Se la realtà delle cose, dico anche quella esteriore e formale, non avesse che un volto, un solo aspetto e quasi una sola superficie, saremmo forse disposti ad ammettere che la cinematografia non è un'arte. Per dare un po' di soddisfazione a quanti, ancora oggi, asseriscono non essere arte quella che “riproduce fotograficamente la realtà”.

Ma i fatti ci smentirebbero. Le cose, gli esseri umani stessi, tutto il panorama della vita, varia di aspetto ad ogni attimo, si dissolve continuamente e si ricrea con nuova fisionomia. La strada in cui passate ogni giorno, sol che la guardiate d'improvviso tutta, e non quella parte che sempre ne vedete lungo il cammino affrettato, è nuova per voi come una strada mai percorsa. Un paesaggio che al mattino vi era sembrato incolore ed informe, alle prime luci della sera o nella calda luce pomeridiana vi interessa per un suo carattere nuovo di cui solo ora vi accorgete. Un volto, anche un volto mille volte scrutato, per un inatteso giuoco di luci o per uno scorcio improvviso vi appare d'un tratto come ignoto.

Piccole e banali esperienze di tutti i giorni: che servono, tuttavia, a comprendere la cinematografia più di un trattato d'estetica. Se la si concepisse come la pura e semplice riproduzione per mezzo della macchina da presa di una serie di elementi reali qualsiasi, della fotografia in movimento, non occorrerebbero discussioni a negarle valore d'arte. Ma nulla è così lontano da essa come questa sua apparenza esteriore e superficialissima; laddove la cinematografia si avvicina maggiormente appare il suo carattere di ricreazione, di trasfigurazione della realtà.

Ogni soggetto, ogni essere umano, ogni aspetto della vita, può essere riguardato da infiniti punti di vista differenti, in infinite condizioni di illuminazione, di movimento, di prospettiva, diverse fra loro: a ognuna di queste corrisponde un diverso volto dell'oggetto o dell'essere animato, un aspetto nuovo e spesso inatteso.

Ma questo aspetto non è sempre e soltanto visivo. È anche interiore: è anche rivelativo. Quel tanto di realtà trascendente che è rinchiuso in ogni elemento, l'anima di una persona per intenderci, o il valore significativo di un oggetto, non appare sempre in eguale misura in tutte le condizioni prospettiche e illuminative della persona o dell'oggetto stesso. Un particolare momento fra tutti questi è il momento nel quale tutto il valore interiore si manifesta anche in forma visiva e si esprime interamente.

La scelta di questo momento non dipende da una ricerca esteriore, da un “girare attorno” all'elemento: la serie dei punti di vista e delle condizioni è praticamente infinita e non basterebbe tutta la vita di un uomo a ricercare gli aspetti della più elementare forma plastica, un cubo o un tronco di cono. La scelta di questo momento ha un carattere intuitivo e dipende dalla maggiore o minore capacità del documentarista a scoprire e cogliere il valore visivo significativo. È artista, in cinematografia, per limitarci alla cinematografia, chi sa intuire il meraviglioso mondo delle significazioni celate dietro la forma.

Ogni realtà ha un suo significato, una rivelazione da dire, una parola da trasmettere agli uomini capaci di comprenderla. Le apparenze, anche le più esteriori e superficiali delle cose, non sono casuali o arbitrarie, ma hanno una loro profonda ragione, una radice essenziale nella realtà interiore che le cose stesse giustifica ed esalta. Il documentarista ne intuisce la presenza ed il significato e opera la trasfigurazione del significato stesso in una forma visiva e concreta che lo renda comprensibile anche a coloro che non lo scorgerebbero.

Nel documentario, come in ogni arte, interviene, dunque, un valore strettamente soggettivo, un valore interpretativo della realtà, quindi un valore artistico: la scelta del punto di vista assume funzione e carattere di atto creativo. Ma prima ancora che questa, un'altra scelta era intervenuta che basterebbe da sola a negare il carattere fotografico della cinematografia: la scelta del materiale.

Quando Barbaro ha realizzato Cantieri dell'Adriatico, quando Elter ha realizzato Miniere di Cogne, quando Matarazzo ha realizzato Littoria, nessuno dei tre ha pensato neppure lontanamente a riprendere tutti i cantieri o tutte le miniere o tutta la estensione di Littoria.

Matarazzo ha visto Littoria come una “costruzione”, Elter ha veduto le miniere di Cogne come un contrasto di interni ristretti ed esterni vastissimi, Barbaro ha sentito i cantieri dell'Adriatico come un “conglomerato umano tutto teso allo stesso lavoro”. Di fronte a queste concezioni, come è evidente, la realtà in sé non esisteva più. Nella serie dei valori da documentare al posto della espressione “miniera” o della espressione “Littoria” e di quella “cantieri”, espressioni artisticamente indeterminate e puramente concettuali, si erano inserite le forme che tali espressioni avevano assunto nella intuizione dei documentaristi.

Degli infiniti elementi che costituiscono i tre ambienti che abbiamo citato fino ad ora, degli infiniti elementi che costituiscono l'ambiente di Il ventre della città, documentario di Luciani [NDC di Francesco Di Cocco], pochissimi sono stati ripresi: ma da quei pochi sorge e si manifesta in piena espressione quella che era la sensazione particolare del regista, quella che era la sua visione soggettiva dell'ambiente stesso.

Il documentario dimostra che la cinematografia non è una riproduzione fotografica. Proprio il documentario, nel quale non esiste una azione comandata in vista di un determinato effetto artistico, non esiste una messa in scena suggerita da particolari “intenzioni”, ma solo la realtà agisce, nella sua forma più semplice e normale. Il documentario, fatto di cose concrete e solide, che non consentono dispersioni ma costringono a guardare le cose e gli uomini a fronte a fronte, obbligano ad una disciplina interiore e ad un equilibrio esteriore da cui le qualità del creatore cinematografico  possono risultare effettivmente, spoglie da ogni lenocinio formale e tutte incise in profondità.

Sul finire del secolo scorso si accedeva al regno dell'arte per le vie dell'elzeviro: il volumetto di “bozzetti” o la raccoltina di liriche valevano da passaporto al giovane. Oggi la quotidiana ripresa di contatto con la realtà come fattore e materia d'arte, ha fatto sì che si acceda a quel tale regno tenendo a mano un documentario. Segniamo all'attivo della cinematografia il progresso enorme che si è compiuto.

(da: Bianco & Nero, a. II, n. 8, agosto 1938)