che capitano…
 
(Tratto da: Cinema & Film, nn. 7-8, primavera 1969)