Tra le scoperte dell’ultima Berlinale, la più eclatante porta il nome di Josephine Decker. Poco più che trentenne, la regista d’origine londinese ma cresciuta negli Stati Uniti si è presentata al pubblico del festival con ben due opere prime: Butter on the Latch e Thou Wast Mild & Lovely. Caratterizzati da uno stile ecclettico e libero, visivamente fulgido, e alla ricerca di una tensione costante tra il controllo della materia e la mutevolezza magmatica dell’improvvisazione, entrambi i film scavano nel tessuto pulsionale dell’animo femminile, indagandone le paure più profonde e conducendo lo spettatore verso un limbo iprnotico (da alcuni erroneamente definito “lynchiano”) in cui sogno e realtà si confondono. Di difficile categorizzazione, le due opere segnalano l’indubbio talento di una regista che si muove con personalità e coraggio in un mondo – quello reale e quello cinematografico – al maschile. Per scardinarlo.


Partiamo dall’inizio: da dove vieni e che studi hai fatto?

Sono nata a Londra ma mi sono trasferita in Texas quando avevo due anni. Sono cresciuta negli Stati Uniti, quindi. Ho seguito i corsi di scrittura creativa e letterature comparate di Princeton e in quegli anni ho cercato di trovare il modo migliore di combinare i miei tanti interessi, che spaziano dalla scrittura alla musica, dal teatro alla fotografia. A un certo punto ho avuto una sorta di illuminazione, ho capito che il cinema era lo strumento ideale verso cui convogliare tutte queste passioni. Inoltre impazzivo per i corsi di teoria del film tenuti a Princeton P. Adams Sitney, sono stati fonte di ulteriore entusiasmo nei confronti delle possibilità offerte dal cinema. Sono stata fortunata a trovare subito un impiego al termine del college, lavorando per un canale televisivo specializzato in documentari ed è lì che ho realizzato le mie prime cose.

Bi the Way (2008), il tuo primo film da regista, è un documentario, firmato insieme a Brittany Blockman…

Sì, un documentario sulla bisessualità negli Stati Uniti, un argomento che forse altrove non è particolarmente originale ma che negli USA, un Paese decisamente più conservatore della Germania, ad esempio, non è così facile da affrontare. L’ho girato con Brittany, una cara amica e collega, e merita di essere citata anche la produttrice, Martha Shane, che l’anno scorso ha realizzato un altro bel documentario, After Tiller, passato al Sundance e in tanti altri festival.

Da quello che ho letto nel film intervistiate gente comune e celebrità come PJ Harvey e Jonathan Caouette.

Sì, è così. In realtà sarebbe stato interessante intervistare PJ Harvey ma non l’abbiamo fatto…

L’ho citata perché il suo nome compare tra i credits del film su IMDB…

Ah! Non ho idea di chi abbia stilato quella pagina, probabilmente è stata fatta prima ancora che uscisse il film e ci sono parecchie inesattezze. Ma Jonathan Caouette c’è!

Poi hai anche recitato in alcuni film, in particolare quelli diretti da Joe Swanberg, Uncle Kent e Art History (entrambi del 2011). Ora lui è il protagonista del tuo film Thou Wast Mild & Lovely. Come vi siete conosciuti e cosa ti ha spinto verso la recitazione?

Credo sia stato in occasione di un video musicale che avevo realizzato. Lo presentavamo al Sidewalk Film Festival, in Alabama, e ci siamo ritrovati a fare il tour delle birrerie – Joe è un appassionato, si produce la birra da sé. Abbiamo parlato a lungo in quell’occasione e poi siamo rimasti in contatto. Pochi mesi più tardi, in primavera, mi ha proposto di recitare in Uncle Kent e l’esperienza è stata talmente bella che l’abbiamo ripetuta nel successivo Art History, un film decisamente più intenso del precedente. Uncle Kent è una commedia, Art History… difficile definirlo, sicuramente più viscerale, cupo, sessuale. Era la prima volta che recitavo, in precedenza avevo solo fatto del “teatro corporeo”, ma ho anche studiato danza e pianoforte, quindi ho sempre avuto una propensione per le attività performative. Ho scoperto che, in certi casi, non avere un background professionale, una preparazione, può tornare utile se quello che un regista cerca è la naturalezza, e questo mi interessa anche come cineasta. Mi ha sempre affascinato già quando facevo documentari e si doveva ottenere lo stesso effetto di casualità nelle interviste, facendo dimenticare all’interlocutore la presenza della macchina da presa.

26773.largePassiamo ai due film che ha presentato a Berlino: devo dire che la loro forma così libera, la tessitura composita di suggestioni che offrono rende difficile capire da dove provenga la tua ispirazione e se ci sono autori che ti hanno influenzata. L’uso della fotografia mi ha fatto venire in mente Andrea Arnold, ma il paragone si ferma lì. Puoi aiutarci a far luce al riguardo?

