Quanto spazio resta alla critica cinematografica, stretta fra l’opinione dilagante e il consenso scalpitante in cerca disperata di un angolo di visibilità nel quale poter dichiarare che quanto afferma non è frutto di adesione a un consenso – più o meno – indiscriminato ma opinione personale e liberissima maturata criticamente al netto di altre opinioni in cerca di… visibilità?

Ovviamente non si tratta di tentare di stabilire un criterio, peraltro anacronistico, per capire se la critica cartacea sia superiore o meno alla consorella digitale o, viceversa, quest’ultima più avanzata rispetto a quella stampata. E non si tratta nemmeno di determinare come le due scritture operino. Se la stampa sia davvero ancorata al suo statuto di trasmissione orizzontale o la rete votata all’apnea dell’immersione verticale.

No. Il punto è un altro. Raramente il cinema ha conosciuto una maggiore espansione quantitativa e raramente, forse mai prima d’ora, il cinema in quanto forma e immagine di un linguaggio (ma forse sarebbe il caso di ricordare che si tratta di una vera e propria lingua) ha avuto l’opportunità di farsi parlare, essere detto, consumato, imitato, utilizzato e replicato.

Anche nella sfera dell’immagine cosiddetta digitale, tutto avviene in una prospettiva cinematografica. Il racconto primario dell’immagine in movimento è ancora quello del cinema. Anzi: l’immagine è diventata l’immagine stessa del cinema. Il cinema di fatto è diventato “noi”. Un luogo nel quale si esiste qualitativamente di più e meglio che altrove (convinzione, questa, che è parte integrante dell’ideologia che nutre a sua volta l’immagine del “grande cinema”). Il cinema è il luogo dal quale si parla o si aspira a parlare. La chimera, inevitabilmente, è raggiungere lo stesso “pubblico” del cinema. Diventare cinema parlandone (scrivendone).

Essere ascoltati (letti), inevitabilmente, coincide con l’essere visti.

 

Portatori sani di consenso

Per essere visti bisogna esistere. Nello sguardo dell’utente di critica cinematografica si cela la messa in esistenza di colui che scrive e parla del cinema. Esistere quindi all’interno dell’orizzonte del cinema stesso e della parola in esso ammessa, praticata, condivisa, accettata, è l’obiettivo ultimo, taciuto ma agognato. La parola, per essere vista, deve essere riconosciuta. Parola necessariamente investita d’autorità e quindi di legittimità. Parola produttrice di consenso al cui status, a quanto pare, non si può giungere se non diventando “portatori sani” di consenso.

La questione diventa: come si esiste all’interno dell’orizzonte determinato dal discorso delle cose del cinema? Come si può praticare una differenza rispetto al discorso del cinema? Una differenza in grado di darsi come traccia e non già come emanazione di una presenza originale, assoluta?

Nell’attraversare la quantità sterminata d’informazioni offertaci in quanto operatori del settore, soprattutto in vista dell’approssimarsi di un premio di categoria importante (caso macroscopico gli Oscar), si può vedere all’opera una tensione che muove con grande decisione verso l’indeterminazione del consenso.

L’ambizione alla differenza è ceduta volentieri in cambio dell’aspirazione o desiderio di parlare finalmente utilizzando una lingua nella quale, normativamente, in virtù della sua resistenza – o indifferenza – al dissenso si possa essere finalmente visti in quanto portatori di un logos, unico, e pertanto non discutibile. Parte integrante di un sistema che parla anche attraverso il singolo che, nell’esibizione della scelta di essere maggioritario, consensuale, ironicamente vorrebbe vedere affermata la propria autonomia decisionale. Politica.

Nel consenso, dunque, nell’indeterminazione di un discorso privo di differenze si affermerebbe, perversamente, la differenza primaria: quella della soggettività critica che si manifesta, razionalmente, perché proclama l’esistenza di quanto è già stato dichiarato esistente da fonti ritenute attendibili. Il soggetto critico, dunque, portatore di consenso, esiste perché parlando la lingua della norma, afferma un ordine di discorso all’apparenza razionale che non minaccia l’esistente attraverso la possibilità di una differenza. Di un dissenso, appunto.

Il critico, quindi, quello razionale, quello che si rende interprete del discorso utile, che fa suo il discorso della norma, trova nel consenso il luogo-narrazione del suo agire. Il teatro privilegiato per la messinscena della sua parola.

