Alto, biondo, il baffo attento, i tratti un poco tirati, Luciano Emmer, sorridendo (un irresistibile sorriso da giovane attore: ha trent'anni), si abbandona alle molle della poltrona. Solo le sue grandi braccia emergono dal cuoio ed introducono il tema:
 
– Ah! Io l'ho finito il mio lavoro! Tocca a voi, adesso.
 
Voi girerete, oggi?
 
– Sì, tutta la giornata, a Gare de Lyon, una scena del mio prossimo film: Paris est toujours Paris [Parigi è sempre Parigi].
 
Con degli attori professionisti?
 
– No, ovviamente, improvvisati. Scelti, ingaggiati sul posto: questa mattina un tassista, un facchino. Ve lo posso assicurare, loro hanno recitato… come dite voi? “du tonnerre de Dieu”.
 
Questa improvvisazione sul posto è caratteristica del vostro modo di lavorare in generale?
 
– No, non è un'improvvisazione. Voi comprenderete, noi abbiamo di partenza una linea generale, un'idea iniziale e direttrice. Poi, per ogni episodio, noi l'arricchiamo al momento del girato.
 
La differenza con il vostro lavoro precedente è sicuramente molto grande. Voglio dire, i film d'arte su Bosch, Giotto…
 
– Molto grande non credo. Quello che è stato diverso, è quando sono divenuto cineasta dopo degli studi in giurisprudenza molto accesi: avevo fatto tutti gli esami, tranne uno. Ma da quando faccio cinema io non penso di essere troppo cambiato. Da subito sono diventato professionista. Immediatamente, ovvero nel 1939, io ho girato in 35mm dei cortometraggi.
 
Il 16mm non vi sembra un mezzo di espressione valido?
 
– Non è quello che volevo dire. Il cinema non è una questione di millimetri; è un linguaggio attraverso il quale ci si esprime con uno spirito o con un altro. È per un certo spirito d'avanguardia che il 16mm si distingue dal 35.
 
Un linguaggio, dite?
 
– Sì. Il movimento è linguaggio, è materia del cinema. Visto che ho fin da subito adottato questa definizione, credo possa dire che non l'ho mai cambiata. Il movimento, credetemi, non è nella vita. Voi scegliete, nella vita, una serie di piccole scene isolate, fisse, diciamo di un quadro. È compito della macchina da presa registrarle e opporle oppure riunirle in seguito, creare il movimento attraverso questo montaggio. Giotto, lo sapete, ha fissato delle modalità per raccontare una storia. Ecco il linguaggio: creare il movimento, il ritmo. La mia macchina da presa non è una macchina fotografica, senza sbavature, dei personaggi che si muovono, ma una macchina che io posso muovere, andando di qua e di là, cambiando i punti di vista, attraverso i quali posso così creare della vita, delle esistenze, dei momenti importanti di una storia, un'impressione, un resoconto personale.
 
E quali esistenze, quali momenti vi sembra importante filmare?
 
– I giovani, e i rari istanti in cui loro non pensano a nulla.
 
Ma… perché?
 
– Perché non pensando a nulla, mostrano l'entusiasmo. Voi avete visto Domenica d'agosto… l'incontro di due giovani, breve, fortuito ma che, nella sua istantaneità, contiene tutto un avvenire, ecco cosa mi appassiona. Voglio essere vicino ai giovani d'oggi, ma questo presente è molto diverso: ai miei tempi, come nella vostra espressione francese, noi eravamo “futili”. Le ragazze, o i ciclisti del Tour de France (io tifavo Binda, mio fratello Guerra, ci scannavamo…) ci distraevano. Oggi sembriamo più realisti, più cinici. Più illusioni o evasioni: invece dei romanzi, noi leggiamo i Reader's Digests. Ma credo che in realtà (ed è questa realtà che io scelgo) tutti cercano qualcosa in cui sperare. In questa ricerca, io sono assieme a loro più di quanto possa dire. Ingenuamente.
 
Vi piace andare al cinema?
 
– Sì, molto. E non ci vado come regista, per apprezzare il lavoro dei colleghi. Io ci vado come semplice pubblico.
 
Malgrado questo, i vostri registi preferiti?
 
– Chaplin, sicuramente, Stroheim, René Clair. Sì, Clair. Lui non da troppa importanza al modo di girare, ma prima di tutto alla verità umana, al valore umano che c'è in ciascun individuo, e che ha saputo sempre scoprire.
 
E il realismo italiano?
 
– Non c'è del realismo italiano. C'è, come dicevo, una verità umana. In prossimità delle guerre, diviene maggiormente visibile, anche più immediata. In Germania, in Inghilterra, da voi, abbiamo conosciuto queste epoche dove niente ha valore come ricreare la realtà. Ci sono film sulle domeniche che si svolgono nei meandri della Sprea, sulle spiagge della Scozia, a Nogent, voi lo sapete. In Italia, dopo la guerra, non potevamo deviare le nostre cineprese dagli uomini che ci si avvicinavano.
 
Al momento dei saluti, cerco una domanda per concludere:
 
Qual è la vostra stagione preferita?
 
– L'inverno. Perché dopo l'inverno io penso che verrà la primavera.
 
(testo originariamente pubblicato su Raccords, n.6, dicembre 1950, p. 21; traduzione di Alberto Beltrame)