Due sono le riflessioni che scaturiscono all’indomani della vittoria veneziana di Gianfranco Rosi.

La prima, che nonostante il premio arrivi alla fine di un periodo particolarmente prolifico per il cinema documentario in Italia, il sistema cinema del nostro Paese si è dimostrato totalmente impreparato ad affrontare una simile evidenza. E non ci riferiamo alla polemica di un regista particolarmente “integrato” come Pupi Avati, quanto piuttosto allo sbalordimento provato da parte di chi finanziatori, distributori ed esercenti. Persino all’indomani della premiazione, nessuno avrebbe scommesso che questo piccolo film realizzato potesse portare in sala un pubblico così vasto. Segnale che se la critica non è più capace di indirizzare i gusti degli spettatori, forse il massimo riconoscimento da parte della Mostra del cinema può farlo.

La seconda, che, stante il coraggio di Bertolucci nel premiare il film di Rosi, Sacro GRA si è imposto all’interno di uno scenario caratterizzato da opere spesso derivative e prone a compiacere gli standard sempre più riconoscibili di un “cinema da festival”. Ci siamo quindi impegnati a compiere un primo sopralluogo su una tematica complessa ma ormai davanti agli occhi di tutti, studiando la maniera in cui i festival cinematografici entrano nella vita produttiva di un film sin dalla sua origine, generando un provincialismo cosmopolita in cui si rispecchiano gli aspetti più deleteri della globalizzazione economica.

Contro tutto ciò si schiera il cinema “unfuckable” di Albert Serra, trionfatore allo scorso Festival del Film Locarno. Il suo Historia de la meva mort è la conferma di un talento libero e spavaldo, capace di muoversi in uno scenario in piena trasformazione, tra finanziatori privati e istituzioni pubbliche, tra mondo dell’arte e industria cinematografica. L’imprevedibilità e l’artigianalità di alcune sue scelte – esposte nella lunga intervista che gli dedichiamo – sono l’indice evidente che le speranze di rinnovamento della settima arte passino attraverso le pratiche di autori che operano contro l’irregimentazione dei gusti imposta dai film funds.

Di questo siamo sempre più certi, specie dopo aver visto, ancora tra Locarno e Venezia, le opere straordinarie di Joaquin Pinto, Gianikian e Ricci Lucchi, Edgar Reitz, Paulo Rocha, e Frederick Wiseman, in una stagione segnata da un grande cinema documentario. Su tutti, la disarmante potenza di Wang Bing che, a un decennio dal capolavoro West of the Tracks, torna a filmare con una troupe ridottissima il persistere dell’umanità nel desolante scenario concentrazionario di una clinica psichiatrica cinese. Un urlo di dolore, Feng ai, che segna il momento più alto del cinema di quest’anno.

Daniela Persico / Alessandro Stellino