Il passaggio di stato dall’acqua liquida al ghiaccio è un comunissimo fenomeno fisico. Un piccolo, naturale trauma nel tessuto materiale. Un’esperienza banale, che chiunque conosce e a cui non si dà peso. Ma per Jenny, che a diciassette anni ha perso la madre e si ritrova in casa con un padre disoccupato e gravemente depresso e un fratello di nove anni, il cambiamento di stato è più di un insignificante fenomeno chimico: la confisca della casa impone alla famiglia di lasciare Ostia, il mare e le piscine in cui si allena per diventare una campionessa di nuoto sincronizzato, e di trasferirsi in una baracca a Passo San Leonardo, tra le cime innevate degli Appennini. Così, la ragazza abbandona il ventre materno e protettivo della piscina olimpionica, in cui si sente sicura e vincente, e si ritrova nel mezzo di una desolata distesa bianca, improvvisamente adulta e insicura, con un padre da accudire e un fratello da crescere. La neve le è nemica, è infida e ostacola i suoi tentativi di portare comunque avanti gli allenamenti per il campionato mondiale.
Jenny riesce però a iscrivere il piccolo Fabrizio nell’unica scuola dei dintorni, nonostante le titubanze della preside (prezioso cammeo di Piera degli Esposti), e comincia a lavorare nel desolato albergo Splendor, una sorta di Overlook Hotel immerso nel ghiaccio e abitato da spettri: un’altra giovane inserviente e il custode dello skilift, un uomo burbero e, a quanto si dice, squilibrato. Eppure, quello scenario dimenticato da Dio offre alla giovane un’inattesa via di fuga, che la riporta dal ghiaccio all’acqua: la piscina per gli ospiti dell’albergo, che nessuno usa e in cui lei, di notte, può segretamente allenarsi e provare le coreografie per i campionati. Ma la vita, più che a una sicura piscina, assomiglia ai cristalli di neve che di giorno in giorno appesantiscono i rami spogli degli alberi – dettaglio su cui spesso lo sguardo di Lamberto Sanfelice, al suo primo lungometraggio, indugia – e le vicende intorno a Jenny si complicano, le tolgono il fiato e la spingono verso un bivio da cui non può semplicemente distogliere lo sguardo.
Cloro è un’opera che merita attenzione, e non solo – o non tanto – per esser stato selezionato al Sundance e alla Berlinale: è un film maturo, con una sceneggiatura (scritta insieme a Elisa Amoruso, pluripremiata autrice di Fuoristrada) che costruisce con umiltà un classico racconto di formazione. Muovendosi lentamente tra gli sguardi di un’algida Sara Serraiocco, gli ambienti ostili e mozzafiato insieme, la sofferenza di un padre inadeguato (interpretato da Giorgio Colangeli) e gli occhi malinconici del piccolo Ivan Franek, il regista ci conduce nelle pieghe di un’adolescenza che finisce all’improvviso, suo malgrado, per lasciare spazio all’età adulta: un traumatico passaggio di stato, appunto. In essa, le ambizioni sfumano e le responsabilità si fanno incombenti. In una bella sequenza Jenny nuota appena sotto il filo dell’acqua, ma la ripresa è capovolta, come fosse un’allegoria della sua vita sottosopra, sospesa e riflessa in uno specchio difettoso. La traccia sonora del film è un evocativo intreccio di silenzi: quello sordo dell’acqua, quello ovattato della neve, quello struggente del padre muto e quello giudicante di Fabrizio, dietro la finestra della scuola. È nel silenzio, dove mancano le urla delle sue compagne che provano le coreografie, il traffico della città e lo strillo dei gabbiani, che Jenny diventa adulta.
In fondo, questa giovane donna impara della vita quello che sa benissimo della piscina: a volte è necessario stare in apnea più a lungo di quanto si vorrebbe; e il cloro, come le ineluttabili sofferenze dell’esistenza, è necessario per poter stare in vasca, nonostante arrossi gli occhi e li faccia lacrimare.
Cloro, regia di Lamberto Sanfelice, Italia, 2015, 94'