1.

Come tutti, io ho delle idee sulla teoria degli autori. E, a essere assolutamente sincero, l’idea principale è che la questione sia chiusa. Di tanto in tanto mi capita di fare riferimento alla teoria degli autori, è per automatismo puro e semplice. Dico «teoria», penso «fatto». Il problema dell’attribuzione del film, dal momento che questo è un’opera d’arte, è risolto. Il regista ne è il responsabile. E non solo in virtù della celebre battuta: «Non so a chi si deve il successo di questo film ma so benissimo a chi ne avrebbero rimproverato il fiasco», il film appartiene al cineasta. È chiaro che il regista, e lui solo, controlla nei minimi dettagli gli elementi disparati che, uniti e organizzati, costituiscono un insieme che viene chiamato cinema. E che è un’arte specifica.

Tale affermazione, per quanto sensata, richiama una serie di commenti.

Innanzitutto s’impone, quasi automaticamente, una restrizione; a partire da quando si definisce il film opera d’arte? Prendiamo una definizione di opera d’arte grande abbastanza da includere sia il disegno di un bambino che una statua di Prassitele: il fissare nel tempo un’espressione personale. Questa definizione è già molto restrittiva e più che discutibile, ma nella fattispecie sufficiente, poiché comprende l’unica questione che ci riguarda, quella dell’impulso individuale a creare. Quale che ne sia l’origine, un’opera d’arte è la messa in relazione, mediante un atto, di un’idea con la sua realizzazione. Considerata in questo modo, sarebbe l’espressione di un sistema di astrazioni, di sentimenti o di impressioni che vanno oltre i limiti della parola. Mi si perdonino questi giri di parole e queste approssimazioni, che mi permettono di venire al sodo: l’autore precede l’opera. Tizio, che ha girato Caio, non è un autore perché la tale persona autorizzata dichiara che lo è, oppure perché Caio corrisponde a dei criteri definiti. No. Tizio è un autore dal momento in cui dice di esserlo. Dal momento in cui desidera esserlo. Dal momento in cui si assume per intero la responsabilità della sua opera. E pertanto Caio è un film d’autore. Vedete, mi accontento di poco.

Senza dubbio è il termine che confonde le idee. È inadeguato. L’uovo viene dalla gallina, il ritratto dal pittore, l’anello dall’orefice, la scultura dallo scultore. E il film? Dall’autore? Niente affatto. È il libro che viene dall’autore. E perché c’è bisogno di accostare il film al libro? Perché si parla di caméra-stylo? [1] Perché ci sono distributori che vogliono essere editori di film? Dopo tutto, i laboratori di sviluppo potrebbero essere tipografie. E poi, i film verrebbero mostrati nelle librerie – o anche nelle multilibrerie – di fronte ad assemblee di lettori. Smetto di fare il pagliaccio, ma riconoscerete a mia discolpa che dopo vent’anni i complessi del cinema nei confronti della scrittura fanno sorridere.

Torniamo indietro nel tempo. Torniamo indietro fino alla fine degli anni Cinquanta: che cosa constatiamo uscendo dal cronoscafo del professor Mortimer [2] e osservando il panorama con un tantino di apprensione? Il cineasta artista del muto, lo sperimentatore dei tempi eroici si è estinto molto tempo fa per lasciare il posto a una specie coriacea e adattata molto meglio alla prosperità popolare del mercato, l’umile e prolifico cottimista, che fa del suo meglio con quello che gli viene dato e che china il capo di fronte alla domanda, al produttore, ai generi, alle star e cos’altro ancora? Vittima del suo successo, il cinema è un’arte popolare; più popolare che arte anche se alcuni individui, contro venti e maree, ne hanno mantenuto viva la fiamma. Ora i film si fanno piuttosto in squadra e sotto la guida di un capo. Il quale capo, a seconda dei suoi successi, acquisisce potere, il mezzo necessario per imporre sempre di più il suo punto di vista, imporre la sua personalità nei film che realizza. Fu questo stato di cose che determinò – poiché tornava utile ai suoi interessi – l’avvento della generazione della Nouvelle Vague: la prima, storicamente, a ritenere che fare dei film fosse più degno delle sue ambizioni che scrivere libri. Eccoci qua. Anche se oggi l’idea è comunemente accettata, all’epoca era una pillola piuttosto difficile da mandar giù. Si passa dal letterario al visivo e la nozione confusa di autore è il cavallo di Troia che si fa rotolare nella fortezza della rispettabilità in nome di un visivo più letterario del letterario. Generazione cardine, la Nouvelle Vague sarà la più cinematografica delle avanguardie cinematografiche. Con questa bella formula, risaliamo sul nostro apparecchio e torniamo ai giorni nostri per constatare che, fatta eccezione per il concetto di autore, il cinema si è radicalmente sbarazzato dei suoi complessi nei confronti della scrittura. Si può anche constatare che i romanzieri che sbirciano verso il cinema sono molto più numerosi dei cineasti che sbirciano verso il romanzo. In fondo i teorici dell’autore hanno avuto talmente ragione e la personalità del cineasta artista – in quanto tipo sociale – si è imposta così bene che adesso l’«autore» è più il cineasta (genere Anticipo sugli Incassi) che il romanziere. Paradosso che eviterò di inseguire più a lungo se non ricordando certe scaramucce nelle retrovie i cui simboli potrebbero essere le contorsioni e le facce da cugino povero di Claude-Jean Philippe, preso in giro ogni settimana da Bernard Pivot alla fine di Apostrophes [3], in riparazione di tutti i crimini della Settima Arte contro la letteratura.

