Tra il 1953 e il 1960 uscirono negli Stati Uniti The Little Fugitive (1953), Lovers and Lollipops (1956) e Weddings and Babies (1960): tre film diretti da Morris Engel, un fotografo discepolo di quel Paul Strand da molti considerato il pioniere della street photography. Con un budget ridottissimo e uno stile visivo e recitativo assolutamente sui generis, i tre lungometraggi ottengono numerosi premi – The Little Fugitive, tra gli altri, il Leone d’argento alla Mostra del cinema di Venezia e la candidatura agli Oscar per la sceneggiatura -, ma soprattutto diventano simbolo di un fare cinema che influenzerà enormemente le varie nouvelles vagues europee e tutta la New Hollywood, passando prima da John Cassavetes.

Tra i tre film soprattutto il primo, The Little Fugitive, diventa l’emblema del cinema indipendente. “Indipendente” nel senso puro ed originale del termine: ripulito da quella deriva quasi mainstream in cui la parola è oggi andata a finire in nome di una presunta non dipendenza da dinamiche e processi economici di un certo cinema e di una certa musica, e rivelandosi, invece, attributo soprattutto di opere commerciali e “industriali” di “tendenza”. E di realmente indipendente la pellicola ha davvero tutto: un budget di soli 30.000 dollari, un’innovativa e sperimentale telecamera dall’incredibile mobilità – creata apposta per Engel da Charles Woodruff – e l’utilizzo di attori non professionisti, come raccontato dal regista Morris Engel: «Avevamo deciso di girare un film molto semplice, sulla vita di un ragazzo. Nell’inverno 1951 iniziammo a fare degli incontri e riuscimmo a racimolare abbastanza denaro per iniziare, ma c’era ancora da trovare il ragazzo giusto. Spendemmo ore e ore nei soliti posti, scuole, agenzie, amici, finché non trovammo Richie Andrusco, che si rivelò la scelta ideale. All’inizio Richie guardava spesso in macchina, ma in breve fece esperienza, e spesso da vero professionista mi chiedeva di girare un solo ciak».

Richie Andrusco diventa il perfetto interprete di Joey, un bambino di 7 anni in fuga perché convinto, in seguito a uno scherzo, di aver ucciso il fratello maggiore Lennie. Il piccolo si rifugerà a Coney Island dove passerà un giorno e una notte interi tra la folla, il luna park e la spiaggia prima di tornare a casa assieme al fratello, giusto in tempo per non essere scoperti dalla madre. Engel, assieme allo sceneggiatore Ray Ashley e alla montatrice Ruth Orkin (sua futura compagna), sceglie di concentrare il proprio sguardo su Joey: lo segue con la telecamera ad altezza-bambino per raggiungere una maggiore immedesimazione tra lo spettatore e il protagonista e per evitare di mostrare più di quello che sarebbe possibile vedere da un personaggio di quell’età, aumentando così il realismo di tutta la vicenda.

Ma prima di tutto il regista, a livello narrativo, spezza in modo unico il sottile confine tra finzione e realtà per risolvere l’annoso problema dell’introduzione dei personaggi. Il film inizia con le immagini di Lennie che suona l’armonica e la voce di Joey che ce lo presenta: «Lui è Lennie, il mio fratello maggiore, oggi compie dodici anni. Questo è il suo regalo di compleanno: un’armonica. Lennie è bravo a suonare l’armonica e anche a giocare a baseball. Non si merita un regalo perché mi prende in giro di continuo. Non mi lascia neanche toccare la sua armonica». Siamo da subito portati a credere che assisteremo ad una storia narrata in prima persona dalla voce off di Joey. Ma ecco che poco dopo è la voce di Lennie ad intervenire: «Lui è Joey, il mio fratello minore. Tutti dicono sempre: ‘Non è da baciare?’ E baciatelo, allora! Joey non è male, ma in estate è una rottura perché la mamma lavora e devo badare io a lui. Sono contento che sia sabato. Joe è molto sveglio per la sua età, sa tutto sui cavalli, non pensa ad altro. Non conoscerete mai un bambino così matto per i cavalli». In pochi minuti non sappiamo bene davanti a che tipo di film ci stiamo trovando, ma sappiamo già quasi tutto dei protagonisti.

Con questo espediente può iniziare la vicenda vera e propria, solo apparentemente costituita dalla fuga di Joey. The Little Fugitive si rivela essere, invece, un vero e proprio documentario sul mondo dell’infanzia con le sue difficoltà, le sue incomprensioni, le sue crudeltà (basti pensare al pessimo scherzo ordito da Lennie e compagni per sbarazzarsi di Joey) e la sua capacità di trovare sempre una “bizzarra” soluzione in ogni circostanza.