Il consenso, in questo modo, assurge quasi alla ricerca di una chiarezza espositiva esemplare, lontana dalle tentazioni della forma, del rischio, del piacere, della seduzione e forse anche del cinema stesso.

Come dire che la corsa verso il consenso è una tensione autoritaria del discorso critico che aspira all’affermazione del punto di vista unico, spacciandola però come esaltazione della differenza. La ricompensa, ironica, di quanti mirano al consenso è la promessa dell’unicità: così il critico che interpreta il consenso assurge a ruolo di arbitro. In questo modo dunque egli stesso, o meglio il suo discorso, diventa (strumento di) Consenso. Legittimazione ultima della parola critica che così può aspirare a esistere sul medesimo piano dell’oggetto del suo discorso.

Tale paradossale torsione individualista, paradossale perché si suppone che il discorso normativo, per quanto unico, sia comunque rivolto a una collettività da educare (è la sua missione “sociale”), provoca una sorta di dandysmo della mancanza di gusto.

Il critico portatore di consenso esibisce la propria limitatezza di gusto come una sorta di sofferta maturità estetica. Il film sarà sempre analizzato al contrario, ossia a partire dalle sue presunte limitazioni e non per il piacere o le sfide di cui si fa latore. E, soprattutto, il critico consensuale si porrà sempre davanti (o sopra rispetto) all’oggetto film e mai, o raramente, al suo servizio.

Ciò comporta anche che il cinema in quanto tale, sia sottoposto a periodiche rivisitazioni tassonomiche nelle quali lo si dichiara morto in quanto possibilità di esistere al di là delle forme di messa in scena note o individuate, per poi riesumarlo attraverso il contenutismo o altro.

Galateo dell'ipocrisia, o il critico nella piantagione

Esemplare osservare, per esempio, come un film di un autore a nostro giudizio ampiamente sopravvalutato come Steve McQueen, il cui 12 anni schiavo, annunciato come film epocale, è stato trattato proprio come tale da parte di una critica felice e unanimista divisa equamente fra rete e carta stampata (ovviamente il consenso è trasversale se no che consenso sarebbe?).

McQueen, già reduce dai panegirici che avevano accolto il suo precedente e tutto sommato abbastanza inutile Shame (qualcuno si ricorda di Diario di un vizio di Marco Ferreri?), con 12 anni schiavo si è reso fautore di un’operazione culturale decisamente discutibile sulla quale però è stato apposto il sigillo della correttezza politica camuffata, nel suo caso (considerati i trascorsi da video-artista), da visionarietà artistica, rigore formale e così via (mentre si continua allegramente a ignorare il lavoro di Kevin Jerome Everson). Curiosamente è proprio dalla comunità anglo-africana o afro-americana che si sono levate voci di dissenso più nette cui però non è stata prestata molta attenzione (anche se Armond White è stato radiato dal circolo dei critici di New York per avere manifestato il suo disappunto in forme non contemplate dal galateo). Ipocrisia nell’ipocrisia.

Ciò che è interessante non è che il film possa piacere o meno, ma l’insieme dei discorsi che sono stati prodotti su di esso a partire da un’iniziale beatificazione critica statunitense accolta senza nessuna obiezione o quasi (e bene ha fatto Giulia D’Agnolo Vallan su il manifesto a ricordare Mandingo di Richard Fleischer).

La rincorsa al consenso, che si configura evidentemente come un piacere o una strategia in sé, ha dato luogo a una serie di clamorose ovvietà ammantate da un umanesimo molto sospetto nel quale il leitmotiv era che la presunta violenza dell’esperienza sensoriale è in realtà la vera lezione morale del film di McQueen. La morale contenutista a monte diventa così oggetto di contemplazione estetica. Alla stregua di un comizio o di un’omelia. Guai a ricordare che dovrebbe essere l’estetica, ossia la scelta del soggetto che pratica un lavoro, il cinema, a farsi scelta etica in relazione ai materiali del reale e per come si è deciso di operare con (e non su) di essi. Così il cinema diventa, ancora una volta, strumento di un’emancipazione (politica, etica, morale, estetica) che, ironicamente, non può non passare attraverso un discorso normativo fautore di un consenso unidirezionale (dove l’abbiamo già sentita questa?). La lezione è tale e utile solo se è calata dall’alto. Sul cinema e sugli spettatori, beninteso. E pertanto si accetta e basta.

