Siamo sempre più sommersi da una moltitudine di immagini, ma quali sono quelle realmente necessarie e come distinguerle dalle altre? In un’epoca in cui l’autorappresentazione per mezzo delle immagini, fisse o in movimento, sembra ambire ad attribuire valore testimoniale a qualunque accadimento della quotidianità o a caratterizzare l’identità di ciascuno attraverso l’esibizione di un gusto, come si pone il cinema del nuovo Millennio in rapporto a questo processo destabilizzante che ne sta mettendo in discussione la preminenza?

La progressiva democratizzazione offerta dalla tecnologia digitale e la conseguente invasività dei meccanismi di controllo hanno segnato il passaggio dal ‘900 agli anni 2000, modificando radicalmente quella che potremmo definire “l’impressione di realtà”. Se l’industria hollywoodiana è stata subito capace di recepire il cambiamento in atto, e oggi quasi tutti i generi sono contaminati dall’estetica finto-amatoriale, l’horror in particolare si è dimostrato terreno fertile per l’elaborazione di una nostra profonda paura inconscia: lo spossessamento del privato operato dai meccanismi di sorveglianza e dalla nostra stessa ansia di condivisione. Siamo noi a guardare le immagini, o sono le immagini a guardare noi?

In quest’incerta separazione di campo tra chi guarda e chi è guardato, si articolano le opere di cineasti – vicini per età a questa temperie – che si sforzano di trasformare in immagini critiche la virtualizzazione dei rapporti e l’esibizione narcisistica del sé ai tempi dei social network. L’ultimo Festival di Cannes ci è venuto incontro offrendoci l’occasione di approfondire l’argomento per mezzo di tre opere diversamente affini: Bling Ring di Sofia Coppola, Only Lovers Left Alive di Jim Jarmusch e il fiammeggiante esordio del francese Yann Gonzalez Les rencontres d’apres minuit.

Collezioni di immagini del contemporaneo, quelle proposte dai tre film appena citati, che collidono con la forza di ciò che non viene mostrato nel film L’image manquante di Rithy Pahn. Nuovo capitolo di un’indagine storica e autobiografica sui massacri operati in Cambogia dai khmer rossi, il film ricostruisce l’infanzia del regista con l’uso di statuine d’argilla e di fondali di cartapesta. La staticità della messa in scena corrisponde così alla condizione di impotenza cui è stato costretto il cineasta, e con lui un intero popolo. Dopo aver incontrato i testimoni, carnefici e vittime, in S21, qui la memoria personale si scontra con la rappresentazione istituzionale, in un parossistico confronto tra l’evidente artificiosità delle statuine e l’apparente veridicità dei filmati d’archivio.

Un cinema ancora capace di dirci che la verità va ricercata oltre i simulacri del realismo.

Daniela Persico / Alessandro Stellino