Per molti anni la definizione "straight to video" possedeva le caratteristiche di un insulto, poiché in genere la si utilizzava per film "di serie b" considerati non abbastanza buoni per una distribuzione nelle sale. Ma, almeno nel Regno Unito, "straight to video" in principio significava qualcos'altro, spesso in riferimento a opere troppo eccentriche per il pubblico mainstream. Se la memoria non mi inganna, la Warner Bros. arrivò persino a servirsi del fatto che Ho perso la testa per un cervello di Carl Reiner e L'affare del secolo di William Friedkin non fossero usciti in sala per lanciarli come "video premiere". Ci siamo abituati a pensare gli anni '80 come un periodo dominato dalla destra conservatrice ma se distogliamo lo sguardo dai cinema e dalle videoteche inglesi dell'epoca, potrebbe emergere un'interessante storia alternativa.

Le uscite in video recensite dal Monthly Film Bulletin tra il 1982 e il 1989 includono numerosi film di Abel Ferrara e Larry Cohen, …e tutti risero di Peter Bogdanovich (1981), Fast-Walking di James B. Harris (1982), Cercando di uscire di Hal Ashby (1982), L'esperimento di Alan Rudolph (1982), La fortezza di Michael Mann (1983), Suburbia di Penelope Spheeris (1983), Non giocate con il cactus di Robert Altman (1985), Mississippi Adventure di Walter Hill (1986), Cadaveri e compari di Brian De Palma (1986), Dream Lover di Alan J. Pakula (1986) e Ehi… ci stai? di James Toback (1987), insieme agli ultimi film di Don Siegel (Un giocatore troppo fortunato,1982), John Cassavetes (Il grande imbroglio, 1985) e Richard Brooks (La febbre del gioco, 1985). Pochi tra questi possono essere considerati capolavori ma sono tutti caratterizzati da un'impronta personale che li mette in contrapposizione con i blockbuster del decennio, generalmente dominati da un tono più impersonale.

Quando il dvd ha preso il posto del vhs come formato principale della visione cinematografica casalinga, la tradizione dello "straight to video" si è progressivamente estinta. Film importanti come New Rose Hotel di Abel Ferrara (1998), Sesso ed altre indagini di Alan Rudolph (2001), Hollywood Ending di Woody Allen (2002) e Looking for Comedy in the Muslim World di Albert Brooks (2005) in Inghilterra non hanno ricevuto alcuna distribuzione.

Nei mesi recenti la situazione sembra essere cambiata, grazie ai lavori di due grandi registi americani distribuiti in DVD in Inghilterra da Metrodome: Twixt di Francis Ford Coppola (2011) e Passion di Brian De Palma (2013). La giustapposizione fortuita di questi due titoli non fa che sottolineare quanto abbiano in comune: entrambi riguardano la maniera in cui la tecnologia delle moderne comunicazioni ha reso più soffusa la distinzione tra fantasia e realtà. I finali di entrambi, nei quali i rispettivi protagonisti sembrano sognare o immaginare il proprio omicidio prima di risvegliarsi in una realtà che potrebbe anche essere fittizia, sono sorprendentemente simili.

Ho scritto del film di Coppola più in dettaglio su Video Watchdog ma quello di De Palma è forse il più interessante dei due, se non altro perché il cinismo che permea di frequente il suo lavoro finisce per dare a Passion una notevole coerenza tematica – qualcosa che, nel bene o nel male, manca a Twixt, poiché l'ottimismo di Coppola gli impedisce di compiere quell'ultimo passo verso la disperazione, a differenza di quanto fa De Palma.

Nel corso della propria carriera, De Palma si è occupato a lungo dell'impatto dell'immaginario sia in coloro che lo creano che in coloro che lo consumano. Hi, Mom! (1969), in particolare, sembra oggi in anticipo sui tempi nel ritrarre una società in cui ci si sforza di registrare ogni attività quotidiana e di "metterla in scena" ad uso della (video)camera. Passion aggiorna tale preoccupazione all'epoca di Skype, Facebook, dell'email e del telefono portatile, che De Palma vede come potenziali portatori di nuove opportunità di inganno (compreso l'inganno di se stessi) e rappresentazione falsata.

La trama è incentrata sulla rivalità tra due donne che lavorano per una compagnia pubblicitaria tedesca, l'apparentemente introversa Isabelle (Noomi Rapace) e il suo estroverso capo Christine (Rachel McAdams). Per quanto il film sia raccontato principalmente dal punto di vista di Isabelle, di lei non sappiamo quasi niente. La sua sessualità, le amicizie, le relazioni, persino la nazionalità e la vita passata restano un mistero ("non so nemmeno da dove vieni e cosa vuoi", le dice Christine). Isabelle è il prodotto di una cultura dei social-media, si autocrea per mezzo di svariate manipolazioni e transazioni tecnologiche, ed esiste solo in virtù dei desideri che altri, le persone che incontra, proiettano su di lei, per poi dissolversi in uno stato di incertezza nel quale tutto è (o potrebbe essere) un sogno.

Stilisticamente il film è diviso in due parti: la prima è più leggera, ripresa come fosse l'episodio di una serie TV su gente del jetset che si pugnala alle spalle (alla Dallas, per intenderci); la seconda è molto più lussureggiante dal punto di vista visivo e presenta la mise en scène eccessiva caratteristica del regista. È qui che Isabelle abbandona la passività iniziale e prende in mano l'azione, portando a compimento con successo un complicato piano per distruggere Christine. Essenzialmente, si ritira in un mondo "online" nel quale le fantasie possono realizzarsi senza i rischi legati all'esposizione, e De Palma lascia intendere che questa intera sezione del film sia in realtà un sogno di Isabelle.

Ma le scene precedenti hanno luogo in un mondo che è altrettanto "irreale", ugualmente contrassegnato da fantasie desideranti di soddisfacimento e superfici lussuose: Christine sostiene di avere una sorella gemella e di aver subito un trauma nell'infanzia ma potrebbe aver inventato entrambe le cose, e a volte il suo volto è illuminato in maniera talmente netto da sembrare la maschera bianca che fa indossare ai suoi amanti. La maschera viene poi indossata da Isabelle (che diventa così Christine) in una scena di omicidio che potrebbe essere solo una fantasia (ma anche no). In un mondo dove così tante relazioni vengono condotte via internet, fa poca differenza se siamo online o no, svegli o addormentati, colpevoli o innocenti. L'identità, la sessualità e la morale sono diventati concetti provvisori, soggetto a revisione costante. Come per Etch, A Sketch presidential campaign di Mitt Romney, è sempre possibile schiacciare il pulsante di reset e ricominciare da capo.

Road to Nowhere di Monte Hellman (2010) condivide molte delle stesse preoccupazioni e, a oggi, non ha ancora ricevuto alcuna distribuzione in Inghilterra. Qualche mese fa, ho scritto di un gruppo di film degli anni '80 che criticavano i trend dominanti del cinema americano dell'epoca. I recenti film di De Palma, Coppola e Hellman suggeriscono l'emergere di un nuovo movimento d'opposizione, teso a mettere in discussione quegli ermetici spettacoli di intrattenimento in CGI nei quali la cancellazione della realtà fisica serve a garantire la possibilità di lasciare i problemi fuori dalla porta e che nulla potrà disturbare il nostro coinvolgimento all'interno di fantasie controllate corporativamente. L'unica cosa certa riguardo questo movimento è che i film che ne fanno parte non verranno mostrati nei cinema più vicini a casa vostra.

 

(testo originariamente apparso su Sight & Sound; traduzione di Alessandro Stellino)