LE BEAU DANGER / René Frölke

Esule per necessità e per scelta, Norman Manea è sopravvissuto ai campi di concentramento e ha abbandonato la Romania per vivere e lavorare a New York. Il rifugio magico (pubblicato in Italia da Il Saggiatore) è un libro in cui i fantasmi del passato aleggiano su un presente minaccioso e dove la letteratura offre l'unica salvezza a un uomo dietro le cui fattezze non è difficile scorgere l'autore stesso. Il rapporto che lega l'essere umano al proprio vissuto e alla terra d'origine sono al centro di tutta la narrativa di Manea, e René Frolke trova il modo di indagarlo grazie a un film saggio in cui immagine e testo dialogano, e dove le parole stampate su schermo bianco fanno da contrappunto ai lunghi silenzi dello scrittore. La virtù maggiore del film è infatti quella di sondare con cauta gentilezza gli interstizi sospesi nella personalità di un uomo che ha fatto dello scrivere la propria voce. Pacati momenti di attesa (e apparente assenza), in cui l'autore romeno dà l'impressione di allontanarsi dalla scena, dall'immanenza dei luoghi, dell'hic et nunc, per raggiungere assorto un altrove in cui il passato personale si fa Storia. Il regista si serve di estratti televisivi (parecchi girati in Italia, tra un'intervista per la Rai e una presentazione al Salone del libro di Torino) e riprese in 16mm per dare vita a un ritratto lucido e sfuggente allo stesso tempo; ma è ricchissima anche la tessitura sonora, fatta di sovrapposizioni stranianti, collage rumoristici che rafforzano il senso di dislocazione proprio del personaggio e del film. Un'opera sottile e ricercata, che traduce le parole in immagini come il miglior cinema dovrebbe sempre saper fare. (Alessandro Stellino)

L'ENLÈVEMENT DE MICHEL HOUELLEBECQ / Guillame Nicloux

La leggenda metropolitana, intesa come premessa “reale” per la finzione, è sembrata offrire alcuni tra gli spunti più interessanti della sezione Forum di quest'anno: prendendo le mosse dalle dicerie sulla misteriosa scomparsa del controverso autore francese nel 2011, L'Enlévement de Michel Houellebecq inscena, come spiega il titolo, il suo rapimento, utilizzando lo scrittore nei panni di se stesso. Non ad opera di Al Qaeda come si vociferò su internet, quanto di tre rom palestrati, dai modi bruschi ma tutt'altro che temibili, che lo condussero a vivere con la loro famiglia per chiedere poi un riscatto. L'incontro/scontro tra mondi diversi assume a volte connotati volutamente macchiettistici (intellettuale francese vs zingari patiti di wrestling) che sono parte del registro della commedia. Un secondo elemento comico è offerto dall'altro inevitabile disequilibrio tra le due parti: anche se spesso lo scrittore sembra più un ospite, il suo ruolo è pur sempre quello di un prigioniero. Ma il film punta a sovvertire i ruoli dei protagonisti: più dell'umanità dei rapitori, non privi di una propria sensibilità e di acute opinioni sull'attualità e sul mondo che il loro prigioniero rappresenta ai loro occhi, a stupire è quella di Houellebecq, in un'inedita versione in cui il tipico cinismo appare mitigato da una disarmante vulnerabilità. Il formato digitale e la fotografia quasi “amatoriale” sembrano voler alludere a una dimensione realistica di girato, suggerendo un'effettiva presenza di Nicloux durante il rapimento più che un suo reenactment. Una scelta non fuori luogo: sebbene con il sospetto che il tutto non sia che un'operazione autopromozionale di Houellebecq stesso, il suo enlévement offre comunque una riflessione sempre godibile e intelligente sul labile confine tra fiction e vita reale. Specie di quella di uno scrittore. (Elisa Cuter)

KUMIKO, THE TREASURE HUNTER / David Zellner

Secondo un leggenda metropolitana, nel dicembre del 2001 una donna giapponese, convinta che la storia raccontata nel film Fargo fosse realmente accaduta, avrebbe trovato la morte fra le nevi del Minnesota nel tentativo di recuperare il milione di dollari nascosto dai rapinatori del film. È sulla base di questo spunto, oggetto già nel 2003 di un documentario per la TV britannica, che i fratelli David e Nathan Zellner confezionano un prodotto in puro "Sundance Style" (produce Alexander Payne). L'eroina del titolo (Rinko Kikuchi) è una giovane impiegata di Tokyo quotidianamente vessata dall'anziano principale e da una madre invadente, che trova una valvola di sfogo in una vecchia VHS di Fargo, fino a sviluppare una bizzarra ossessione per le vicende narrate, ma soprattutto per quel tesoro sepolto nella neve. Inutile aspettarsi da Kumiko una qualche riflessione sul ruolo giocato dal cinema americano degli anni Novanta nell'immaginario globale, né sulla dicotomia fiction-non fiction. I due registi (emuli dei Coen almeno nella divisione dei ruoli: David dirige, Nathan produce, entrambi scrivono) si limitano a costruire una surreale fiaba sullo spaesamento – si vedano l'incipit e l'epilogo onirico – con alcuni momenti piacevoli. Soprattutto nella prima parte, un certo rigore della messa in scena permette trovate visive à la Tati (il furto del libro in biblioteca) e delicate caratterizzazioni (il coniglio su tutte), mentre nella seconda il film mostra rapidamente i propri limiti: il viaggio di Kumiko negli USA si snoda infatti fra canonici (non)luoghi e personaggi bizzarri della provincia americana, sconfinando nel già visto. Il risultato finale, insomma, è quello di un divertissement dal vago sapore cinefilo, una testimonianza forse involontaria dell'assunzione al rango di “classico contemporaneo” per il film di Joel e Ethan Coen. (Gabriele Gimmelli)