L’oggetto del contendere, ovviamente, non è il film di McQueen in quanto tale, che può piacere o meno, ma i discorsi che ha provocato, i quali sembravano girare a vuoto proprio come il malcapitato Solomon, che non solo gira in tondo su se stesso quando tenta di fuggire ma poi resta nella piantagione in attesa di salvezza. Come dire che la piantagione è il discorso maggioritario dalla quale non si fugge se non attraverso un intervento d’autorità dall’alto (i provvidenziali bianchi di turno; in questo caso l’orrida locandina, poi ritirata, con il faccione di Brad Pitt coglieva con precisione l’ideologia del film). Il critico, fatalmente, diventa Solomon che, nella piantagione, non riesce a trovare la via di casa. E quindi tutti a parlare il linguaggio della piantagione nella speranza malfondata di lasciarsela alle spalle. Quando si dice coincidenza fra discorso e soggetto.

Burocrati dell'immaginario

Altrettanto interessante, le stroncature, anche in questo divise equamente fra rete e carta stampata, di un film come American Hustle, la cui evidente, dichiarata e gioiosa filiazione scorsesiana è stata fatale al volenteroso David O. Russell che invece si rivela cineasta derivativo, sì, ma anche dotato di un gusto settantesco in minore, come un Hal Ashby degli anni zero. (Certo, adesso il vintage [qu’est-ce que c’est?] equivale a una messa in stato d’accusa…).

E proprio come Ashby, anche lui considerato cineasta di seconda fila all’epoca ma in costante crescita critica (come testimonia l’attenzione che gli ha dedicato uno studioso come Nick Dawson), Russell è fautore di un cinema gioioso, complesso, ancorato nel reale statunitense, e completamente dentro gli ingranaggi del cinema (e allora?). Regista in crescita, che si concede il lusso di sbandate, non gode evidentemente delle immunità concesse ad altri autori, rispettabilissimi, come Darren Aronofsky, Paul T. Anderson o David Fincher.

Il piacere isterico di American Hustle, diametralmente opposto alla piattezza funeraria e arty del film di McQueen, possiede un’evidenza filmica condivisa, per esempio, anche da The Counsellor di Ridley Scott (altro titolo massacrato per amore di consenso prima ancora che raggiungesse gli schermi italiani). Titoli sui quali il recensore di turno sfoggia la propria arguzia linguistica, il livore o una presunta compostezza etica che in presenza di altri titoli dimentica di avere.

Atteggiamento, questo, estremamente riduttivo, nel senso proprio di riduzione della complessità, dove, in entrambi i casi, sia in quello del consenso che della stroncatura, ci sembra di cogliere all’opera una tensione a chiudere i discorsi piuttosto che a lasciarli aperti, a lasciarli galleggiare nello spazio della parola pubblica, per permettere alle immagini di farsi largo fra il complesso delle relazioni e delle articolazioni delle pratiche collettive.

Come burocrati dell’immaginario, si archivia la pratica, pronti a passare al prossimo titolo, in una frenesia schiettamente consumista, pronti per la prossima novità.

Come se la velocità della comunicazione pubblicitaria fosse necessariamente l’unica modalità nella e attraverso la quale comunicare. Per cui, sia la dichiarazione del capolavoro che la condanna di un film, debbono procedere in forme rapide e inappellabili. Tempi stretti, per poi passare rapidamente ad altro. Dove la velocità coincide con l’inappellabilità del giudizio. E che fine ha fatto il garantismo critico? Insomma, quel passaggio fra experience sensible e pratique d’une écriture, evocato da Georges Didi Hubermann in una bella intervista di Les Inrocks, lo si salta a piè pari in nome di un utilitarismo che si fonda sulla condivisibilità veloce dell’opinione. Inevitabile che a pagarne le conseguenze sia lo sguardo, lo strumento di lavoro principale dei critici. Sguardo posto in secondo piano rispetto allo sforzo di dire, principio produttivistico, che accumula opinioni, alla stregua di valuta inflazionata. Non meraviglia che “la critica sia in crisi”. Lo è perché il pensiero stesso che la nutre lo è, in crisi. Non c’è differenza nei “dire”, perché il “dire” stesso ormai dice pochissimo o nulla…

