Che proprio Bruno Dumont dovesse accogliere la sfida della narrazione seriale, in un’ipotetica risposta a risultati e prodotti d’oltreoceano che da oltre un decennio stanno magnetizzando l’attenzione di appassionati e non solo, è stata una delle maggiori sorprese dell’ultimo festival di Cannes, rivelatosi piuttosto avaro di emozioni e imprevisti.

Più una miniserie sul modello di Top of the Lake di Jane Campion o della britannica Utopia (anche se nel caso di quest’ultima siamo ancora in attesa di sviluppi), il lungo film di Dumont riafferma le ragioni essenziali del suo lavoro cinematografico.

Ambientato nel nord della Francia dove il regista aveva già dato vita ai conflitti dell’umanità alle prese con la vita di Gesù e sempre impegnata a tenere bada Satana, si nota immediatamente una sorta di continuità sentimentale e tematica del cineasta nei confronti delle proprie ragioni e regioni.

E non si tratta di pigri automatismi da politica degli autori. P’tit Quinquin è solo un’articolazione lievemente diversa del classico cinema dumontiano, ma che in sostanza resta testardamente fedele a se stesso. Anzi, a ben vedere, è questo il film dumontiano per eccellenza.

Semmai, ciò che inquieta, è il plusvalore del sorriso che in più di un’occasione si fa risata fragorosa.

Dumont non abbandona il suo modo inconfondibile di filmare. Campi lunghissimi, inquadrature che colgono l’insieme della vita degli uomini compresa nella linea d’orizzonte di una presenza storicamente ben definita, piani lunghi e avvolgenti. Corpi segnati fisicamente. Come da terragne stimmate. Epifania del loro esserci. Del loro passare nel mondo.

Tutto il cinema di Dumont ci ricorda ineffabilmente che siamo in presenza di uomini che sono alle prese con il proprio tempo e la loro storia anche se magari questa non è interpretata alla luce delle categorie storicistiche e sociologiche dominanti.

Il cinema di Dumont, insomma, c’è tutto. Cambia la prospettiva dal quale lo si osserva. E probabilmente cambia anche il posizionamento del cineasta rispetto alla propria materia.

Ritenuto sovente dai guardiani del politicamente corretto un cineasta “reazionario” per il suo rifarsi a un fatalismo pessimista di matrice cattolica che ha in Bernanos e Bloy i propri riferimenti culturali più evidenti, Dumont è in realtà uno degli autori contemporanei maggiormente incantato dalla “straziante meravigliosa bellezza  del Creato”.

Il suo sguardo contempla l’orrore della “gettatezza” degli uomini nelle cose del mondo e l’assenza di Dio che “non esiste ma si vede”.

Il male, dunque, è la presenza sulla Terra. L’esserci senza consolazione, abbandonati e dimenticati, nonostante forse in passato qualcuno si sia anche chiesto “Padre, perché mi hai abbandonato”.

Ma questo era prima. Quando Dumont in qualche modo ancora “credeva” al  mondo e a chi lo abitava.

Con P’tit Quinquin, Dumont è come se prendesse commiato dal suo cinema precedente pur restandovi ancorato con grande detrminazione. Abbandona il mondo per stare con gli uomini.

Con P’tit Quinquin scopre davvero che “ognuno sta solo sul cuore della Terra” ma prima che sia “subito sera” si può forse provare a ridere di tutta questa “insensatez” che ci divora.

Ed è proprio la ferocia liberatoria della risata di P’tit Quinquin la grande novità di una poetica che sembrava invece immutabile e chiusa nelle sue premesse teoriche e politiche.

Dumont, però, non si limita a riformulare la sua poetica. La reinventa nel segno di una messinscena che seppure fedele nelle linee di fondo a se stessa, si ripensa come lavoro e presenza.

Gli elementi del cinema dumontiano subiscono pertanto una sorta di reinvenzione formale. Lo stupore attonito del poliziotto chiamato a indagare su una serie di mostruosi delitti è la chiave di volta attraverso la quale dilatare l’attesa caratterizzante la sospensione del cinema del cineasta per introdurre l’elemento anarchico della gag. Dumont e la sua macchina da presa e il montaggio e nient’altro.

L’assurdo, elemento da sempre al cuore della poetica dumontiana, diventa il fulcro che non solo amplifica ma soprattutto conferma la totale mancanza di senso del mondo.

La crudeltà, com’è ben noto sin dai tempi delle comiche del muto, è il controcanto della risata. E Dumont questo elemento lo esplicita sino in fondo, senza mai ridere ai danni dei personaggi, ma evidenziandone, senza alcuna concessione, la consustanzialità rispetto al mondo che abitano con tanto sgomento.

In un tessuto rurale piegato sotto il sole di Satana, Dumont inserisce la precisione millimetrica delle gag di Blake Edwards, oppone un idiota, in senso strettamente etimologico, un savant suo malgrado, all’idiozia complice del potere.

Il razzismo, che cova al di là del sorriso, la violenza nascosta dietre le facciate delle casette unifamiliari e l’inettitudine che diventa un paradossale principio d’inviduazione del reale, sono due elementi opposti e complementari che reggono l’esplorazione del Male (maiuscola obbligatoria) di Bruno Dumont.

Dumont è sempre lì. O qui. Traffito dall’inesorabile bellezza del mondo, non può far altro che restarvi impigliato sino al collo.

Il Male esiste. Il cinema pure. E da oggi, anche la televisione.