Non ho mai visto i film della Arnold ma non sei il primo che me li cita, devo assolutamente recuperarli! Quanto alle influenze non saprei bene cosa dirti… Ci sono registi che amano pianificare ogni singola inquadratura e fanno attenzione a ogni più piccolo dettaglio, come sono sistemate le posate sul tavolo e via dicendo. Per me, il fatto di venire dal documentario e la ferma convinzione che a rendere bella e interessante la vita sia la sua imperfezione, ecco, queste due cose fanno sì che io abbia un’idea precisa di quello che cerco e di come arrivarci ma allo stesso tempo faccio in modo di non avere il controllo totale, lasciando una certa libertà ai miei collaboratori. La prima ispirazione per Thou Wast Mild & Lovely è stata letteraria, comunque: ho letto La valle dell’Eden di John Steinbeck e il personaggio di Cathy, terribile, cattivissima, credo la donna più sadica che abbia mai incontrato in un romanzo, mi ha fatto ragionare sulla natura femminile. Ritengo che abbia due versanti: uno collaborativo, aperto all’esterno, dedito all’accrescimento altrui; l’altro più distruttivo, crudele, intransigente e manipolativo. Mi sono quindi interrogata sul versante più oscuro della femminilità, e da lì è nato il personaggio di Sarah, che non è una persona cattiva ma a un certo punto ha degli atteggiamenti manipolativi e, per traslato, posso dire che il film ha a che fare con le mie paure più profonde, con quello che sono, sarei capace di fare agli altri, o che gli altri potrebbero fare a me. Intendevo anche soffermarmi sulle cose che interessano me ma nei confronti delle quali altri provano repulsione, perché le considerano egoistiche, perverse. Per me fare arte vuol dire davvero esplorare gli abissi della propria anima e in essa le parti più oscure, le componenti che nella vita di tutti i giorni tendiamo a rimuovere.

L’ispirazione letteraria è chiara. Resta il mistero sulle influenze cinematografiche…

Ah, la tua domanda era quella e non ti ho affatto risposto, hai ragione! Ma non saprei cosa dirti riguardo le mie influenze cinematografiche perché, davvero, ho studiato tanta letteratura e mi sono appassionata al realismo magico di scrittori come Cortazar e Garcia Marquez e credo di aver cercato di ricreare quel tipo di atmosfera nei miei film, per fare in modo che il fantastico sia altrettanto realistico e tangibile della realtà. Dovessi farti il primo nome che mi viene in mente, direi Hitchcock, ma è qualcosa che ha più a che fare con certi suoi temi, con il subconscio, la tensione che era capace di creare, non certo con le modalità di messa in scena. E la stessa cosa potrei dirti di Kubrick: Shining e Eyes Wide Shut sono film che potrei rivedere all’infinito. Un altro regista che ho amato molto quando studiavo è Terry Gilliam. L’esercito delle dodici scimmie

Tideland, immagino…

Non l’ho mai visto!

Tra l’altro, mi piacerebbe sapere se sei una fan del cinema horror, perché se il paragone che ha avanzato qualcuno tra Thou Wast Mild & Lovely e Non aprite quella porta è un po’ forzato, è vero che entrambi i tuoi film possiedono una propensione orrorifica: lo spettatore, da un certo punto in avanti, non è più a proprio agio, sente che qualcosa di terribile sta per succedere da un momento all’altro…

Dovrei vedere anche Non aprite quella porta, me ne hanno parlato in tanti. Ma, per rispondere alla tua domanda: non sono una fan dell’horror e ne ho visti pochissimi, mi fanno troppa paura. Credo piuttosto che questa sensazione di cui parli derivi più da un mio atteggiamento nei confronti della vita: l’idea che da un momento all’altro possa succedere qualcosa di terribile è qualcosa che ha a che fare con l’esistenza di tutti i giorni!

butter-1I due film sono abbastanza diversi, ma ci sono temi e situazioni ricorrenti. Ad esempio l’idea che il desiderio, l’attrazione possano condurre verso situazioni di estremo rischio… Ritieni che il desiderio sia un istinto pericoloso?

No, è che i momenti in cui ti esponi nel desiderio, nella sessualità, sono anche quelli in cui sei più vulnerabile, e a questa sensazione è legata anche una sorta di paura, di violenza potenziale. In Butter on the Latch la paura è anche quella di avere molto più potere di quello che si crede di avere, un potere non necessariamente buono, positivo. Un pericolo, dunque, che non viene dall’esterno ma che ha radici nella nostra interiorità.

Parliamo della genealogia dei due film. È piuttosto inusuale che un regista presenti due lungometraggi in un colpo solo, ma immagino non siano stati girati contemporaneamente…

Prima ho fatto Butter on the Latch, ma in realtà prima ancora ho realizzato un documentario nello stesso luogo in cui è girato, il festival di musica balcanica di Mendocino, in California, e il posto era talmente affascinante che ho subito sentito il desiderio di ritornarvi per fare qualcos’altro.