Certo rimane aperta la questione dell’effettiva circuitazione delle idee e delle immagini (ci si può alimentare muovendosi costantemente in circolo?). E resta aperta anche la questione di quanti film (o libri, o dischi, o amori…) vivano i fautori del consenso che sovente, invece, si agitano nella bolla d’acqua concessa dalla distribuzione commerciale o dei festival maggioritari (e qui entrano anche in gioco le modalità stesse della fruizione, questione che l’esorcismo della quantità non elude…). Insomma: qual è lo scambio che avviene mentre lo sguardo scruta le immagini di un film? Cosa si cede di se stessi e cosa si mette in gioco sul piano dello sguardo? Qual è lo spazio pubblico che lo sguardo – critico o meno che sia – attiva mentre lavora?

Come dire che, costretti a esercitarsi su un numero limitato di titoli all’anno, prende necessariamente (?) il sopravvento il bisogno d’essere visti rispetto al vedere. Il soggetto diventa colui che vede e non ciò che dovrebbe essere visto. Senza contare la torsione linguistica che inevitabilmente provoca l’usura e la corto-circuitazione del solito numero limitato di titoli sul pensiero, critico e non.

Non si spiegherebbe altrimenti come mai nessuno abbia messo in discussione, almeno parzialmente, gli elogi piovuti su Gravity, “capolavoro filosofico” di Cuaròn, macchina celibe e affascinante, oltre che imperfetta, ma comunque calata completamente dentro quei medesimi principi produttivi che reggono anche il cinema di un Michael Bay che invece “autore non è”. Non si spiega come mai di fronte a ogni nuovo film dei Coen ci si continui a rincorrere nel solco tracciato dalle indicazioni “culturali” dei due scaltri fratellini, senza mai mettere in discussione quel determinismo che ne soffoca il piacere (cosa notata da Franco La Polla, invece, sin da Blood Simple… intuizione critica mai ripresa o ridiscussa). E poi: come mai nessuno ha evidenziato che in tema di gatti “filosofici” i Coen son stati ampiamente anticipati dai fratelli Zellner di Goliath?

L'atto di uccidere, al limite dello sguardo

Più problematico quando ci si sposta sul terreno del cosiddetto cinema del reale. Su The Act of Killing di Joshua Oppenheimer, se si esclude il saggio di Robert Greene per il Bfi, e un’intervista molto interessante apparsa su Film Comment, la maggior parte ha preferito ripetere giudizi apparsi altrove enfatizzando la presunta radicalità dell’operazione. Laddove sulla questione dell’uccidere, cruciale rispetto all’ontologia del cinema, Gianfranco Rosi con El Sicario è andato ben oltre rispetto a Oppenheimer, radicalizzando a tal punto il proprio progetto da attirarsi quasi le accuse di… “finzione” (cosa che se fosse vera renderebbe ai nostri occhi il suo film ancora più importante…). Come dimenticare, poi, sulla questione dell’uccidere, Z32 di Avi Mograbi? Teatrino grottesco di maschere digitali che scivolano dalle facce come le menzogne del governo israeliano? E, infine, che dire di Of God and Dogs, firmato da un collettivo di cineasti siriani, che hanno raccolto la confessione di un soldato che ha ucciso un prigioniero inerme perché incapace di reggere alla violenza psicologica cui era sottoposto da parte dei suoi commilitoni durante un interrogatorio? Tutti questi film assumono l’atto dell’uccidere come limite dello sguardo mentre il film di Oppenheimer tematizza uno sguardo infinito che, mentre tematizza lo scandalo indicibile, di fatto lo abbraccia, se ne rende complice per “continuare a vedere” (il vedere deve andare avanti a tutti i costi, principio ideologico di fondo del film). Come opera limite, quella di Oppenheimer si muove davvero ai margini del visibile, ma allora perché Ulrich Seidl è un fascista?

Le questioni sin qui sollevate, in forme provocatoriamente apodittiche, sono, a nostro avviso, solo maschere, di una problematica che investe il vedere critico e che andrebbero indagate e discusse su un piano ampio, magari provando a smontare i piani del visibile ammesso e a ripensare quelli della parola e del linguaggio.

Come hanno fatto, per esempio, Andrew Bujalski con Computer Chess e Shane Carruth con Upstream Color, film caduti al di sotto della soglia dell’attenzione del consenso… ammesso.