Sarà da ingenui, ma continuiamo ostinatamente a pensare che i film costituiscano il tessuto connettivo di una comunità che, una volta formato, possa essere definito cinema; ossia l’insieme di una serie di esperienze che diventano una tradizione testuale. Luogo-narrazione della comunità che in esso si riflette e che da esso prende le mosse per mettersi in crisi come (possibilità di) linguaggio ed esplorare altre articolazioni di racconto, espressione o, perché no?, politica.

Non si tratta, banalmente, dell’idea di cinema inteso come una sorta d’immagine traslata sociologicamente dei processi del sociale: la vecchia, affascinante idea che i processi di produzione si riflettano puntualmente nelle forme del racconto in una relazione di ineluttabile ed esclusiva corrispondenza. Come sappiamo si tratta di rapporti ben più articolati e complessi di quanto un certo volontarismo ideologico amerebbe credere.

E se è vero che la produzione e il sociale determinano parzialmente le modalità del racconto e del suo relazionarsi con chi guarda i film, è altrettanto vero che il cinema esiste anche sul piano della propria storia e della propria tradizione testuale. Un film esiste ed esisterà ben al di là delle specifiche condizioni produttive che lo hanno posto in essere. E se la storia della sua percezione critica non potrà prescindere da esse, è pur vero che il film stesso, attraverso l’articolarsi dei suoi rapporti con la comunità che lo accoglie e lo vive, trascende il proprio dato di partenza e si offre come ipotetico punto zero dal quale continuare a esistere instancabilmente in un continuo processo rigenerativo. "Nascita di una nazione", per intenderci: noi siamo ancora i primi a sapere che D.W. Griffith è esistito. Le modalità attraverso le quali si articolano i rapporti fra un film e il reale sono le medesime attraverso le quali è pensabile la possibilità di una comunità che nel film trova un’ipotesi – po(i)etica ­– di progetto.

Semmai, e ne abbiamo il riscontro ogni qual volta ci confrontiamo con il cosiddetto “cinema del reale”, è la forma del cinema a interrogare il sociale, a metterlo in discussione, a porsi il problema di un “altro reale”, e pertanto a ipotizzare la possibilità di un altro mondo. Un mondo da verificare, forse da realizzare, senz’altro da ridiscutere nel momento stesso in cui sembra concretizzarsi.

Il cinema, dunque, è quella terra di mezzo che ci permette di passare da un punto al successivo e si cancella man mano che si procede. Arte dell’oggi, il cinema non pensa al passato: la sua tradizione testuale è sempre una faccenda del presente. Il “valore” di ieri è la “valuta” del presente: se circola o è fatta circuitare è utile e permette il farsi di un pensiero del cinema; se è immobile, la valuta diventa normativa, mero strumento per misurare il farsi del cinema su presunti parametri aurei che, inevitabilmente, ne limitano le possibilità formando così un gusto lontano dai quei medesimi processi della Storia che invece s’invocano quale metro ultimo del cinema “utile” e “giusto”.

Questo per affermare, con buona pace di tutti, che “un altro cinema” esiste, e continua a essere praticato e pensato (nel senso che esiste solo un “altro” cinema… controcampo perennemente differito di un altrove in rotta di collisione con le ragioni dell’esistente: tutto il resto è collaborazionismo). La differenza, banalissima, è fra norma e alterità; fra esistente e scarto; fra produzione e residuo; fra desiderio e seduzione; e, se proprio si vuole, fra legge e… giustizia.

Tra coloro che lavorano instancabilmente a un cinema non conciliato, figura il catalano Albert Serra, prodigioso e ironico talento rivelatosi con nel 2006 con Honor de cavalleria che è, senz’ombra di dubbio, la più fedele – e inventiva –  trasposizione del Don Chisciotte della Mancia di Cervantes.

Serra è un regista a dir poco idiosincratico e possiede un tratto comune ai grandi modernisti dello scorso cine-secolo: rendere il proprio angolo di mondo il centro stesso dell’universo. Da Lino Brocka a Manoel de Oliveira, la decentralizzazione del cinema si è operata attraverso un riposizionamento territoriale che si è accompagnato all’affermarsi del nuovo cinema stesso. Il mondo si rivelava a noi attraverso il “nuovo” cinema. Come dire che nel mondo si entra – anche – attraverso il cinema. L’uno diventa immagine dell’altro.

Serra questo l’ha senz’altro compresa. Nel suo atteggiarsi a dandy fuori tempo massimo, assecondando un estetismo che sino a ora non ha mai (ancora…) indugiato pigramente nell’estenuazione del segno, Serra rivendica una territorialità “aperta” che si offre come l’immagine stessa di una certa idea di cinema. Si filma sempre da un luogo, un luogo preciso. Ossia, si sta nel mondo (un altro che pratica quest’idea è ovviamente Joao Pedro Rodrigues, anche se con risultati non sempre convincenti, a nostro avviso). In un mondo attraverso il quale si parla e dal quale si è parlati. Il cinema lo si fa con le cose del mondo, non di tutto il mondo, ma di quell'angolo di mondo che conosciamo e che, attraverso il lavoro del cinema, può essere partecipato e diventare esperienza in grado di accoglierne altre e così aprirsi ancora una volta. Il mondo è il segno dei mondi.

