Un anno fa, su queste stesse pagine, scrivevo a proposito di Before Midnight che «il tempo fa il suo giro e il cerchio cinematografico di una giornata o poco più (a che ora cominciava l’avventura dei due innamorati di Prima dell’alba?) ha impiegato quasi vent’anni a unire le sue estremità». Da Prima dell’alba all’ultimo capitolo della trilogia di Jessy e Celine, passando per Before Sunset. Il tempo in quel caso era lineare, dispiegato in quasi vent’anni di vita dei personaggi e degli attori, ma idealmente racchiuso nella circolarità dell’orbita terrestre, dal giorno alla notte. E la riflessione si estendeva ai momenti di cui una giornata è fatta, agli anonimi, invisibili, accidentali accadimenti che possono portare una coppia a innamorarsi, riprendersi, lasciarsi e riprendersi ancora. Nella trilogia di Jessy e Celine c’è tanto tempo per vivere, ma pochissimo per non farsi sfuggire la vita, e allora conviene recuperare tempo, prima che sia mezzanotte, prima che il tempo riprenda a fuggire.

Un anno dopo, invece, dovendo scrivere su Boyhood mi tocca correggermi, e riconoscere che per Linklater il tempo è, sì, ancora lineare, ma non più circolare; che nel suo cinema i giorni passano, sfuggono, ma poi tornano, si ripetono, mettono a disposizione altro tempo, dando la possibilità di crescere e adeguarsi, cambiare e correggere. Il cinema – non solo quello di Linklater, essendo Boyhood un film in qualche modo complessivo, un’opera a tesi ma miracolosamente senza tesi – insegue il giorno e la notte senza fretta, senza costruzioni, senza imporsi la cornice di luce che dalla mattina porta alla sera e dalla luce al buio.

Boyhood è un superamento della trilogia di Jessy e Celine, un film da girare e lasciar maturare, come un pensiero recondito, un impegno lungo una vita. Un film che si faceva anche senza girarlo, perché è un film che lascia lavorare il tempo, che lascia crescere e maturare attori che da bambini diventano uomini, che da ragazzi diventano adulti; un film che non finisce mai, né prima che lo si vedesse, né ora che si è visto. Linklater ha seguito una linea retta, una traccia che nel proprio solco raccoglie ogni cosa, una figura così ampia e sconfinata da sembrare astratta.

E infatti Boyhood è un film sul tempo senza tempo, uguale nel 2014 come nel 2002, con l’ellissi che paradossalmente dà uniformità a un tempo spezzato ma percepito in quanto eterno presente. Nel suo film più lungo e ambizioso, ma paradossalmente anche più semplice e lineare, Linklater non racconta, srotola piuttosto una matassa, la lascia correre e la ricompone con il montaggio. In Boyhood è il tempo a raccontare: con i cambiamenti nel corpo e nella voce degli attori, con il passare degli anni scandito dalle canzoni (da Yellow a Get Lucky, passando per Flaming Lips, Wilco, Vampire Weekend, Phoenix, Arcade Fire, e niente è mai forzato, solo un accenno privo di emozione o nostalgia), con il mutare degli interessi di una persona che cresce e fa solo quello, e crescendo vive. Boyhood è il racconto di un’educazione alla vita, ma per fortuna non è un romanzo di formazione, non è l’ennesimo inno alla fragilità in stile Sundance (diversamente da come pensa certa critica nostrana, che giusto per dovere di discontinuità ha scelto deliberatamente di storcere il naso di fronte al primo grandissimo film dell’anno…). Nulla succede, in Boyhood, a parte quello che succede nella vita.

Dodici anni ci sono voluti per realizzarlo. Dodici anni di vita di Mason, che vive a Austin con la mamma e la sorella e ogni tanto fa visita al padre, e di crescita fisica, o invecchiamento, degli attori coinvolti. Dodici anni di riprese frammentate, di cinema che cresceva mentre la vita proseguiva, allo stesso ritmo, con la stessa cadenza inesorabile. Mason da bambino diventa adolescente e poi ragazzo, dal giardino di casa arriva al college, e nel suo percorso in linea retta ci sono gli amici e i compagni di ogni stagione, ci sono la scuola e le vacanze, i nuovi mariti della madre, la nuova moglie del padre, gli amori della sorella; ci sono le cose che cambiano e le cose che restano uguali, le discussioni in casa, i lavori estivi, le fidanzate, il diploma, l’abbandono della famiglia. Non ci sono né drammi né tragedie, nemmeno troppi conflitti; solo cose che rendono la vita terribilmente normale e impossibile da raccontare nella sua fluidità ininterrotta.

Linklater lo fa scegliendo di non mutare stile, di lasciarlo sospeso alla sua maniera, classica e sobria, incredibilmente uniforme nonostante la distanza temporale fra le prime riprese e le ultime (cosa dovremmo dunque pensare? che per l’immagine digitale il tempo non passa mai? che davvero è finita la storia, se non vedo differenze di sguardo e rappresentazione tra una scena girata nel 2002 e una nel 2014?). Questo perché, come il suo protagonista, sa di non potersi rivolgere indietro, sa di dover evitare la trappola del nostalgia, del vintage, del come eravamo, come siamo e come potremo essere. Non importa chi eravamo, cosa siamo e come potremo essere: importa vivere, importa sapere di avere un sacco di tempo a disposizione per diventare ciò che vogliamo, e magari altro ancora.

Mason ha sempre una strada davanti a sé, può correre il rischio di farsi sfuggire un momento ideale perché sa che altri ne arriveranno. Perde qualcosa, ma continua a vivere. Ed è questa continuità, questo sentimento impressionista del tempo che fa di Boyhood un capolavoro. Il presente è assoluto, ma l’attimo non è fuggente – dura dodici anni, più probabilmente una vita intera.