Si è capito che sembra passato il tempo in cui il cineasta doveva travestirsi da autore per consolidare la sua posizione. Dal momento in cui si ammette, a torto o a ragione, che il cinema c’è e che, se c’è, può essere un’opera personale, si è costretti ad andare fino in fondo e riconoscere che tanto il «cineasta» quanto l’«autore» hanno diritto alla considerazione che si accorda ai fatti accertati. A quel punto è solo una questione di lessico e io tenderei a vedere la parola «autore» come sinonimo circostanziale di «cineasta».

2.

Tutto sommato quella che ho enunciato fin qui è un’equivalenza autore/cineasta nel momento in cui quest’ultimo rivendica il film. E ho anche affermato che il cineasta, per modesto che sia, per la semplice evoluzione delle sue competenze professionali e il conseguente ampliamento delle sue prerogative, tenda con una certa fatalità verso l’autorismo. Ciò che disturba in queste due proposizioni sono due fatti, il secondo legato al primo: la caratteristica dell’autore di film – così come è considerato tradizionalmente – è appunto di non fare film d’autore – così come è considerato tradizionalmente – ed è quindi legata in modo indissolubile alla teoria degli autori, di cui non ho valutato, fin qui, l’influenza. Queste due questioni apparentemente oscure hanno una soluzione unica e semplice, che è la doppia natura della teoria degli autori. Non credo che mi si possa smentire se affermo che c’è un punto a monte e uno a valle, la teoria così come è stata applicata da Bazin e da altri ai cineasti del passato e la teoria così come è stata applicata da altri cineasti alle proprie opere. C’è una galassia di differenza. Perché quali sono i registi riabilitati dall’autorismo? Per l’appunto quelli che hanno operato dopo che, secondo l’opinione comune, il cinema con il sonoro ha smesso di essere un’arte e prima che lo sia ridiventato con la Nouvelle Vague. Si può d’ora innanzi affermare, fatti alla mano, che il cinema dei registi francesi che idearono la teoria degli autori aveva, ha e avrà solo relazioni strettamente aneddotiche con quello dei suoi modelli e particolarmente dei suoi modelli americani. Gli autori di cinema che fecero Hollywood non hanno mai girato film d’autore e se lo hanno fatto è stato per caso, per i casi della vita, a causa del crollo del sistema degli studios che li ha, contro la loro volontà, abbandonati a loro stessi. Cerco degli esempi: i film di scuola di Douglas Sirk, quello di Nicholas Ray, We Can’t Go Home Again, o ancora il superbo e mitico Arruza di Budd Boetticher, per il quale il regista ha rinunciato alla sua carriera. A eccezione dell’ultimo, che è un caso particolare, nessuno di questi film aggiunge molto alla gloria di questi cineasti, al punto che perfino loro li considerano lavori fatti con la mano sinistra. Perfino Anatahan di Josef von Sternberg, il film più personale di uno dei grandi megalomani generati da Hollywood, entra solo a gran fatica nello stretto recinto dell’autorismo. Autorismo la cui caratteristica è la primordiale coscienza di sé del cineasta. Coscienza di sé, aggiungerei, innata in Welles: caso unico nella sua epoca.