Serra, alla stregua di certi grandi come Monteiro e de Oliveira, mette in scena tutto il mondo dietro l’angolo di casa. In questo cortocircuito risiede un’idea strutturalmente rosselliniana: il mondo può essere evocato con pochi segni, pochi elementi che è anche una politica del fare.

In quest’angolo di mondo dietro casa (sua/nostra), Serra gioca a inventare il cinema. Siamo sempre lì, ai Lumiere, all’aurora, alla prima luce.

Nel suo gesto, in cui traspare ancora l’evidente piacere del filmare, il cinema, residuale di suo, è il collante che rimette in vita frammenti di altri mondi. All’alba si torna sempre alla vita, seppur affaticati dalla lotta con il buio.

Nel crepuscolo di Casanova – e non si fatica affatto a immaginare il film di Serra come unico possibile sequel del capolavoro felliniano – si celebra la fine del mondo occidentale inteso come regno della ragione unica, dell’illuminismo risucchiato dal romanticismo terminale incarnato da Dracula. L’Europa della ragione che soccombe dinnanzi al proprio mito dell’assoluto.

E se Dracula nel romanzo di Stoker viene sconfitto, macluhanianamente, dai mezzi di comunicazione di massa, dal treno al telegramma, nel film di Serra l’enciclopedico e razionalista Casanova, non insensibile all’alchimia – simile in questo al principe napoletano di San Severo – trasforma le proprie feci in oro come un novello Faust. Casanova, dunque, reca in sé, nel proprio essere (servo)meccanismo intellettuale celibe, collezionista, il destino del proprio tempo. Il trionfo sulle cose del mondo diventa dunque dominio (non a caso Faust rappresenta il tassello sokuroviano finale nella riflessione sulle forme del potere). Quindi Casanova è artefice della propria fine, vittima predestinata delle tenebre incarnate da Dracula.

Historia de la meva mort – storia della mia morte – rovesciamento ironico delle memorie del veneziano incarna dunque la parabola della fine del secolo dei lumi di fronte alla forza dell’irrazionalismo ma anche la solitudine di quest’ultimo di fronte alla storia. Cos’altro è l’urlo disperato di Dracula alla fine del film?

Serra, da buon (post)modernista gioca con elementi della letteratura, della storia e del sapere. Non teme il loro precipitato testuale, anzi lo sfida e lo accoglie, dilata i tempi e li reinventa su scala minore, ritrovandone così il loro valore d’uso. In principio fu la fine. Il film diventa così il processo del fare il film. Il dispositivo di riproduzione diventa luogo nel luogo; ed è da questo conflitto che emergono le immagini del film. L’esserci dei corpi nel film rispetto al mondo che ne ha accolto la lavorazione.

Quello di Serra è un materialismo malinconico, consapevole della caducità di tutte le cose. Esemplare l’incipit del film, davvero magnifico, dove proprio nella sparizione delle cose del mondo si fa largo il mistero di Dio. Non a caso El senyor ha fet en mi meravelles.

Rispetto a El cant des ocells, dove Serra si poneva chiaramente il problema dell’origine, intesa come immagine prima e possibilità di essere ancora nel mondo, Historia de la meva mort è tutto calato nel buio della storia. Casanova, alle soglie dell’era della riproduzione tecnica dell’opera d’arte, diventa egli stesso parodia meccanica, jarryana, dell’impeto vitale di una volta (esemplari i suoi coiti mnemonici, minimali).

I nomi di Cristo, per riprendere un altro dei titoli della filmografia di Serra, ossia possibilità di denominazione infinita delle cose del e nel mondo, e quindi principio di realtà in continuo divenire, sembrano come estinguersi nell’impatto con l’atmosfera della storia.

Come una scia luminosa nel buio, i corpi di Serra si estinguono per consunzione. “Desideri stilizzati dalla notte e rivelati dal giorno”, per utilizzare le parole del regista. In questo conflitto, il gesto del regista, profondamente ironico, si offre come laboratorio di una pedagogia del fare. Un cinema che, giunto alla fine dei tempi, proprio con il tempo della Storia riprende a fare i conti a partire dai detriti dei degli uomini che in essa ancora si trova.

Serra, proprio come il suo Casanova, trasforma alchemicamente i rifiuti in articolazioni del senso, anch’esse residuali, come una sorta di ultima e strenua resistenza del piacere e del gusto.