La sintesi di Hide Your Smiling Faces sta tutta nella prima inquadratura, che coagula l’identità del film in un singolo ritratto di morte: nella penombra di una riva sassosa, appena sfiorata dalle acque di un lago, un serpente cerca d’ingoiare un pesce ormai inerte, ma i suoi sforzi sono vani. L’impossibilità di assimilare la morte, all’interno di una natura dai meccanismi tanto precisi quanto spietati, si annuncia quindi agli occhi dei giovani protagonisti con un’immagine profetica ed emblematica, colta dal regista Daniel Patrick Carbone per puro caso, durante le riprese in New Jersey. In questo cortocircuito tra memorie personali e finzione cinematografica, dove le ambientazioni boschive corrispondono ai luoghi dell’infanzia dell’autore, Carbone isola un momento fondamentale nella vita dei fratelli Tommy ed Eric, rispettivamente un bambino e un adolescente, quando un brusco trauma li costringe ad affrontare la consapevolezza della loro mortalità: il piccolo Ian, amico di Tommy, viene ritrovato senza vita sulla sponda di un fiume, ai piedi di un vecchio ponte ferroviario dove i ragazzi passano spesso in bicicletta. Potrebbe essere caduto, o potrebbe essersi buttato dopo un litigio con il padre, furioso perché Ian si era messo a giocare con la sua pistola; non ha molta importanza. Carbone, infatti, evita di approfondire le cause della tragedia, poiché il suo interesse è attratto dalle conseguenze psicologiche e caratteriali che questo trauma comporta sui personaggi.

La carenza di spiegazioni concrete avvolge la vicenda in un alone quasi archetipico, dove i giochi di forza tra coetanei servono a testare la loro virilità ancora acerba, affrontando molteplici esperienze (l’immersione nel lago, la lotta, la notte trascorsa all’addiaccio) che si configurano come fondamentali riti di passaggio, sempre a contatto con la brutalità seducente della natura. In tal senso, pur affidandosi a una narrazione rarefatta, Carbone si allontana dall’approccio mentale e stilistico di Terrence Malick – spesso citato come riferimento ideale di questo esordio – per privilegiare un itinerario di durezza e cinismo che diverge anche dai modelli di David Gordon Green e Jeff Nichols, o dal cameratismo nostalgico di Stand By Me, con cui però condivide alcune tracce tematiche. Non c’è lirismo nella rappresentazione dei fenomeni naturali, non c’è spazio per sfumature magiche o elegiache nella transizione dall’infanzia all’età adulta: il lutto è un territorio sconosciuto dove nessuno sa come comportarsi, e il sorriso che sfugge sulle labbra dei due fratelli, proprio nel momento meno opportuno, cela il mistero inesplorabile di un’età che ignora il concetto di “morte”, o meglio, non lo concepisce in relazione a se stessa e al proprio quotidiano. È un’idea astratta e molto vaga, ma il film la concretizza, la manifesta, le dà carne e sangue nelle frequenti epifanie a cui assistono Tommy ed Eric, continuamente esposti allo spettacolo truce di animali deceduti e putrefatti che emergono dall’ombra dei boschi. Lo shock di questa nuova consapevolezza riecheggia nell’ambiente circostante, ma l’elaborazione del lutto è un processo accidentato, che passa dal conflitto con i propri genitori e con tutta la comunità dei “grandi”, a cominciare dal padre di Ian.

D’altra parte, gli adulti non hanno risposte da offrire: la loro arma principale è la fede, che però si dimostra inadeguata, utile solo per fornire rassicurazioni dogmatiche, stereotipate o preconfezionate («Il Signore opera per vie misteriose»), che rivelano una sostanziale accettazione passiva degli eventi tragici, senza alcuna capacità o volontà di riflessione. È inevitabile, di conseguenza, che i bambini si chiudano nel loro mondo, impermeabile e incomprensibile agli adulti. Un microcosmo in cui il silenzio è un patto implicito fra coetanei, e chi lo infrange – chi parla esplicitamente della morte e delle sue implicazioni – prende una deriva nichilista e autodistruttiva: è il caso di Tristan, migliore amico di Eric, sedotto da un desiderio di morte che provoca la diffidenza e poi la rabbia del suo compare, disturbato dalla morbosità di tale pensiero. S’innesca così un dialogo tra corpi che cercano spesso il contatto, sia come forma di offesa sia come espressione di solidarietà, ma sempre con quella naturalezza che nasce dall’improvvisazione, riducendo al contempo la distanza tra la personalità dei giovani attori e il carattere dei loro personaggi. In effetti, Hide Your Smiling Faces attinge in egual misura dalla memoria del suo autore e dall’identità dei suoi interpreti, mettendo in scena la famigerata linea d’ombra che separa l’incoscienza dall’autocoscienza, l’infanzia dall’età adulta, ognuna tormentata dai suoi spettri segreti. La cognizione della mortalità umana, per quanto integrata nelle leggi della natura, genera un misto di curiosità e terrore che trova sfogo soltanto alla radice dei fenomeni ambientali, dove la caligine ricopre i fili d’erba dopo le notti di pioggia, e lo scricchiolio dei ciottoli risuona sul sentiero: forse soltanto laggiù, e non fra le mura di casa, l’elaborazione della perdita può compiere il suo corso.

HIDE YOUR SMILING FACES, regia di Daniel Patrick Carbone, USA 2013, 81’