Scrive Pietro Citati che Leopardi “possedeva un'immensa vitalità”. Egli non sopportava “la noiosa esistenza quotidiana, nella quale i minuti si susseguono ai minuti”; desiderava invece “un tempo più rapido, più intenso, vertiginoso, in cui ogni istante fosse vivo e infinito”. “La vita, per Leopardi, non era altro che questo”, conclude Citati: “L'insaziabile movimento, la metamorfosi infinita di esseri minimi, appena visibili, che durano un attimo con un'intensità quasi intollerabile”.

Non saprei dire se Mario Martone abbia letto queste righe (ma credo proprio di sì). Certo è che la sua (ri)lettura di Leopardi è proprio così: intensamente vitalistica, concreta, “fisica”. Giacomo che corre a perdifiato per le strade di Recanati. Giacomo che si rannicchia sfinito all'ombra degli alberi. Giacomo che osserva dalla finestra – è un'immagine ricorrente – il grande spettacolo dell'umanità, rinchiuso com'è nell'ordine razionalista (e reazionario) di quell'altro mondo, quello di carta, l'amata/odiata biblioteca del parimenti amato/odiato genitore. Ma il Leopardi di Martone è quanto di più lontano vi sia da uno spirito meramente contemplativo, dal “saccentuzzo”, dall'”eremita”. È invece furiosamente attratto dal mondo reale, dalla sua vastità, dal suo disordine. Più ancora che “favoloso”, è un giovane curioso, avido di piaceri: dal tabacco da fiuto alla cioccolata, ai gelati.

Ma la vitalità di Giacomo è illusoria. Il suo corpo, compromesso da un misterioso “sistema” di malattie e dalla deformità, è già il corpo di un moribondo. Allora non apparirà un vezzo “lombrosian-strasberghiano” la tanto sbeffeggiata gobba di Leopardi/Elio Germano (peraltro efficace, sotto la direzione attenta del regista). Più che un romanzo di formazione, Il giovane favoloso è a tutti gli effetti un accostamento progressivo alla morte. Un itinerario di conoscenza e di sofferenza che ha come stazione conclusiva il ventre di una Napoli sepolcrale, in cui i segnali della fine sono sparsi ovunque: il culto delle capuzzelle, la minaccia del colera (“Voi gli aspettate invan, son tutti morti”, chiosa un mendicante nella città spopolata dall'epidemia, facendo il verso al Dialogo di un folletto e di uno gnomo), il “formidabil monte sterminator” del Vesuvio.

Il giovane favoloso, e non poteva essere altrimenti, procede con lo stesso passo del suo protagonista, instancabile flâneur: diseguale nel ritmo, si muove a strappi e a salti, alternando corse forsennate a pause inaspettate. Un perfetto correlato visivo dello stile leopardiano e del suo pensiero in perenne mutazione, “stupendo e tremendo”, secondo Pietro Giordani. Non è un caso, forse, che le pagine meno efficaci del film siano quelle che vorrebbero mettere in immagini le “visioni” leopardiane (con alcune cadute francamente evitabili: l'ultimo bacio tra Consalvo ed Elvira, dai Canti; il dialogo tra Giacomo e la Natura, ripreso dalle Operette morali), oppure “dare voce”(over) alla sua poesia, con effetti irrimediabilmente didascalici.

In questo tortuoso viaggio verso la morte, attraversiamo in compagnia del protagonista un'Italia piccola piccola, provinciale, da opera buffa. Siano essi aristocratici codini o velleitari riformatori, i grandi personaggi della cultura ottocentesca, da Colletta a Vieusseux, dal solo evocato Manzoni a Tommaseo, scrutati dalle distanze “siderali” di Leopardi, ci appaiono come figure di un teatrino di marionette, “pulcinelli e baroni fottuti”. Quasi una anticipazione dell'Italia “gretta, superba e assassina” descritta da Martone nel precedente Noi credevamo – e a legare questo film al precedente ritroviamo Roberto de Francesco e il suo cardillo…  – posta questa volta sotto il segno di Rossini (per quanto “increspato” dalle sonorità inaspettate di Sascha Ring) piuttosto che sotto quello del melodramma verdiano.

In questa Italia inconsapevolmente ridicola, Giacomo si muove con un aria fintamente remissiva: si autodefinisce absent, ma è tutt'altro che conciliante. E fra le tante maschere di questa commedia la sua “difformità” gli permette di ritagliare per sé stesso il ruolo del fool shakespeariano, del servo ribelle della commedia dell'arte: un arlecchino forse, o persino – così lo apostrofa a un certo punto Giordani – un Leporello. Un ruolo che ne fa naturalmente la vittima di cocenti delusioni (l'amore non corrisposto per Fanny), di situazioni paradossali (l'interminabile anticamera in casa Antici) e di crudeli burle (l'episodio dell'ermafrodito); ma ne fa anche colui cui è concesso di ribaltare il senso comune, di demolire ogni pretesa di certezza, munito soltanto della forza del dubbio… e dell'arma del comico. Il comico, sì. Perché “terribile ed awful è la potenza del riso”, scrive Leopardi nello Zibaldone: “chi ha il coraggio di ridere è padrone degli altri, come chi ha il coraggio di morire”.

E nello splendido finale con La ginestra, nel quale la voce del poeta ci conduce dalle campagne partenopee fino nelle profondità del cosmo a contemplare la vanità di tutte le cose umane, non posso fare a meno di sentir rimbombare, nel vuoto assoluto, la sua risata di Divino Briccone.

IL GIOVANE FAVOLOSO, regia di Mario Martone, Italia/Francia 2014, 137'.