Essendo in alcuni uomini la tendenza verso una vita attiva, febbrile, avventurosa, fatta di moto e di continui viaggi, e in altri, l'amore per un'esistenza comoda, chiusa, calma, senza ambascie, ogni umana attività sembra improntata a un aspetto dinamico o di quiete, a seconda che essa attività venga svolta da uomini dell'una o dell'altra tendenza. Esiste pertanto, come effetto delle volontà ad essa preposte, anche una cinematografia che vorremmo chiamare nomade, e una cinematografia che per antitesi all'altra chiameremo sedentaria.

Abbiamo usato il termine «nomade» per esprimere quella attività cinematografica che si svolge con la migrazione (verso terre, vicine o lontane, entro o fuori il proprio continente) del complesso di gente necessaria alla realizzazione di un film. Usiamo, per contro, l'altro termine, cioè «sedentaria», per significare l'affrettata, la circoscritta, la borghese, l'anemica cinematografia che non varca mai la soglia del teatro di posa. Sovente leggiamo di lunghi viaggi intrapresi verso terre remote per la ripresa di scene o di interi film. È di ieri l'esempio del viaggio africano di Alessandrini del di lui stato maggiore per inquadrare nei luoghi storici la figura di Abuna Messias.

Quando si parte si va in cerca di scenari che solo la natura può apprestare nel debito modo; si muove alla ricerca di naturali elementi che diano maturità all'atmosfera, verosimiglianza agli elementi, carattere alle vicende. Ogni approdo a lontane rive non solo è pienamente giustificato dalle esigenze, ma viene, a mio avviso, addirittura imposto dalle necessità dei vari film, per cui nessun fantasioso scenario, immaginato e costruito dall'uomo, può avere efficacia e valore quanto l'altro, creato e disposto dalle leggi o dal capriccio della natura.

Parallelamente però l'affermarsi di questa vitale necessità è venuto prendendo piede nel cinema una specie di scuola della vita comoda, del sedentarismo borghese. Constatazione quest'ultima tanto dolorosa per noi in quanto, dall'alleanza del sedentarismo con lo spirito commerciale dei produttori è venuta alla cinematografia italiana la mediocrissima produzione che fino a mesi addietro (e in parte anche oggi) ha dato il tono a tutto quanto da parte nostra veniva fatto nel cinema.

La cinematografia sedentaria è ora, come è stata, il regno di Bengòdi, dei falsi in atto pubblico perpetrati dal cinema: i modellini di legno o dipinti su fondali assumono, grazie al trucco dell'obiettivo, forme gigantesche e pertanto simili alle naturali proporzioni; s'innalzano e demoliscono città di cartapesta; continua la moda americana delle baracche di legno in mezzo all'acqua, e su ogni baracca la maschera d'un palazzo veneziano, per dare il senso posticcio della città italiana. La jungla, la landa, l'oasi, la tundra, quando si pensò di uscire dagli studi per affrontare simili scenari, sorsero ai limiti delle città, o addirittura nel recinto del teatro di posa, o nel cuore di amene campagne all'uopo mascherate, come i finti paesaggi polari dei giardini zoologici. Si ricorse, insomma, a tanti sotterfugi inimmaginabili e strani, a trucchi da illusionisti e da prestigiatori, tutti fatti che, falsando l'aspetto naturale delle cose, tradito da inadatte mistificazioni, offrivano il vantaggio di maggiori comodità, di minore perdita di tempo, e di più limitati dispendi.

Ma ogni vicenda, non è superfluo ripeterlo, prende vita, vigore e verosimiglianza dal tono giusto dell'atmosfera e dell'ambiente in cui essa si svolge; e ogni finzione non può che nuocere alla sua efficacia. Perciò la cinematografia che incondizionatamente approviamo è quella che abbiamo definito nomade, e ciò anche in considerazione del fatto che per noi il cinema è aria libera, e poesia della natura, con gli uomini che in essa natura, e in funzione di essa, si muovono.

Più innanzi abbiamo accennato agli svantaggi che vennero al cinema italiano dall'impoltronirsi del nostro mondo cinematografico fino a cadere nella cinematografia sedentaria, borghese e dabbene. A solo considerare la ricchezza, la varietà, la luce, le piacevoli e poetiche sorprese del paesaggio italiano bisogna stupirsi come presso di noi non sia quasi di moda, o perlomeno non sia divenuta una imprescindibile necessità dell'animo la valorizzazione e lo sfruttamento di questa meravigliosa terra a vantaggio del nostro cinematografo.

Mi è capitato quest'anno di ritornare, come ogni estate, in alcuni luoghi che un giorno, tra il generale stupore, videro arrivare uomini con la macchina da presa e una schiera d'attori che facevano il teatro per le strade. Era direttore Genina, e capo degli attori il compianto Amleto Novelli: si giravano alcune scene de Il corsaro. Fu nel millenovecentoventidue. Molta gente, piena di curiosità, si mosse dal mio paese, e affrontò dieci chilometri di strada, fino al mare, per vedere il miracolo della ripresa del film. Se ne parlò per molto tempo. Qualcuno si vantava d'aver toccato la mano del grande attore. Le dieci lire guadagnate dalle comparse sembravano una munifica elargizione per una sgattaiolata sotto le rocce con un lenzuolo bianco gettato sulle spalle. Ricordo qualche cosa del film per averlo veduto qualche anno dopo la sua realizzazione. Per quanti sforzi abbia potuto fare non mi riuscì di scoprire mio fratello fra le comparse dei pirati. Ora ho soprattutto in mente la maschera di Novelli, ritto a prua del veliero corsaro, sullo sfondo di mare che gli faceva altalena dietro la testa.

Una persona degna di fede mi dice oggi che la pellicola era in complesso assai mediocre, con tutto che Genina (non so se ad altri) va un grande merito: quello d'aver scoperto un posto meraviglioso per il suo film.

Un paesino su un colle proteso nel mare, con le case addossate, aggrappate l'una all'altra, puntellate da contrafforti, archi, archi rampanti, con tante viuzze tortuose e comunicanti tra loro in modo bizzarro, come le cavità d'un padiglione auricolare. Qualcosa fra la Casbah e Capri vecchia, singolare, poetica e misteriosa.

Dopo la prova nel Corsaro nessuno si ricordò più di questi luoghi, e rivederli ogni anno ho l'impressione che essi attendano una macchina da presa.

Tra quelle mura ogni personaggio sarebbe come creato una seconda volta con caravaggesca evidenza. Il volto delle pietre e delle rocce ha aspetti quasi umani: ogni scenario, ogni via ha come una sua storia, una sua vicenda da narrare. Aspettano solo che vadano gli uomini a fingere quelle vicende, a riviverle secondo i dettami dell'arte, e una macchina da presa a fissarle sul nastro di pellicola.

E questo è solo uno degl'infiniti luoghi d'Italia che attendono quella che noi abbiamo chiamata la cinematografia nomade.

(Da “Cinema”, n.78, 1939)