Passato inosservato all'ultimo festival di Venezia e con poche probabilità di approdare sui nostri schermi, Night Moves è un film lucido e implacabile di Kelly Reichardt, regista dalla voce unica nel panorama del cinema americano contemporaneo. Una brezza dolente che porta con sé gli echi sommessi della New Hollywood soffia sul trio di ingenui protagonisti e ispira il titolo, omonimo al capolavoro di Arthur Penn (in Italia Bersaglio di notte, 1975): regna lo stesso senso di inutilità, la sconfitta di ideali tanto più fragili qui quanto più energicamente difesi allora. È nello scarto tra il cinema contestatario di quarant'anni fa e quello, impossibile (impensabile?) di oggi che si consuma l'ennesima frattura tra una generazione che dopo aver messo in discussione il sistema ha deposto le armi (o era solo immaginazione al potere?) e riconsegnato ai figli un mondo ancora più radicalmente disuguale e alienante di quello precedente. Monadi isolate e destrutturate, i nuovi rivoltosi trovano rifugio nel credo ambientalista: l'ideale di un'oasi di speranza nel deserto dei valori, l'illusione di un microorganismo sano al riparo dal contagio di un organismo malato, se non già in via di decomposizione.

Il maleassortito trio di giovani militanti è cieco di fronte al gigante che combatte: vede una diga da abbattere, ma non la cascata di morte che potrebbe provocare il cedimento della parete. Travolti a loro volta, non sanno come tenersi a galla, non hanno niente che li sostenga e le porte gli si chiudono in faccia persino all'interno del recinto che li ha accolti in seno e nutriti. Lo sguardo della Reichardt è distaccato, non freddo ma muto: vietato scambiare per mancanza di compassione la dolorosa consapevolezza di uno sfaldamento sociale che trasforma le acque placide di un lago artificiale nella cupa palude in cui sprofondano i sogni di ribellione. Una tensione sottile si annida tra le sponde di un thriller minimalista, teso come filo elettrico a trasmettere il massimo del voltaggio in due scene magistrali: quella notturna della diga, con il lento approssimarsi della barca a remi e la lunga sosta in attesa dell'allontanamento di un possibile testimone; e quella tanto immediata quanto inattesa dell'omicidio nel centro di benessere. Nel finale, si consuma la più classica delle sconfitte, la fuga impossibile che ha segnato il miglior cinema hollywoodiano dell'ultima metà di secolo, tra il parcheggio di Cinque pezzi facili e la plongée che scruta dall'alto l'immobilità del superstite, come nell'altro Night Moves, e il suo celebre finale avvitato su se stesso.

Parecchi hanno storto il naso di fronte a quest'oggetto perfettamente intagliato (dove la perfezione sta nella messa in scena e non certo nella spiegabilità di azioni e conseguenze): c'è chi l'ha definito moralista e chi ne ha messo in discussione la verosimiglianza, dimenticando che la sconfitta dei tre protagonisti è inscritta nella loro ingenuità e scarsa consapevolezza politica. Perché il film proprio di questo parla: dell'assenza di politica, di un terrorismo scisso dal reale, di una volontà di cambiare che presume di poter prescindere da una radicale messa in discussione del sistema. E come nel precedente Old Joy, i protagonisti del film della Reichardt sono ancora una volta ciechi di fronte a quello che succede loro, incapaci di ascoltare l'altro, ma soprattutto di leggere dentro se stessi.

 

Night Moves, regia di Kelly Reichardt, USA 2013, 112'.