Mi chiedo se anche la musica costituisca una fonte di ispirazione, per te, perché davvero l’atmosfera del film sembra impregnata di questi ritmi dispari, travolgenti, che caratterizzano la musica balcanica.

Assolutamente! La musica è una fonte di inspirazione enorme! La tensione che scorre in quei brani folk… è come se dentro si agitassero degli interrogativi esistenziali profondi, anche inquietanti. Ma in generale amo anche la musica classica, quella più cupa, contrassegnata da tonalità minori… Bach, Beethoven… Credo che siano tonalità molto vicine al modo in cui concepisco la vita. Mi interessava molto anche l’idea che nelle società da cui questa musica proviene le donne non avevano molta libertà e nel canto trovavano uno sfogo, a volte per esprimere il proprio malessere, le proprie paure. E se penso a Thou Wast Mild & Lovely, al di là dell’ispirazione data dal romanzo di Steinbeck, quella che ne è venuta fuori è davvero una murder ballad per immagini! Quindi i due film sono due ballate, ma di ispirazione e provenienza diversa. Ma per tornare alla cronologia, Mild & Lovely ho cominciato a pensarlo mentre terminavo il montaggio di Butter on the Latch.

So che le riprese di entrambi i film sono state molto brevi. E la troupe con cui hai lavorato era particolarmente ridotta.

Butter on the Latch è stato girato in nove, dieci giorni, mentre Thou Wast Mild & Lovely, che era un po’ più complesso, l’abbiamo girato in dodici, forse quattordici giorni. La troupe del primo film era di sole tre persone, io, il fonico e l’operatore, mentre per l’altro eravamo in otto, dieci tecnici, più gli attori.

Come hai lavorato con Ashley Connor, direttrice della fotografia? Il suo approccio, così libero, arrischiato, conferisce ulteriore fascino ai tuoi film.

Assolutamente. Ashley è straordinaria, un vero talento, ed è giovanissima! Credo abbia 25, 26 anni, non di più. L’ho incontrata a casa di un comune amico, un pittore, è stato lui a presentarci e la prima conversazione che abbiamo avuto riguardava la reificazione della donna. Ci siamo subito trovate d’accordo sulla potenziale ambiguità di alcune prese di posizione contro la reificazione della donna, perché c’è una sorta di misticismo intorno al femminile che, nel bene e nel male, ha profondamente a che fare con i motivi per i quali le donne hanno o non hanno successo nella vita. Insomma, abbiamo condiviso questa discutibile posizione e ho capito che avremmo potuto lavorare bene insieme. In Butter on the Latch le ho lasciato tantissima libertà, perché come ti ho detto la troupe era talmente ristretta che avevo mille cose da fare, mentre per il film successivo è stato tutto un po’ più calcolato. L’idea di base era che bisognava stare molto vicini, addosso ai personaggi, e solo verso la fine l’inquadratura si apre per concedere un po’ di libertà, un senso di sicurezza, tanto che spesso ho l’impressione che sia eccessivamente claustrofobico, che non si riesca a respirare, che ci si senta intrappolati, anche se era esattamente quello che volevo!

Screenshot10Più in generale: quanto spazio lasci all’improvvisazione? Nella recitazione, nella scrittura…

Molto. Butter on the Latch è stato completamente improvvisato, avevamo un soggetto e un trattamento che abbiamo rispettato, fatta eccezione per il finale, che era diverso, ma i dialoghi erano del tutto improvvisati. Mild & Lovely invece è completamente scritto, solo un paio di scene sono improvvisate, come quella in cui Sarah e Akin, i due protagonisti, vanno a cavallo insieme. Molto è stato poi “riscritto” in sede di montaggio da me e David Barker.

Barker però è accreditato solo in questo film. Il primo l’hai montato tu.

Sì, anche se lui mi ha dato alcuni consigli, e per questo abbiamo deciso di collaborare in quello successivo. Il montaggio è un processo che adoro, una delle parti più belle dell’intera realizzazione del film, forse meno divertente ma il lato compositivo, di riorganizzazione del materiale, è talmente appassionante. E a differenza delle riprese, me la prendo molto comoda: entrambi i film sono stati montati nell’arco di un anno e mezzo, anche se non continuativo.

E come sono stati finanziati?

Butter on the Latch l’ho realizzato con pochissimo, soldi di amici e familiari. Per Mild & Lovely abbiamo fatto una raccolta fondi più articolata e ci siamo appoggiati alla piattaforma di Kickstarter.

Immagino che ora sarai impegnata nel trovare una distribuzione e nel far circolare il più possibile i due film ma mi chiedo se hai già progetti in cantiere…

Al momento sto finendo di montare un corto, poi mi piacerebbe realizzare un film ispirato alla favola dei tre porcellini, con tre ragazze che vanno in Messico e indossano le maschere dei porcellini come fossero clown… Un film abbastanza pazzo, ma vorrei trattare temi importanti, come l’immigrazione, la prigionia… Spero di farne una commedia, anche se conoscendomi, a un certo punto la commedia potrebbe prendere una piega drammatica, orrorifica.