Il film d’autore è quello che ha anzitutto un autore e che poi è film. Dove lo stile è fatto per essere visto, dove può essere fine a se stesso. E questa ambizione è fra le più legittime. Nel suo stile, cioè in sé stesso, cioè, ancora, nella propria ispirazione, il cineasta va a cercare la materia viva da cui costituirà la sua opera. Così ragionavano i cineasti del muto, così i registi sono artisti. Perciò la domanda che si pone è quella dell’ingenuità. Perché se si ammette che il Paradiso Terrestre nella storia del cinema, la sua preistoria, non è il muto, ma il primo periodo del sonoro, bisogna riconoscere che la grazia è legata all’ignoranza. Perché se con la Nouvelle Vague l’ingenuità scompare, in quanto dopo di essa diviene impossibile girare un film senza porsi la questione della firma, o senza sapere che si pone il problema della firma, tutto un cinema viene offuscato dal suo avvento. Un cinema che si ha il diritto di porre più in alto, quello di Ford, di Lang, di Hitchcock. È chiaro che, consapevolmente o no, la Nouvelle Vague ha largamente contribuito a inchiodare la loro bara. Naturalmente è arduo determinare se la teoria degli autori sia nata da una congiuntura storica che l’ha suscitata o se al contrario abbia veramente indirizzato il corso degli eventi. Ad ogni modo non è un caso che essa sia contemporanea al declino del sistema degli studios, alla rivolta anti-hollywoodiana delle vittime del maccartismo e che, insomma, sia erede in linea diretta della grande scuola estetica puramente europea del dopoguerra, quella del neorealismo. La tradizione dei film europei aveva aperto la strada alla Nouvelle Vague e sarebbe difficile non vedere dei segnali precursori nel rigore e nell’esigenza delle opere di Bresson, di Dreyer, di Rossellini o anche di Jean Cocteau e di alcuni altri «autori completi» provenienti dal teatro e dalla letteratura come Guitry, Pagnol e – perché no – André Malraux, ben più preoccupati dello stile e della firma rispetto ai registi cinematografici loro contemporanei. A questo proposito sarebbe sbagliato trascurare l’influenza che ha potuto avere il pesante complesso nei confronti della scrittura nutrito dai cineasti cosiddetti della Qualità Francese. Comunque sia, una volta che la teoria è stata formulata, l’innocenza diviene impossibile. O per dirlo in modo più immaginoso, una volta pronunciato l’«apriti sesamo» non si può più parlare di tesoro nascosto: che cosa c’era esattamente nella caverna?

La chiave del cinema moderno, certo, ma poi anche malintesi a bizzeffe. Malintesi perché, della teoria degli autori, gli unici a sapersene servire consapevolmente furono quelli che l’inventarono. Finché si tratta di teoria, la problematica è semplice. È quando si tratta della pratica che tutto si confonde. Indiscutibilmente, e in tutte le sue fasi, la carriera dei cineasti della Nouvelle Vague è modellata dall’autorismo. Godard, Rohmer, Truffaut, e in misura minore Resnais e Rivette la cui carriera è stata più caotica, hanno saputo acquisire il prestigio e i mezzi pratici per realizzare senza compromessi, senza simulacri né polvere negli occhi, le opere che si portavano dentro. Solo che, vent’anni dopo, il loro impeto non è stato in grado di stimolare un vero ricambio generazionale, e ciò malgrado quell’istituzione essenziale del cinema francese di oggi che è l’Anticipo sugli Incassi. Destino paradossale quello di una teoria destinata a valorizzare, fra i cineasti, le individualità più forti e che in fin dei conti ha dato origine solo a questa entità collettiva e tutto sommato abbastanza uniforme che è il cinema d’autore. Tenderei ad aggiungere cinema d’autore sovvenzionato, nella misura in cui la sfumatura è ben carica di senso. Perché la particolarità del cinema d’autore è di dichiararsi contro un altro cinema, quello, per intenderci, che frutta denaro. Quello che può dare luogo a operazioni finanziarie o commerciali. Che cosa sarà stata la post-Nouvelle Vague se non il costituirsi di una rete semiparallela destinata a produrre film preoccupati anzitutto di affermare il loro status e solo in secondo luogo di rivolgersi a un pubblico? Non farò esempi, ma ognuno ha in mente dei film – buoni o cattivi, non importa – interamente concepiti per dimostrare, in modo mostruosamente ridondante, di essere opera di un autore. Oppure film che all’interno dell’azione seminano indizi che hanno lo stesso scopo. Per un Téchiné o un Jacquot che hanno saputo utilizzare il contesto per creare le condizioni delle loro opere, quanti altri ce ne sono che, vittime degli impasse teorici, hanno vissuto la loro esistenza di autori di cinema solo come un lungo periodo di disoccupazione scandito dalle riunioni dell’Anticipo? E in cambio di cosa? In cambio della parola ed eventualmente del rispetto aleatorio di una recensione talvolta compiacente e spesso distratta. Magro bottino. Ci vorranno grandi sforzi per trasporre nel cinema il prestigio della tiratura limitata.