Con la mobile telecamera di Engel seguiamo Joey nelle sue peregrinazioni senza vedere oltre la sua testa, “costretti” in un certo senso a questo punto di vista straniante che rimanda più al reportage che al film di finzione. E proprio a questo proposito risulta ancora oggi incredibile la perfetta gestione di Engel nel passare da uno stile all’altro. Il prologo dello scherzo di Lennie a Joey e l’epilogo con il ritorno a casa dei due bambini sono gli elementi “fittizi” che incorniciano la parte documentaristica centrale donandole quella suspense necessaria a non dimenticarci che stiamo guardando un film su un bambino solo in mezzo a sconosciuti. Sconosciuti, del resto, che quasi mai vengono mostrati dalla cintola in su, ma solo attraverso le loro gambe che passano vicino al protagonista, senza considerarlo più di tanto e interagendo al minimo con lui, permettendo così a Engel di limitare i dialoghi e di non dover interrompere il proprio sguardo di osservatore con campi e controcampi o con scene di raccordo che vanificherebbero la ricerca di realtà del regista.

Con questo non bisogna credere che The Little Fugitive manchi di profondità e di complessità: i temi trattati, come la morte, la solitudine e la lontananza da casa, vengono fuori regolarmente, ma rappresentati più attraverso gli sguardi di Joey o il suo modo di comportarsi che attraverso le parole, usando, quindi, più l’immagine che la voce. Joey, inoltre, si rivela, narrativamente, un personaggio molto più sfaccettato di quanto possiamo credere: il suo carattere e il suo modo di affrontare le cose si modificano man mano che il film procede rivelando capacità e risorse nascoste; come in una sorta di bildungsroman, infatti, lo spettatore è accompagnato da Joey nella sua crescita e nella sua trasformazione dal bambino piagnucoloso e vulnerabile del prologo a quello sveglio e “responsabile” che va avanti e indietro per la spiaggia alla ricerca di vuoti da rendere per 5 centesimi a bottiglia per pagarsi, così, il giro sulle giostre o sul tanto agognato pony.

Del resto, a proposito di spiaggia, come non pensare subito al finale di Les 400 coups di François Truffaut, regista che ha più volte dichiarato la propria ammirazione e il proprio debito verso il lungometraggio di Engel? E, non a caso, molta della trama del primo capitolo su Antoine Doinel assomiglia alla storia di  Joey. D’altra parte, guardando Lennie e i suoi amici, come non fare un rapido confronto coi bambini di Sciuscià del duo De Sica-Zavattini? Bambini perlopiù “raccontati” come in un romanzo, a differenza di quelli di Engel quasi solo “mostrati”. Non è, quindi, casuale che proprio The Little Fugitive sia considerato, da molti storici del cinema, l’anello mancante tra il Neorealismo e le varie nouvelles vagues. Il film di Engel rappresenta alla perfezione il concetto di “cinéma vérité” di Edgar Morin, un film «vero come un documentario, ma col contenuto di un film romanzesco, cioè col contenuto della vita soggettiva». Una soggettività che il regista americano, assieme a Ashley e Orkin, continuerà a cercare anche nei lavori successivi: come dimostra la sequenza della visita al Museum of Modern Art di New York in Lovers and Lollipops, che colpisce per la sua realistica naturalezza; o il personaggio della piccola Peggy, impertinente ed egocentrica, così vera e lontana dal canone del bambino idealizzato nella tv e nel cinema degli anni ’50; senza dimenticare l’improvvisazione nei dialoghi dei personaggi di Weddings and Babies, primo film girato in 35 mm con una telecamera a mano, strumento essenziale al regista per stare “attaccato” ai suoi protagonisti.

Il Cassavetes di Shadows, in particolare, proseguirà questo lavoro di distacco dalla narrazione “classica”, improvvisando spesso i dialoghi e mantenendo la ricerca di mistura tra film di finzione e film documentario; rivelando, inoltre, come il “metodo” usato da Engel possa permettere di raggiungere un più completo e maturo linguaggio cinematografico per i registi successivi.

L’omaggio tributato ad Engel recentemente all’ultimo Festival di Venezia con la proiezione di The Little Fugitive all'interno di “Venezia Classici” e l’uscita a settembre in dvd del film in versione originale sottotitolata in italiano, vanno, finalmente, a colmare una lacuna e non rappresentano un semplice gesto cinefilo, ma rivelano un consapevole sguardo verso il cinema del presente e del futuro. Tanto importante è stata, ed è ancora, l’innovativa sperimentazione di Morris Engel e dei suoi collaboratori Ray Ashley e Ruth Orkin.

 

IL PICCOLO FUGGITIVO (The Little Fugitive), regia di Morris Engel, Ruth Orkin, Ray Ashley, USA, 1953, 75' (Ripley)