La figura di Emma Dante in quanto artista teatrale, sin dai primordi della sua attività – a cominciare dai maestri presso cui è andata a bottega (Michele Perriera, Enzo Siciliano e Mario Ferrero tra gli altri) – si è inserita in una nicchia concava a metà tra sfrenate provocazioni tutte meridionali (con un asterisco specifico a Palermo) e una violenta e incisiva passione per la rivisitazione del concetto, all'artista quasi mai del tutto congeniale, di classicità. Opere aggressive come Cani di Bancata, Il Festino e Le Pulle hanno consentito all'autrice palermitana di ritagliarsi un posto privilegiato nel panorama teatrale italiano contemporaneo, strizzando l'occhio al pubblico e, parimenti, alla benevolenza delle avanguardie. Obiettivo cui la Dante mira anche con Via Castellana Bandiera, trasposizione cinematografica che segna il suo debutto alla regia e alla recitazione cinematografica: la via che dà il titolo al film è un budello della periferia di Palermo in cui si incrociano le sorti e le automobili di un'afasica anziana signora di origini albanesi con famiglia ingombrante alle spalle e di un'omosessuale con fidanzata punk e petulante a carico: la strada è stretta, e nessuna ha intenzione di lasciar passare l'altra. Fosse stato il soggetto di un cortometraggio, ne avrebbe garantito la perfezione: vicenda surreale, scirocco palermitano, dimensione sfasata spazio-temporale.

Il problema maggiore di Via Castellana Bandiera, però, è che si tratta di un lungometraggio; nel caso specifico, di un lungometraggio che l'autrice/regista/attrice protagonista non riesce a reggere con vigore e potenza di sguardo, preferendo concedersi a una sequela di rimedi cinematografici di accomodante affabilità. Su tutti, un simbolismo ammuffito e anacronistico che vorrebbe racchiudere l'opera stessa in una gabbia metaforica che attanaglierebbe – nelle intenzioni della diva palermitana – l'umanità, Palermo, il Meridione, etc. È davvero così? Quanto ci dice sulla contemporaneità il dettaglio di un'inquadratura che si sofferma su un'iconcina della Madonna? Quanto è spietato il carrello dall'alto di un'anziana donna riversa su una tomba e affiancata da randagi nella medesima posizione su altre lapidi? Affidarsi a questi espedienti di comodo e velatamente furbo-retorici non basta, a Via Castellana Bandiera, per risollevarsi da una mollezza alla base che ne abbranca la seconda metà, rendendola ostica e poco interessante, appannaggio esclusivo delle combattive protagoniste; sullo sfondo una Palermo mai così noiosa, avvilita dal vociare degli abitanti del budello che la Dante vorrebbe sagaci, bastardi e acutamente grammelotiani – ma che purtroppo sono soltanto rumorosi e ingombranti.

Il duello tra le due donne è spesso irritante, giocato su assonanze e richiami cinematografici facili e, ancora una volta, momenti segnati da irritanti tentativi di provocazione. Tutto vorrebbe essere cattivo in Via Castellana Bandiera, e nei propositi di Emma Dante per la sua storia; ma l'unico barlume di spietata ferocia vive nei disegni di Alba Rohrwacher, impietosi cronisti di una storia che – sullo schermo – non funziona e si autodistrugge. L'esasperante long take finale, in apparenza liberatorio e volto a sciogliere ogni tipo di tensione, è l'ennesima dimostrazione di come l'esordio cinematografico della Dante sia insicuro, lontano dalle forme della personalizzazione e, assecondando determinati modi di rappresentazione, tristemente pigro.

 

Via Castellana Bandiera, regia di Emma Dante, Italia/Svizzera 2013, 94'.