Oggi, benché il pubblico abbia accettato e digerito la nozione di autore di cinema, sembra precisarsi con una certa violenza che questo stesso pubblico non ha esattamente un debole per un cinema d’autore che parte dalla negazione del pubblico stesso. Dato che gli autori sono dappertutto, autore per autore si preferisce quello di Rocky. Quanto agli spettatori di cinema d’essai, è da molto tempo che accordano la loro preferenza ai film del passato. Tutto sommato la questione che pone oggi il cinema d’autore è quella della sua capacità di sopravvivere. Le sue facoltà di adattamento sono sufficienti oppure soffocherà nell’autocompiacimento, incapace com’è di sapersi rinnovare? Incapace com’è di proporre un’alternativa vitale al cinema di largo consumo. Incapace com’è di confrontarsi con i desideri del pubblico. Si tratta di pragmatismo, e in materia di pragmatismo esiste un vero e proprio caso da manuale, quello di Chabrol. D’istinto, ha saputo subito imporre da solo su scala francese un sorprendente mercenarismo che è forse la migliore approssimazione al sistema americano dei film di serie B. Se avesse fatto dei film migliori, il che non era ontologicamente escluso dal suo modo di procedere, Chabrol avrebbe avuto una carriera esemplare: scivolando tra il passato e il presente, tra la cinefilia e la pratica, i momenti di grazia e la semplice macelleria, attraversando i generi, è stato al gioco, si è messo al servizio del cinema del suo tempo invece di adoperarsi per modellarlo a sua immagine e somiglianza. Questo vuol dire essere un cineasta, vuol dire essere rispettoso delle contingenze. Tenere conto dell’economia e tenere conto del pubblico è ancora il modo migliore che si sia trovato di appartenere alla propria epoca. Perché se chiunque ammette di buon grado che l’autore esiste prima delle opere, si può affermare ugualmente che l’epoca esiste prima dell’autore. È lei a riformulare continuamente le condizioni oggettive delle sue pratiche; ed è a lei che bisogna rendere conto. L’epoca si definisce mediante il rapporto che istituisce tra l’opera e il suo pubblico. Mediante le condizioni nelle quali permette apertamente, tacitamente o anche accidentalmente la sopravvivenza dell’artista. Il grande cineasta nasce dal suo tempo come il grande film nasce dall’incontro di un individuo con una cascata di casi storici. Prendete Il disprezzo, ecco l’esempio-tipo del film che non si poteva fare prima, che non si potrà più fare dopo. C’era solo quel cineasta a poterlo fare ed era necessario che lo facesse in quel momento, che era il momento giusto. E se oggi il cinema d’autore si trova in difficoltà, tanto finanziariamente quanto artisticamente, si ha il diritto di pensare che questo è dovuto al fatto che non sa parlare del proprio tempo con le parole del proprio tempo, che non sa trasformare l’aria che si respira in immagini.

Del resto, nel Disprezzo, Godard ha detto tutto questo meglio di quanto potrà mai essere detto. E per di più è una storia d’amore.

(Apparso sui numeri 352 e 353 dei Cahiers du cinéma, ottobre e novembre 1983)

 

[1] Caméra-stylo è un’espressione teorica che, assimilando il regista all’autore letterario, indica la cinepresa come se fosse la sua «penna». [n.d.t.]

[2] Protagonista della serie a fumetti Les aventures de Blake et Mortimer, che nell’episodio «Le piège diabolique» [La trappola diabolica] del 1962 viaggia nel tempo a bordo del «cronoscafo» del professor Miloch. [n.d.t.]

[3] Celebre e seguitissima trasmissione letteraria settimanale, andata in onda sulla televisione pubblica francese dal 1975 al 1990, in prima serata. [n.d.t.]